Discussione:
Senso e significato
(troppo vecchio per rispondere)
uahlim
2005-09-04 19:05:07 UTC
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Che differenza c'e' tra senso e significato? Per pensatori diversi od
epoche diverse i due termini hanno acquisito un senso od un significato
diverso?
Grazie.
--
genti diverse, venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.

questo articolo e` stato inviato via web dal servizio gratuito
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Signor K.
2005-09-04 20:23:20 UTC
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Post by uahlim
Che differenza c'e' tra senso e significato? Per pensatori diversi od
epoche diverse i due termini hanno acquisito un senso od un significato
diverso?
Direi di sì, ti rimando al saggio "Senso e significato" di G. Frege (1882).
Ma anche "Sul riferimento" (1951)di P.F. Strawson.

Stando a Wittgenstein, comunque, il significato di una parola sta nell'uso
che ne facciamo, cioè nel modo in cui viene impiegato all'interno dei giochi
linguistici. Con ciò voleva dire che le parole in sé non hanno un
significato, ma lo assumono all'interno delle dinamiche dei giochi
linguistici.

Strawson, nel saggio citato, sostiene che il significato di una parola
consiste nel "voler menzionare o riferirsi a qualcosa". Questo significa che
non è la parola a riferirsi a qualcosa, ma è un parlante che *usa* una
parola per riferirsi a qualcosa.

Quando una parola non ha significato allora il parlante non è riuscito a
riferirsi a nulla oppure ha infranto le regole del gioco linguistico a cui
sta giocando. Il significato è quindi il voler far rappresantare all'altro
parlante un oggetto a cui ci si vuole riferire mediante l'uso di una parola.

Il senso ha a che fare più che altro con le proposizioni e non con la
singola parola. Una proposizione per avere senso deve essere formulata in
modo grammaticale corretto. "Il cielo è azzurro" ha senso nella lingua
italiana, ma la frase "azzurro cielo il è" non lo ha - sebbene possiamo
intuirlo. Dunque, una proposizione ha un senso quando esprime un pensiero
comprensibile, quando *può* comunicare qualcosa.

Naturalmente non è detto che qualcosa che ha senso, cioè è comprensibile,
comunichi *effettivamente qualcosa*. Strawson fa il seguente esempio:

(1) L'attuale re di Francia è calvo.

Si tratta di una proposizione che ha senso, poiché è formulata in modo
corretto dal punto di vista grammaticale. Tuttavia non è detto che i singoli
sostantivi o sintagmi impiegati e combinati all'interno della proposizione
abbiano un significato.

Ed infatti "L'attuale re di Francia è calvo" è composta da un soggetto ed un
predicato. Il soggetto è il sintagma denotativo "l'attuale re di Francia";
il significato de "l'attuale re di Francia" sarebbe la rappresentazione
mentale dell'oggetto che si *vuole menzionare*. Ma qui il parlante commette
un errore di comunicazione perché, considerando il mondo attuale, "l'attuale
re di Francia" non menziona alcun oggetto - la Francia non è una monarchia e
quindi "non c'è qualcosa che è l'attuale re di Francia". La reazione di chi
ti ascolta allora sarà: "ma a chi o a cosa ti riferisci?".

Una proposizione che è composta da sintagmi denotativi privi di significato
non può essere né vera né falsa. E' chiaro che qui si sta parlando di
proposizione sintetico a posteriori, ma è pur vero che esistono sintagmi o
proposizioni che sono privi di significato e che tuttavia hanno un senso.

Frege, nel saggio da me citato, fa l'esempio de "il più grande numero
naturale primo". Questa sintagma ha senso, comprendiamo "il più grande
numero naturale pirmo", ma allo stesso tempo non denotiamo un bel nulla:
manca l'estensione del concetto-sintagma.

Ciao,
K.
Marco V.
2005-09-04 23:04:41 UTC
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Post by Signor K.
Post by uahlim
Che differenza c'e' tra senso e significato? Per pensatori diversi od
epoche diverse i due termini hanno acquisito un senso od un significato
diverso?
Direi di sì, ti rimando al saggio "Senso e significato" di G. Frege (1882).
Ma anche "Sul riferimento" (1951)di P.F. Strawson.
Stando a Wittgenstein, comunque, il significato di una parola sta nell'uso
che ne facciamo, cioè nel modo in cui viene impiegato all'interno dei giochi
linguistici. Con ciò voleva dire che le parole in sé non hanno un
significato, ma lo assumono all'interno delle dinamiche dei giochi
linguistici.
Questo però è il secondo Wittgenstein:-). Per il primo, quello fregeiano del
Tractatus, il significato consiste in definitiva nelle *condizioni di
verità* della proposizione. E ciò stabilisce un nesso decisivo tra
significato e verità - nesso dal quale il "senso" sarebbe apparentemente
escluso. Questo, beninteso, all'interno di tale teoria. Che però va da
Aristotele fino a Frege e al Wittgenstein del Tractatus ed oltre.

Quanto a Frege, a margine della tua illustrazione andrebbe osservato che per
lui tra "senso" e "significato" intercorre - per quanto riguarda i
sintagmi - la stessa differenza che intercorre tra "l'autore della
Metafisica" e "il maestro di Alessandro Magno" da una parte e "Aristotele"
dall'altro. Le prime due espressioni hanno "senso" differente ma
"significato" identico - quel significato in cui Aristotele, come loro
denotazione, consiste. Quanto alle proposizioni, in cui quei sintagmi
possono fungere da soggetto, il "senso" è per Frege il pensiero espresso
dalla proposizione (il "contenuto", potremmo dire). Laddove il "significato"
della proposizione è il suo "valore di verità" ("vero", "falso") - sì che
nella semantica fregeana le proposizioni denotano quegli "oggetti"
costituiti dai due "valori di verità": ne sono dunque, in un certo senso, il
*nome*. "Il maestro di Alessandro Magno nacque a Stagira" (=P) - il cui
senso *differisce* da "L'autore della Metafisica nacque a Stagira"(=Q) - è
dunque uno degli infiniti nomi del "vero". Se in P sostituisco "l'autore
della Metafisica"(=q) a "il maestro di Stagira"(=p) (in modo da ottenere Q
da P), il valore di verità della proposizione non cambia, giacchè P e Q
hanno il medesimo "significato", cioè la medesima denotazione: denotano
entrambe il vero.

Ci si è poi accorti che questa invarianza del valore di verità per
sostituzione, nelle proposizioni, di sintagmi aventi la medesima
denotazione, non vale in tutti i contesti discorsivi ("Marco disse: P" è
vera se e solo se Marco disse che P. Poniamo che Marco abbia detto realmente
P. Ora, se al posto di p ci metto q ed ottengo "Marco disse: Q", ottengo una
proposizione *falsa*. Infatti Marco disse che P e non che Q).

A livello storico, la differenza tra senso e significato che trova in Frege
la sua prima codificazione formale, era ben nota agli antichi.
Specificamente, ai medioevali. S. Tommaso, ad esempio.

Un saluto,

Marco
Signor K.
2005-09-04 23:46:53 UTC
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Post by Signor K.
Post by Signor K.
Post by uahlim
Che differenza c'e' tra senso e significato? Per pensatori diversi od
epoche diverse i due termini hanno acquisito un senso od un significato
diverso?
Direi di sì, ti rimando al saggio "Senso e significato" di G. Frege
(1882).
Post by Signor K.
Ma anche "Sul riferimento" (1951)di P.F. Strawson.
Stando a Wittgenstein, comunque, il significato di una parola sta nell'uso
che ne facciamo, cioè nel modo in cui viene impiegato all'interno dei
giochi
Post by Signor K.
linguistici. Con ciò voleva dire che le parole in sé non hanno un
significato, ma lo assumono all'interno delle dinamiche dei giochi
linguistici.
Questo però è il secondo Wittgenstein:-).
Chiaro.
Post by Signor K.
Per il primo, quello fregeiano del
Tractatus, il significato consiste in definitiva nelle *condizioni di
verità* della proposizione. E ciò stabilisce un nesso decisivo tra
significato e verità - nesso dal quale il "senso" sarebbe apparentemente
escluso.
Certo. Anche perché se una sintagma non rinvia ad alcuna rappresentazione di
qualsiasi oggetto o stato di fatti non è possibile stabilirne il valore di
verità - dire se è vero o falso..
Post by Signor K.
Quanto a Frege, a margine della tua illustrazione andrebbe osservato che per
lui tra "senso" e "significato" intercorre - per quanto riguarda i
sintagmi - la stessa differenza che intercorre tra "l'autore della
Metafisica" e "il maestro di Alessandro Magno" da una parte e "Aristotele"
dall'altro. Le prime due espressioni hanno "senso" differente ma
"significato" identico - quel significato in cui Aristotele, come loro
denotazione, consiste. Quanto alle proposizioni, in cui quei sintagmi
possono fungere da soggetto, il "senso" è per Frege il pensiero espresso
dalla proposizione (il "contenuto", potremmo dire). Laddove il
"significato"
della proposizione è il suo "valore di verità" ("vero", "falso") - sì che
nella semantica fregeana le proposizioni denotano quegli "oggetti"
costituiti dai due "valori di verità": ne sono dunque, in un certo senso, il
*nome*.
Sono d'accordo, quindi non so se il tuo fosse un appunto al mio intervento.
Il senso di Aristotele può essere "il maestro di Alessandro Magno".
"Aristotele è il maestro di Alessandro Magno" (A), ci comunica che "esiste
qualcosa che è Aristotele" e che "qualsiasi cosa sia Aristotele è il maestro
di Alessandro Magno". Ma non bisogna confondere il senso con il significato.
La proposizione (A) ha senso, dunque può essere vera o falsa. Ma a dare le
condizioni di verità, o meglio le premesse del valore di verità delle
proposizioni in cui appare "Aristotele" è il fatto che "Aristotele" abbia un
denotato e quindi un significato. Detto in altre parole se "Aristotele" non
fosse quel nome attraverso cui ci indichiamo ed identifichiamo un uomo
concreto, che è esistito in un dato periodo storico, allora macherebbe la
condizione di verità dell'enunciato (A).
Post by Signor K.
[...]
Ci si è poi accorti che questa invarianza del valore di verità per
sostituzione, nelle proposizioni, di sintagmi aventi la medesima
denotazione, non vale in tutti i contesti discorsivi ("Marco disse: P" è
vera se e solo se Marco disse che P. Poniamo che Marco abbia detto realmente
P. Ora, se al posto di p ci metto q ed ottengo "Marco disse: Q", ottengo una
proposizione *falsa*. Infatti Marco disse che P e non che Q).
E meno male. :-)
Post by Signor K.
A livello storico, la differenza tra senso e significato che trova in Frege
la sua prima codificazione formale, era ben nota agli antichi.
Specificamente, ai medioevali. S. Tommaso, ad esempio.
Sicuramente, ma d'altra parte si è continuato a fare confusione tra
intensivo ed estensivo per molto tempo.

Un saluto,
K.
Marco V.
2005-09-05 09:46:04 UTC
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Post by Signor K.
Sono d'accordo, quindi non so se il tuo fosse un appunto al mio intervento.
Nessun appunto, ovviamente. Solo, un completamento.
Post by Signor K.
Il senso di Aristotele può essere "il maestro di Alessandro Magno".
"Aristotele è il maestro di Alessandro Magno" (A), ci comunica che "esiste
qualcosa che è Aristotele" e che "qualsiasi cosa sia Aristotele è il maestro
di Alessandro Magno". Ma non bisogna confondere il senso con il significato.
La proposizione (A) ha senso, dunque può essere vera o falsa. Ma a dare le
condizioni di verità, o meglio le premesse del valore di verità delle
proposizioni in cui appare "Aristotele" è il fatto che "Aristotele" abbia un
denotato e quindi un significato. Detto in altre parole se "Aristotele" non
fosse quel nome attraverso cui ci indichiamo ed identifichiamo un uomo
concreto, che è esistito in un dato periodo storico, allora macherebbe la
condizione di verità dell'enunciato (A).
Già. A meno che, stravolgendo la teoria semantica in cui ci stiamo muovendo,
non identifichiamo il senso stesso con la verità, in modo che le condizioni
di verità siano sempre realizzate in virtù della sensatezza stessa della
proposizione. Potremmo cioè partire dal Wittgenstein del Tractatus, secondo
il quale comprendere una proposizione è sapere che cosa accade se essa è
vera, ed osservare che perchè possa comprendere la proposizione "gli asini
volano" è necessario che io *immagini* un contesto nel quale risulta che gli
asini volano. Ma allora che cosa mi impedisce di considerare questa immagine
come il "modello" (teniamo anche presente il significato che il termine
"modello" ha nella logica contemporanea la quale, dobbiamo dire, non fa
altro che sviluppare coerentemente la teoria "classica" della verità; vedi
il mio post del 23.08 nel thread "...sull'ipotesi del continuo") che
*verifica*, cioè rende vera, la proposizione "gli asini volano"? Se non
riusciamo a disinnescare questa conclusione, se cioè non riusciamo ad
impedire che la sensatezza di una proposizione richieda l'esistenza di un
"modello" nel quale le sue condizioni di verità si trovino realizzate,
allora - e questo*all'interno* della teoria corrispondentistica della
verità - saremo costretti a dire che l'esclusione della verità di "gli asini
volano" si fonda solo sulla scelta di un determinato "modello".

Tradotto in termini terra terra. Se è data la differenza tra "realtà reale"
e "realtà mentale", ma se entrambi questi termini denotano dei "modelli",
perchè mai la verità di "asini volano"(=P) deve essere decisa dal primo
"modello" e non dal secondo? Domanda in perfetto stile-Uahlim:-), ma direi
alquanto opportuna filosoficamente! Se mi si obietta che sono gli asini
della "realtà reale" - gli asini realmente reali, potremmo dire - dei quali
P afferma il non-volare, allora mi sarebbe possibile ridurre P, così
interpretata, ad un giudizio analitico: gli asini-che-non volano, non
volano. E comunque, potrei introdurre ulteriori modelli per "gli asini
realmente reali, non volano".

Un saluto,

Marco
Davide Pioggia
2005-09-05 20:53:46 UTC
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Post by Marco V.
Tradotto in termini terra terra. Se è data la differenza tra "realtà
reale" e "realtà mentale", ma se entrambi questi termini denotano dei
"modelli", perchè mai la verità di "asini volano"(=P) deve essere decisa
dal primo "modello" e non dal secondo?
Secondo me la faccenda la state "psicologizzando" troppo (e se lo dico io!)

Se vogliamo costruire una semantica fondata sulla verità delle proposizioni,
dobbiamo dire che un contesto è *estensionale* quando possiede le seguenti
proprietà:

1) sostituzione di termini coreferenziali
P(a) & a=b => P(b)
(se è vero P(a) di a, ed a e b hanno lo stesso referente,
allora è vero P(b))

2) generalizzazione esistenziale
P(a) => esiste x tale che P(x) è vera
(ciò di cui si parla esiste).

Come dicevo, quando valgono entrambe queste proprietà diciamo che il
contesto è estensionale, altrimenti, se ne viene a meno anche una sola,
diciamo che è *intensionale*.

Tutto ciò, però, non ha a che fare con la "mente" o la "psiche", tant'è che
ho potuto fornire quella definizione senza ricorrere a questi termini.

Qualcuno potrebbe osservare che quel "esiste" individua una "realtà" che sta
al di fuori della "mente", ma siamo partiti dal presupposto che il
"significato" è definito dalla verità delle proposizioni, e dunque quando
diciamo "come funzionano", logicamente, i connettivi logici non stiamo
parlando dell'_esse in re_ e dell'_esse in intellectu_, ma stiamo
semplicemente definendo il "significato" di quei connettivi.

D'altra parte io posso anche fare riferimento ad un contesto in cui Renzo e
Lucia "esistono". Ad esempio se dico che la promessa sposa di Renzo è una
donna, e aggiungo che la promessa sposa di Renzo è Lucia, ne consegue che
Lucia è una donna, sicché siamo pienamente in un contesto estensionale (con
tanto di sostituzione dei termini coreferenziali e generalizzazione
esistenziale). Esistono dunque dei contesti estensionali che non sono
"oggettivi".

Viceversa, esistono dei contesti intensionali che sono puramente
"oggettivi". C'è un bell'esempio di Tim Crane, il quale osserva che se io
affermo che il numero delle monete che ho in tasca è cinque, e poi aggiungo
che cinque è necessariamente dispari, non posso concludere che allora il
numero delle monete che ho in tasca è necessariamente cinque, dunque non
vale la sostituzione dei termini, e ne consegue che quel "necessariamente"
produce un contesto intensionale, benché si stia parlando di tutte cose
"oggettive" (le monete in tasca, le proprietà dei numeri).

In sostanza, sono d'accordo con K. che tutte queste faccende alla fine
riconducono alla contrapposizione fra intensivo ed estensivo (e, dunque, al
"triangolo semiotico") e che pertanto ogni maliteso e ogni paradosso sia
prodotto dalla confusione che si fa spesso fra quei due aspetti del
"significato". Però penso anche che si possa risolvere la questione senza
fare riferimenti più o meno diretti alla "mente" (psiche, intelletto, o quel
che è).

(Poi ho le mie buone ragioni per ritenere che ci siano delle ragioni
*psicologiche* alla base del desiderio della filosofia e della scienza di
fare a meno di riferimenti *psicologici* e di fondare tutto in modo
"oggettivo". Ma questa è un'altra faccenda. Se mi chiedo se è possibile far
a meno della psiche per dare una certa definizione e credo che sia possibile
farlo devo dire che se ne può fare a meno. Poi, secondariamente, posso
chiedermi per quale ragione la psiche voglia avere dei fondamenti non
psicologici, e dare a questo problema una risposta psicologica. Secondo me
chi voglia veramente "psicologizzare" la filosofia non lo deve fare
"impicciandosi" nel suo contesto. Sarebbe come uno psicologo da strapazzo
che per analizzare la psiche dei matematici cominciasse a studiare i
passaggi delle dimostrazioni dei teoremi per cercare di dimostrare che
alcuni di quei passaggi fanno uso principi che stanno sui libri di
psicologia, sicché la matematica verrebbe ad essere "incompleta" o "aperta"
rispetto alla psicologica. No, lasciamo che i matematici vadano fino in
fondo nel loro lavoro di "epslulsione" e poi analizzaziamo la psicologia di
quella "espulsione". Per altro uno può anche partecipare a quel lavoro di
esplulsione, e poi "osservarsi" da un punto di vista psicologico mentre lo
compie. Però anche in questo caso se costui mi tira fuori il complesso di
Edipo per dimostrare il teorema di Pitagora non ci siamo proprio, e sono io
il primo a rimandarlo a casa a studiare la geometria.)
--
Ciao.
D.
uahlim
2005-09-05 21:15:20 UTC
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Post by Davide Pioggia
Se vogliamo costruire una semantica fondata sulla verità delle proposizioni,
dobbiamo dire che un contesto è *estensionale* quando possiede le seguenti
1) sostituzione di termini coreferenziali
P(a) & a=b => P(b)
(se è vero P(a) di a, ed a e b hanno lo stesso referente,
allora è vero P(b))
2) generalizzazione esistenziale
P(a) => esiste x tale che P(x) è vera
(ciò di cui si parla esiste).
Come dicevo, quando valgono entrambe queste proprietà diciamo che il
contesto è estensionale, altrimenti, se ne viene a meno anche una sola,
diciamo che è *intensionale*.
Mi fai un esempio di contesto intensionale?
A me pare ad occhio che i due teoremi valgano sempre.
Anche perche' noi siamo interessati a P piu' che ad a, e definiamo spesso
gli a dall'insieme dei loro P di interesse e quindi c'e' sempre la
psicologia, mazza se c'e'!.
Paecunia non olet riassume molto bene il concetto a mio avviso, il denaro
ci interessa per quello che possiamo farci, non per la sua essenza in se'.
Ma anche le persone, se per ipotesi una persona fosse completamente
rifatta molecola su molecola ma con tutte le sue proprieta', i suoi
ricordi, i suoi sentimenti, il suo comportamento esterno fosse lo stesso,
per noi sarebbe la stessa persona.
In fondo a=b quando tutte le P(a) coincidono con le P(b), ove tutte si
intende tutte quelle di interesse.

E viceversa una persona reincarnata con proprieta' tutte mutate e senza il
ricordo della vita precedente in fondo ci sembra che sia un'altra persona.

Troveremmo impensabile ad esempio che Adolf Hitler possa essere la
reincarnazione di Gesu' Cristo.
Ma chi puo' dirlo?
Ed avrebbe senso affermarlo o negarlo?
E la reincarnazione ha senso in fondo solo perche' comunque le proprieta'
si trasmettono sotto forma di meriti o colpe da una vita all'altra che
peggiorino o migliorino la condizione di vita.
Ma in fondo potrebbe essere lo stesso per gli utenti di un gabinetto
pubblico: chi sporca prima poi rende il bagno inservibile per chi viene
dopo che quindi e' una sua reincarnazione in quanto vive bene o male per
una colpa od un merito in una vita precedente.
--
genti diverse, venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.

questo articolo e` stato inviato via web dal servizio gratuito
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Davide Pioggia
2005-09-05 21:45:11 UTC
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Post by uahlim
Mi fai un esempio di contesto intensionale?
A me pare ad occhio che i due teoremi valgano sempre.
P1: Emilio non crede che l'autore dell'Odissea fosse cieco
P2: l'autore dell'Odissea è Omero

da queste *non* segue necessariamente che:

P3: Emilio non crede che Omero fosse cieco

perché Emilio potrebbe non credere (o non sapere) che l'autore dell'Odissea
è Omero, e potrebbe essersi limitato a leggere l'Odissea trovando in essa la
descrizione di certi particolari che, secondo lui, un cieco - chiunque egli
fosse - non potrebbe aver fatto.

Un altro esempio (quello delle monete) lo trovi nel mio primo post
precedente.

C'è poi tutta la nota casistica dei vari "cerchi quadrati", eccetera, cioè
tutta roba di cui si può parlare, che ha un senso, ma non ha alcun
referente, e quindi non esiste (in questo caso non vale la generalizzazione
esistenziale).

Non solo, ma c'è un certo sillogismo di Aristotele che produce una
contraddizione quando si dia per scontato che tutto ciò di cui si parla
esiste. E siccome i sillogismi si devono poter ricavare solo ed
esclusivamente dal principio di non contraddizione, se si dà per scontato
che tutto ciò di cui si parla esiste allora abbiamo il principio di non
contraddizione che contraddice il principio di non contraddizione! Fu una
"svista" di Aristotele che produsse la cosiddetta "fallacia esistenziale".
--
Ciao,
D.
uahlim
2005-09-05 22:30:18 UTC
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Post by Davide Pioggia
Post by uahlim
Mi fai un esempio di contesto intensionale?
A me pare ad occhio che i due teoremi valgano sempre.
P1: Emilio non crede che l'autore dell'Odissea fosse cieco
P2: l'autore dell'Odissea è Omero
P3: Emilio non crede che Omero fosse cieco e nel contempo abbia scritto
l'Odissea.

P1(x) in realta' e' una frase composta del tipo esiste un x tale che x
abbia scritto l'Odissea (ossia non credo che l'odissea sia nata per caso,
esiste un autore) assieme a per tutti gli x che compongono il mio
universo degli enti se p(x] allora q(x), ossia, se x ha scritto l'odissea
allora x non e' cieco, non e' affatto l'affermazione di una proprieta' di
un ente a o b specifici, ma solo dell'esistenza di un ente che abbia certe
proprieta' e del teorema che per tutti gli enti vale che se hanno una
certa proprieta' (ente ipotetico) allora ne hanno un'altra.

E' solo l'abbreviazione del linguaggio che ha trasformato a ente ipotetico
in un apparente ente reale.

Ma la sostituzione va fatta con quelle frasi ed allora ha senso.

Io deduco di credere che se Omero e' l'autore dell'Odissea allora non e'
cieco se credo che l'autore dell'Odissea non fosse cieco che significa che
credo che se x ha scritto l'Odissea allora non era cieco.

Perche' P(a) non e' Io credo che x sia cieco.

Perche' l'espressione autore dell'Odissea indica una condizione, un se, e'
gia' ente che agisce, non semplice ente.
--
genti diverse, venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.

questo articolo e` stato inviato via web dal servizio gratuito
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Davide Pioggia
2005-09-06 02:29:15 UTC
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Post by uahlim
P1(x) in realta' e' una frase composta del tipo esiste un x tale che x
abbia scritto l'Odissea...
Mi sa che non ci siamo capiti.

Provo a fare un altro esempio.

Supponiamo che io dica:

L'autore dell'Adelchi e l'autore dei Promessi Sposi
sono la stessa persona.

Dal momento che

autore dell'Adelchi = Alessando Manzoni

allora questo dovrebbe implicare che:

Alessandro Manzoni e l'autore dei Promessi Sposi
sono la stessa persona.

Questa, effettivamente, è ancora vera, anche se già abbiamo l'impressione
che non abbia lo stesso "significato" della prima che avevo scritto.
Comunque sia, proviamo ad andare avanti, applicando di nuovo la nostra
"regoletta". Abbiamo infatti che:

autore dei Promessi Sposi = Alessandro Manzoni

e dunque segue che:

Alessando Manzoni e Alessandro Manzoni sono la stessa persona.

Questa è sicuramente vera, ma a questo punto ci è rimasta una banale
tautologia, il che vuol dire che nella prima proposizione c'era qualcosa di
"intensionale" che è andato perduto.

Ma fino a qui abbiamo solo delle affermazioni che si trasformano in
tautologie, ed uno potrebbe obiettare che a rigore le tautologie sono sempre
vere, dunque non è stato commesso alcun "errore logico".

Bene, allora andiamo avanti, e supponiamo che in testo di storia della
letteratura tu legga la seguente affermazione:

Alessandro Manzoni e l'autore dei Promessi Sposi
*non* sono la stessa persona.

Ora, tu potrai anche non essere d'accordo con questa affermazione, potrai
dire che è espressa in modo inusuale, e tutto quello che ti pare. Ma ciò
non toglie che quella affermazione ha un significato ben preciso, e tu
capisci benissimo cosa voleva dire colui che ha scritto quella affermazione.
Eppure da quella affermazione si potrebbe ricavare che

Alessando Manzoni e Alessandro Manzoni
*non* sono la stessa persona

la quale è sempre falsa, a dimostrazione del fatto che il contesto era
*intensionale*, non estensionale.
--
Ciao,
D.
Davide Pioggia
2005-09-06 02:59:39 UTC
Permalink
Post by Davide Pioggia
Bene, allora andiamo avanti, e supponiamo che in testo di storia della
Alessandro Manzoni e l'autore dei Promessi Sposi
*non* sono la stessa persona.
ERRATA CORRIGE

L'autore dell'Adelchi e l'autore dei Promessi Sposi
*non* sono la stessa persona.
Post by Davide Pioggia
Alessando Manzoni e Alessandro Manzoni
*non* sono la stessa persona
--
Ciao,
D.
uahlim
2005-09-06 06:54:09 UTC
Permalink
Post by Davide Pioggia
Post by uahlim
P1(x) in realta' e' una frase composta del tipo esiste un x tale che x
abbia scritto l'Odissea...
Mi sa che non ci siamo capiti.
Provo a fare un altro esempio.
L'autore dell'Adelchi e l'autore dei Promessi Sposi
sono la stessa persona.
Dal momento che
autore dell'Adelchi = Alessando Manzoni
Alessandro Manzoni e l'autore dei Promessi Sposi
sono la stessa persona.
Questa, effettivamente, è ancora vera, anche se già abbiamo l'impressione
che non abbia lo stesso "significato" della prima che avevo scritto.
Comunque sia, proviamo ad andare avanti, applicando di nuovo la nostra
autore dei Promessi Sposi = Alessandro Manzoni
Alessando Manzoni e Alessandro Manzoni sono la stessa persona.
Questa è sicuramente vera, ma a questo punto ci è rimasta una banale
tautologia, il che vuol dire che nella prima proposizione c'era qualcosa di
"intensionale" che è andato perduto.
Ma fino a qui abbiamo solo delle affermazioni che si trasformano in
tautologie, ed uno potrebbe obiettare che a rigore le tautologie sono sempre
vere, dunque non è stato commesso alcun "errore logico".
Bene, allora andiamo avanti, e supponiamo che in testo di storia della
Alessandro Manzoni e l'autore dei Promessi Sposi
*non* sono la stessa persona.
Ora, tu potrai anche non essere d'accordo con questa affermazione, potrai
dire che è espressa in modo inusuale, e tutto quello che ti pare. Ma ciò
non toglie che quella affermazione ha un significato ben preciso, e tu
capisci benissimo cosa voleva dire colui che ha scritto quella affermazione.
Eppure da quella affermazione si potrebbe ricavare che
Alessando Manzoni e Alessandro Manzoni
*non* sono la stessa persona
la quale è sempre falsa, a dimostrazione del fatto che il contesto era
*intensionale*, non estensionale.
Il contesto? Io direi i contesti.
Interessante il giochino di prendere l'universo delle convinzioni di due
persone ed affermare che il contesto e' uno solo dato dall'unione di
entrambe.
--
Per me l'universo ha un senso proprio perche' e' privo di significati.

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uahlim
2005-09-05 23:10:45 UTC
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Post by Davide Pioggia
Non solo, ma c'è un certo sillogismo di Aristotele che produce una
contraddizione quando si dia per scontato che tutto ciò di cui si parla
esiste.
Se tutto cio' di cui si parla esiste, il verbo esistere non e' un verbo di
tale universo linguistico.
E quindi non vedo come possa portare a fallacia tale premessa.
--
genti diverse, venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.

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Davide Pioggia
2005-09-06 02:46:08 UTC
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Post by uahlim
Post by Davide Pioggia
Non solo, ma c'è un certo sillogismo di Aristotele che produce una
contraddizione quando si dia per scontato che tutto ciò di cui si parla
esiste.
Se tutto cio' di cui si parla esiste, il verbo esistere non e' un verbo di
tale universo linguistico.
E quindi non vedo come possa portare a fallacia tale premessa.
Il "Baroco" è fatto così:

Tutti i P sono M
Qualche S non è M
<allora>
Qualche S non è P

Ora, se noi applichiamo il Baroco nel caso in cui S=P, si ha:

Tutti i P sono M
Qualche P non è M
<allora>
Qualche P non è P

che ha come conclusione una contraddizione!

Non abbiamo nessuna ragione per affermare che il sillogismo non vale quando
S=P, dunque sembra proprio che da un sillogismo "valido" si possa ricavare
una contraddizione.

In realtà i "calcoli" di Aristotele sono sbagliati, perché egli applica
sistematicamente la "generalizzazione esistenziale" al "per ogni" (=Tutti) e
questo, come ha mostrato Russell, in alcuni casi è sbagliato. Avevo rifatto
i conti tempo fa:

http://groups.google.it/group/it.cultura.filosofia/msg/af9b47ba35d582ab

mostrando che dal principio di non contraddizione si ricava il Baroco solo
nel caso in cui ciò di cui si parla esiste o, in alternativa, quando tutti
gli insiemi di cui si parla non sono vuoti.
--
Ciao,
D.
uahlim
2005-09-06 06:33:50 UTC
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Post by Davide Pioggia
Post by uahlim
Post by Davide Pioggia
Non solo, ma c'è un certo sillogismo di Aristotele che produce una
contraddizione quando si dia per scontato che tutto ciò di cui si parla
esiste.
Se tutto cio' di cui si parla esiste, il verbo esistere non e' un verbo di
tale universo linguistico.
E quindi non vedo come possa portare a fallacia tale premessa.
Tutti i P sono M
Qualche S non è M
<allora>
Qualche S non è P
Ora, se noi applichiamo il Baroco nel caso in cui S=P
Tutti i P sono M
Qualche P non è M
Certo che se scrivi gia' delle premesse contraddittorie ottieni una
conclusione contraddittoria...
Post by Davide Pioggia
<allora>
Qualche P non è P
che ha come conclusione una contraddizione!
Non abbiamo nessuna ragione per affermare che il sillogismo non vale quando
S=P,
Certo che abbiamo ragione perche' togliamo un grado di liberta' alle
premesse.

E' come se tu dicessi che in un teorema in cui ipotizzo che x sia minore
di 0 posso poi pure ipotizzare pure che sia nel contempo maggiore di zero.
--
Per me l'universo ha un senso proprio perche' e' privo di significati.

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Davide Pioggia
2005-09-05 21:54:53 UTC
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Davide Pioggia ha scritto:

ERRATA CORRIGE
Post by Davide Pioggia
C'è un bell'esempio di Tim Crane, il quale osserva che se io
affermo che il numero delle monete che ho in tasca è cinque, e poi
aggiungo che cinque è necessariamente dispari, non posso concludere che
allora il numero delle monete che ho in tasca è necessariamente...
dispari!
--
Ciao,
D.
uahlim
2005-09-05 22:39:43 UTC
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Post by Davide Pioggia
ERRATA CORRIGE
Post by Davide Pioggia
C'è un bell'esempio di Tim Crane, il quale osserva che se io
affermo che il numero delle monete che ho in tasca è cinque, e poi
aggiungo che cinque è necessariamente dispari, non posso concludere che
allora il numero delle monete che ho in tasca è necessariamente...
dispari!
Perche' no?

Scusa, io affermo P1(monete,5), ossia numero(monete)=5

Poi affermo che P2(dispari,5) ossia 5 e' dispari

se a=b

vale P2(numero(monete) ossia la frase il numero delle monete e' dispari.

E che significa necessariamente?

Non significa nulla, in realta'.
La necessarieta' della disparita' di 5 significa solo che anziche' dire 5
e' dispari penso al teorema per ogni x se numero(x)=5 allora numero(x) e'
dispari.

E' solo un gioco linguistico basato sul gioco della omonimia.
--
genti diverse, venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.

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Davide Pioggia
2005-09-06 02:54:14 UTC
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Post by uahlim
Perche' no?
Scusa, io affermo P1(monete,5), ossia numero(monete)=5
Poi affermo che P2(dispari,5) ossia 5 e' dispari
se a=b
vale P2(numero(monete) ossia la frase il numero delle monete e' dispari.
Ma non è questo che volevo dire.

Se io dico che in tasca ho necessariamente un numero dispari di monete,
sembra quasi che ci sia qualche ragionamento in base al quale si possa
ricavare che non si sa quante monete ho in tasca, ma esse sono sicuramente
dispari. Che so, magari vengo sempre pagato con multipli di due monete, e
vivo in una città in cui tutto costa un multiplo di due monete, inoltre so
che mio padre, quando ero piccolo, mi ha regalato una moneta, dunque in
tasca devo avere:
1 + 2*n - 2*m monete
che è sempre dispari.

Ma non è questo che volevo dire. Io avevo detto che ho in tasca cinque
monete, e questo non significa certo che in tasca devo avere per forza un
numero dispari di monete. Se ora uno aggiunge che cinque è sempre (o
necessariamente, o sicuramente) dispari, non posso mettere questa proprietà
del cinque al posto del numero delle monete, benché quel numero sia cinque.
--
Ciao,
D.
uahlim
2005-09-06 06:45:28 UTC
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Post by Davide Pioggia
Post by uahlim
Perche' no?
Scusa, io affermo P1(monete,5), ossia numero(monete)=5
Poi affermo che P2(dispari,5) ossia 5 e' dispari
se a=b
vale P2(numero(monete) ossia la frase il numero delle monete e' dispari.
Ma non è questo che volevo dire.
Se io dico che in tasca ho necessariamente un numero dispari di monete,
sembra quasi
Sembra, sembra, il problema e' che non puoi usare disinvoltamente il
linguaggio naturale ed applicarci delle definizioni formali perche'
proposizioni con la stessa forma fanno acquisire agli stessi termini
significati diversi con diversi termini e cambiano quindi la forma della
frase.
Devi usare un linguaggio formale e rigoroso, tutto qui.
Post by Davide Pioggia
che ci sia qualche ragionamento in base al quale si possa
ricavare che non si sa quante monete ho in tasca,
Non ti seguo. poi adesso il necessariamente assume un senso riferito a
tutto una catena logica, nah.
--
Per me l'universo ha un senso proprio perche' e' privo di significati.

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Davide Pioggia
2005-09-06 09:30:50 UTC
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Post by uahlim
Sembra, sembra, il problema e' che non puoi usare disinvoltamente il
linguaggio naturale ed applicarci delle definizioni formali perche'
proposizioni con la stessa forma fanno acquisire agli stessi termini
significati diversi con diversi termini e cambiano quindi la forma della
frase.
Devi usare un linguaggio formale e rigoroso, tutto qui.
Guarda, mi ero messo a fare i "disegnini" solo per illustrare il mio
ragionamento con una "interfaccia amichevole". Ma se vuoi il rigore allora
torniamo nel modo più rigoroso possibile all'inizio di tutto questo
discorso, e ti chiedo:

1)

Quella sostituzione *si può* o *non si può* fare?

In matematica se
f(a) = 0
e
a=b
allora è anche
f(b) = 0

Ora, vale nel linguaggio sempre e comunque qualcosa di analogo?
Cioè, se
P(a) = .T.
e
a = b
allora è anche
P(b) = .T.
?

Questa proprietà aut *vale* aut *non vale*.

Ebbene, prendiamo il caso in cui:
a = autore dell'Odissea
P(a) = Emilio non crede che l'autore dell'Odissea fosse cieco
Se noi abbiamo
autore dell'Odissea = Omero
allora *segue* necessariamente o *non segue* da queste premesse che
P(Omero) = Emilio non crede che Omero fosse cieco
?

Io dico che non segue necessariamente, perché ci sono dei *controesempi*,
cioè dei casi in cui questa implicazione non vale. Ad esempio può essere
vero che Emilio non crede che l'autore dell'Odissea fosse cieco, può essere
vero che l'autore dell'Odissea è Omero, ma è possibile che Emilio non lo
sappia (o non lo creda), e in questo caso fra ciò che crede Emilio non c'è
che Omero non fosse cieco, dunque non è vero che Emilio non crede che Omero
fosse cieco.

2)

Volendo spostare il discorso sul "triangolo semiotico", il "significato"
della parola <Napoleone> *è* o *non è* l'uomo in carne ed ossa che fu
imperatore dei francesi?

Se lo *è*, allora oggi quella persona in carne ed ossa non esiste più, e
dunque dobbiamo dire che il "significato" della parola <Napoleone> non
esiste più, e pertanto tutto ciò che c'è scritto nei libri su <Napoleone> è
del tutto privo di significato: non descrive nulla, non dice nulla.

Poiché le cose non stanno così, allora dobbiamo ammettere che il
"significato" non sia la persona in carne ed ossa, ovvero il cosiddetto
"referente".

Comunque sia, ti si produce sempre un "triangolo", i cui vertici sono il
"segno" e altre due entità, che di volta in volta vengono chiamate
denotazione-connotazione, estensione-intensione, referente-significato,
significato-senso. Tutte queste coppie non sono equivalenti fra loro (tant'è
che negli ultimi due casi il "significato" ha addirittura cambiato di
vertice), ma resta il fatto che i "vertici" sono *tre*, dunque la soluzione
del problema è un "triangolo", non un "segmento". Questo problema del
"significato" è un "tripolo" non un "dipolo" come avviene nei casi in cui è
sufficiente porre una contrapposizione fra due termini.
--
Ciao,
D.
uahlim
2005-09-06 15:25:12 UTC
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Post by Davide Pioggia
Post by uahlim
Devi usare un linguaggio formale e rigoroso, tutto qui.
Guarda, mi ero messo a fare i "disegnini" solo per illustrare il mio
ragionamento con una "interfaccia amichevole". Ma se vuoi il rigore allora
torniamo nel modo più rigoroso possibile all'inizio di tutto questo
No, facciamo un passo ancora piu' indietro, torniamo alla tua definizione
di contesto intensivo, un contesto in cui non valgono quelle proposizioni
sulle proprieta'.

La definizione presuppone che esistano enti dotati di significato e che
questi enti possano essere rapportati tra loro con un segno di uguaglianza.

La tua definizione e' una definizione di contesto o di uguaglianza?

Per me la relazione di eguaglianza e' anzitutto una relazione di
equivalenza, ossia mi interessa sapere se a=b proprio per sapere se posso
sostituire a con b ottenendo gli stessi effetti sul resto del sistema,
quindi in realta' per me a=b non significa nient'altro che per ogni
proprieta' P considerata nel contesto Pi(a)=Pi(b), allora a=b.

Quindi mi pongo proprio dal punto di vista opposto, nel sistema che mi hai
citato tu per me semplicemente non e' vero che Omero=autore dell'Odissea.

Posso affermare P(Omero,e',autore dell'Odiessea)=vero ma non che
Omero=autore dell'Odissea.

Proprio perche' quel concetto di eguaglianza non esprime equivalenza dei
due termini nel sistema considerato.

Ma bada che dicendo questo non ti sto dicendo un qualcosa che abbia un
senso di verita', ma solo che io definisco uguaglianza nel contesto un
qualcosa che mi indichi l'equivalenza, la sostituibilita' senza che le
altre parti del sistema ne risentano.
Post by Davide Pioggia
1)
Quella sostituzione *si può* o *non si può* fare?
Se la sostituzione non si puo' fare Omero<>autore dell'Odissea anche se
Omero e' l'autore dell'Odissea.
Post by Davide Pioggia
In matematica se
f(a) = 0
e
a=b
allora è anche
f(b) = 0
Ora, vale nel linguaggio sempre e comunque qualcosa di analogo?
Cioè, se
P(a) = .T.
e
a = b
allora è anche
P(b) = .T.
?
Per come la vedo io si', nel senso che per come la vedo io se questo non
vale semplicemente il segno che si usa, ossia l'uguale, non e' un vero
segno di uguaglianza.
Se vuoi e' un po' la faccenda di uno nessuno e centomila di Pirandello.
Post by Davide Pioggia
a = autore dell'Odissea
P(a) = Emilio non crede che l'autore dell'Odissea fosse cieco
Se noi abbiamo
autore dell'Odissea = Omero
allora *segue* necessariamente o *non segue* da queste premesse che
P(Omero) = Emilio non crede che Omero fosse cieco
Deve seguire necessariamente P(Omero) se Omero=autore dell'Odiessea.
Ma per essere Omero=autore dell'Odissea non e' sufficiente che Omero sia
l'autore dell'Odissea, ma che Emilio sappia che Omero e' l'autore
dell'Odissea. E se non lo sa? Se non lo sa Omero<>autore dell'Odissea
anche se Omero e' l'autore dell'Odissea. Lo e' ma non in tutto l'universo
considerato, ossia non lo e' nella testa di Emilio e quindi non vale
l'uguaglianza.

Tu credi che se un americano pensa Bush is a great president ed un
italiano pensa Bush e' un grande presidente stiano pensando la stessa cosa
o no?
Anche se non sanno che great president si traduce con grande presidente e
viceversa?

Nell'esempio poi di Omero, noi di Omero non sappiamo nulla in realta'.
Dire Omero e' cieco non e' una frase dotata di senso se dietro a
quest'Omero non si individua una persona.
Ma che cos'e' una persona? In realta' e' un insieme di comportamenti ossia
di proprieta' verso le altri parti del sistema.

Se io sostituissi completamente gli atomi di una persona e facessi in modo
che la persona continui ad apparire con la stessa struttura esterna e con
gli stessi comportamenti e quindi a me apparisse come una persona con gli
stessi ricordi, una persona EQUIVALENTE, per me sarebbe REALMENTE la
stessa persona.

In realta' poi vale panta rei, ma allora perche' noi pensiamo in termini
di enti che sono individuati e sono uguali nel tempo? Perche' non
consideriamo tutte le proprieta' ma solo un certo numero, se la
rassomiglianza si mantiene maggiore di un tot noi consideriamo nel tempo
l'oggetto o la persona uguali.
Post by Davide Pioggia
Io dico che non segue necessariamente, perché ci sono dei *controesempi*,
Io invece dico di no, ma non dico che hai torto, ma solo che io enfatizzo
il comportamento rispetto ad altro, e per me se il comportamento nel
sistema e' diverso tra due oggetti i due oggetti non sono uguali per
quello che considero io l'uiguaglianza, tutto qui.
Perche' per me e' quello il significato di uguale, non altro.
Ed e' molto psicologico, dipende tutto dagli aspetti a cui io sono
interessato capire se due oggetti tra loro sono uguali o no.
Se il fine e' indagare sulle convinzioni della gente e non sui fatti
storici per me Omero<>autore dell'Odissea, proprio perche' non e' cosi'
nella testa di Emilio ed io indago dei fenomeni che avvengono nella sua
testa e non solo su quello che Omero e l'autore dell'Odissea hanno fatto
nel reale.
Se invece il campo di indagini e' solo la convinzione generale ufficiale
allora Omero=autore dell'Odissea.

E questo perche' per me il cosiddetto reale non ha una priorita' rispetto
al resto.

Ti faccio un altro esempio: per me due copie della divina commedia sono
uguali quando parlo di versi e poesia, anche se una e' scritta in un libro
da 5 euro ed un'altra in un incunabolo.
Ma se parlo di investimenti d'arte no.
Ma sono gli aspetti che studio che mi indicano l'uguaglianza, se studio i
fenomeni nel cervello di Emilio ovvio che anche la presentazione puo'
avere importanza e non solo il riferito storico.


Spero di aver chiarito la mia posizione terminologica in merito
all'uguaglianza.

Ah, ho letto la recensione di Orilia:
http://www.swif.uniba.it/lei/recensioni/crono/2003-06/orilia.htm

La penso cosi':

Alexius Meinong, le cui posizioni espresse dalla sua "teoria degli
oggetti" sono chiaramente riconducibili ad un punto di vista realista,
vuole considerare gli oggetti a prescindere dal fatto che siano dotati, o
meno, di essere. Orilia così sintetizza le intenzioni dell'autore
austriaco: "Possiamo quindi attribuire a Meinong il principio
dell'uniformità del pensiero e del linguaggio [...], ossia il principio
secondo il quale possiamo pensare e parlare allo stesso modo sia riguardo
a ciò che esiste che a ciò che non esiste. In altri termini, sia quando
pensiamo al cavallo Varenne (un oggetto esistente), sia quando pensiamo al
cavallo Pegaso (inesistente) siamo in relazione con un oggetto [...]. E in
entrambi i casi il linguaggio ci permette di parlarne allo stesso modo,
cioè utilizzando un termine singolare." (p. 84).
--
Per me l'universo ha un senso proprio perche' e' privo di significati.

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Davide Pioggia
2005-09-06 17:47:24 UTC
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Post by uahlim
No, facciamo un passo ancora piu' indietro, torniamo alla tua definizione
di contesto intensivo, un contesto in cui non valgono quelle proposizioni
sulle proprieta'.
La definizione presuppone che esistano enti dotati di significato e che
questi enti possano essere rapportati tra loro con un segno di
uguaglianza.
La tua definizione e' una definizione di contesto o di uguaglianza?
L'uguaglianza sta per il verbo "essere".

Quando scrivo

Omero = l'autore dell'Odissea

sto semplicemente affermando che

Omero *è* l'autore dell'Odissea.

L'uso del segno "=" da una parte mi serve per abbreviare, e dall'altra mi
serve per mettere in evidenza che il verbo "essere" (cioè l'"uguaglianza
semantica") può comportarsi in modo diverso dalla "uguaglianza matematica",
la quale consente sempre la "sostituzione". Tant'è che, come si vede in
questo thread, chi seguendo una lunga tradizione occidentale si è abituato a
ragionare sul linguaggio in termini "matematici", è talmente condizionato
dal carattere "estensionale" della matematica da non riuscire più a
ragionare in modo "intensionale", o a rendersi conto che sono due contesti
in cui valgono logiche diverse.

Se vuoi posso riformulare tutto facendo a meno dell'"=". Dico allora che il
contesto è *estensionale* se

P(a) & <a è b> => P(b)

(oltre alla solita "generalizzazione esistenziale").

Il fatto che in un contesto estensionale si possa fare sempre la
"sostituzione", mi mostra chiaramente che il verbo essere in quel contesto
pone l'uguaglianza del referente. In altri termini, se dico che <a è b> in
un contesto estensionale, sto semplicemente dicendo che a e b hanno lo
stesso referente. Questo non è più vero in un contesto intensionale, nel
quale posso persiono arrivare a dire che

L'autore dell'Adelchi *non è* l'autore dei Promessi Sposi

senza che la cosa perda di significato, poiché si tratta di una
"disuguaglianza intensionale" fra due termini che hanno lo stesso referente,
e fra i quali vale pertanto una "uguaglianza estensionale".

Insomma, il contesto non è estensionale quando P(a), oppure <a è b>, oppure
entrambe, hanno (anche) un valore intesionale, connotativo, di senso, quella
cosa che fa sì che "l'autore dell'Adelchi" non sia la stessa cosa di
"Alessando Manzoni". Dillo come ti pare, ma è sempre il "terzo vertice" del
"triangolo".
--
Ciao,
D.
Davide Pioggia
2005-09-06 17:59:15 UTC
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Post by Davide Pioggia
Insomma, il contesto non è estensionale quando P(a), oppure <a è b>,
oppure entrambe, hanno (anche) un valore intesionale, connotativo, di
senso, quella cosa che fa sì che "l'autore dell'Adelchi" non sia la stessa
cosa di "Alessando Manzoni". Dillo come ti pare, ma è sempre il "terzo
vertice" del "triangolo".
Se decidiamo di usare la contrapposizione fra "connotazione" e "denotazione"
forse tutta questa faccenda risulta un po' più intuitiva (anche se perdiamo
un po' di rigore formale).

Infatti anche a partire dal linguaggio comune ci rendiamo conto che
<Alessando Manzoni> e <l'autore dell'Adelchi> *denotano* la stessa persona,
ma la *connotano* in maniera diversa. La prima espressione di dice: <l'uomo
che da piccolo fu battezzato con un certo nome e cognome>, mentre la seconda
ci dice: <l'uomo che scrisse una certa opera>. Ebbene, quando diciamo che
<Alessandro Manzoni è l'autore dell'Adelchi> stiamo dicendo che l'uomo che
ha un certo connotato (un certo nome o cognome) è lo stesso uomo che ha un
altro connotato (è autore di una certa opera), sicché quei due connotati
sono connotati di uno stesso denotato. Se siamo in un contesto in cui conta
(solo) la denotazione allora possiamo fare la sostituzione, ma se invece
conta (anche) la connotazione allora la sostituzione non la possiamo fare.
--
Ciao,
D.
uahlim
2005-09-06 19:02:05 UTC
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Post by Davide Pioggia
Post by Davide Pioggia
Insomma, il contesto non è estensionale quando P(a), oppure <a è b>,
oppure entrambe, hanno (anche) un valore intesionale, connotativo, di
senso, quella cosa che fa sì che "l'autore dell'Adelchi" non sia la stessa
cosa di "Alessando Manzoni". Dillo come ti pare, ma è sempre il "terzo
vertice" del "triangolo".
Se decidiamo di usare la contrapposizione fra "connotazione" e "denotazione"
forse tutta questa faccenda risulta un po' più intuitiva (anche se perdiamo
un po' di rigore formale).
Ma, piu' che altro la questione sta diventando priva di interesse, perche'
francamente l'importanza data al verbo essere non ha neppure tutto questo
senso.
Post by Davide Pioggia
Infatti anche a partire dal linguaggio comune ci rendiamo conto che
<Alessando Manzoni> e <l'autore dell'Adelchi> *denotano* la stessa persona,
Il concetto che esista una persona e' anch'essa un'astrazione ed una
semplificazione della realta', a voler essere precisi.
Post by Davide Pioggia
ma la *connotano* in maniera diversa. La prima espressione di dice: <l'uomo
che da piccolo fu battezzato con un certo nome e cognome>, mentre la seconda
ci dice: <l'uomo che scrisse una certa opera>. Ebbene, quando diciamo che
<Alessandro Manzoni è l'autore dell'Adelchi> stiamo dicendo che l'uomo che
ha un certo connotato (un certo nome o cognome) è lo stesso uomo che ha un
altro connotato (è autore di una certa opera), sicché quei due connotati
sono connotati di uno stesso denotato.
Sai perche' non mi interessa sta cosa?
Perche' tu attribuisci importanza al piano dell'esistenza.
Per me e' un piano come tutti gli altri.
E non ti rendi conto che la persona e' una finzione, un'approssimazione e
che e' definita in maniera intensionale, ossia con delle proprieta',
sempre, che e' sempre connotata, mai denotata.
L'oggetto persona denotata dal nome Alessandro Manzoni non esiste a rigor
di termini, e' una semplificazione, esiste invece una serie di
comportamenti che se non variano tra loro in una certa misura tendono a
farmi affermare che i due Alessandri che vedo sono la stessa persona.

Ma il livello di tolleranza delle variazioni delle proprieta' che mi fanno
individuare i due comportamenti come la stessa persona variano a seconda
del mio interesse.

Ecco perche' centro il mio interesse sul concetto di equivalenza e
sostituibilita'.

Per me ad esempio due fogli excel possono essere identici se si comportano
alla stessa maniera, non me ne frega niente se sono copie diverse, come la
descrizione di un'interfaccia utente di un programma venduto a milioni per
me e' un luogo solo perche' gli oggetti al loro interno presentano un
unico comportamento.

Un file in un dispositivo ridondato puo' essere salvato in due copie, se
io lo vedo come un unico file per me il file e' uno.


Se siamo in un contesto in cui conta
Post by Davide Pioggia
(solo) la denotazione allora possiamo fare la sostituzione, ma se invece
conta (anche) la connotazione allora la sostituzione non la possiamo fare.
E quindi la differenza tra denotazione e connotazione la trovo
insignificante perche' e' esistocentrica, e non ha senso.

E' un'impostazione barocca, non elegante, perche' non e' simmetrica, ed e'
semplicistica.

Ha molto piu' senso pensare ad elementi che presentano dei comportamenti,
ossia generano dei fatti. Se si comportano alla stessa maniera sono lo
stesso elemento, altrimenti no.

Perche' la designazione e' in realta' nel reale anch'essa una definizione
implicitamente basata su condizioni ed una connotazione: e' tizio se ha le
impronte digitali di un certo tipo, i tratti del volto cosa', la voce piu'
o meno cosi, il dna cosa' e si ricorda cosa mi piace fare a letto.

Solo che la connotazione e' cosi ricca ed inconscia che rimane inespressa
e viene chiamata denominazione o riconoscimento.

Ma concettualmente i due processi sono lo stesso.

Ma stiamo solo riproponendo la querelle in link:

Tu sei Russel, io il tedesco:

http://www.swif.uniba.it/lei/recensioni/crono/2003-06/orilia.htm
--
Per me l'universo ha un senso proprio perche' e' privo di significati.

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Davide Pioggia
2005-09-06 20:04:46 UTC
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Post by uahlim
Ma, piu' che altro la questione sta diventando priva di interesse, perche'
francamente l'importanza data al verbo essere non ha neppure tutto questo
senso.
E chi ci vuole dare importanza? Io mi limito a dire "come si usa". Stiamo
semplicemente stabilendo le "regole" di un linguaggio (che sono poi delle
regole sintattiche, le quali però - come abbiamo visto - dipendono dal
contesto semantico).
Post by uahlim
Post by Davide Pioggia
Infatti anche a partire dal linguaggio comune ci rendiamo conto che
<Alessando Manzoni> e <l'autore dell'Adelchi> *denotano* la stessa persona,
Il concetto che esista una persona e' anch'essa un'astrazione ed una
semplificazione della realta', a voler essere precisi.
Ma guarda che tutto questo discorso non è legato alle "persone".
Funziona anche con Venere, che è sia la <stella del mattino>
sia la <stella della sera> . Il referente è lo stesso, ma cambia il
significato, la connotazione.
Post by uahlim
Sai perche' non mi interessa sta cosa?
Eh, dimmi.
Post by uahlim
Perche' tu attribuisci importanza al piano dell'esistenza.
Figurati, che mi frega a me dell'esistenza? Io mi limito ad esplicitare le
"regole del gioco", ma mi guardo bene dall'affermare che il gioco sia di un
qualche interesse. D'altra parte con il Sole che si pappa circa quattro
milioni e mezzo di tonnellate di idrogeno al secondo è solo questione di
tempo.

Tutta 'sta faccenda è solo una oscillazione transitoria, e d'altra parte
quando vedi 'sta roba qua:
http://www.strasbourgcurieux.com/fourrure/
(occhio, ché non è adatto alle anime belle) ti viene da pensare che tutto
sommato è meglio così; anzi, ti ritrovi a fare il tifo per qualche bel
meteorite che anticipi ampiamente la fine della specie avente codesta
"immagine e somiglianza".
Post by uahlim
Per me e' un piano come tutti gli altri.
Per me, addirittura, è un piano sotto gli altri: l'Essere è la fogna del
Nulla, ed a me piacciono le cose pulite, i cristalli sintattici, non le
paludi semantiche - tant'è che notoriamente io non "credo" nel "significato"
(però questo non mi impedisce di parlarne; d'altra parte tu ed io non
esistiamo, eppure siamo qui a discutere).
Post by uahlim
Ma il livello di tolleranza delle variazioni delle proprieta' che mi fanno
individuare i due comportamenti come la stessa persona variano a seconda
del mio interesse.
Ecco, fermiamoci qua. Quella roba lì, il "tuo" (tuo di *chi*?) interesse è
una di quelle cose che fa scattare il contesto intensionale. Poi se "tu"
esisti o non esisti per me pari sono, e lo stesso vale per "me".
--
Ciao,
D.
Marco V.
2005-09-06 21:58:16 UTC
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Post by Davide Pioggia
Figurati, che mi frega a me dell'esistenza? Io mi limito ad esplicitare le
"regole del gioco", ma mi guardo bene dall'affermare che il gioco sia di un
qualche interesse. D'altra parte con il Sole che si pappa circa quattro
milioni e mezzo di tonnellate di idrogeno al secondo è solo questione di
tempo.
Tutta 'sta faccenda è solo una oscillazione transitoria, e d'altra parte
http://www.strasbourgcurieux.com/fourrure/
(occhio, ché non è adatto alle anime belle) ti viene da pensare che tutto
sommato è meglio così; anzi, ti ritrovi a fare il tifo per qualche bel
meteorite che anticipi ampiamente la fine della specie avente codesta
"immagine e somiglianza".
Ho visto. Sconsigliato a chi è debole di stomaco, certo. Che dire? Ecce
homo! Però, il mio "ecce homo" vale in tanti sensi, che mi consentono di
essere più "ottimista" (non ho una parola migliore). Innanzitutto, tra gli
"uomini" di cui quelle immagini valgono come l'"ecce" non c'è solo il
titolare del mattatoio di quelle povere bestie da pelliccia. No, no. Mai e
poi mai. C'è pure chi ha girato le immagini. Non so a te, ma a me capita -
sarà che sono "alienato" dalla filosofia - sempre, guardando le immagini, di
sollevarmi al piano delle immagini delle immagini. L'immagine vuole
ingannarmi: l'immagine non mi mostra il produttore dell'immagine; e tuttavia
si mostra come immagine prodotta, dunque vi allude. Lì dietro c'è un tizio
che riprende agonie di animali con la telecamera. Che zooma sugli occhi di
un animale in agonia. Un animale in agonia *non* è molto differente da un
essere umano in agonia. Magari quel tizio lo fa per un nobile scopo. O
magari è uno che sta filmando semplicemente per rivendere le immagini. Non
si sa. Come giudicare questo fatto? La telecamera è sicuramente una forma di
spietatezza. Non si tratta di guardare al dito invece che alla luna (la
"luna" l'ho citata per prima). Si tratta di non essere completamente giocati
dall'immagine.

Ed infine nel contenuto indicato dall'"ecce" ci sono "io" (tanto per citare
un termine indessicale che rovina i sogni "estensionalisti"). Io che
giudico. Tutta quella roba lì sottostà al *mio* giudizio. Non vi sfugge in
alcun modo. Non è che mi stia presente senza che io eserciti il mio
giudizio. Se non mi è presente, non mi è presente. Ma se mi è presente, mi è
presente solo come giudicata. "Io" non sono una telecamera. Ti pare poco? In
tutto ciò c'è la storia dell'uomo. Perchè vogliamo farla finire con un
meteorite?

Un saluto,

Marco
Cosimo
2005-09-07 00:07:00 UTC
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"Davide Pioggia" ha scritto:

[...]
Post by Davide Pioggia
Tutta 'sta faccenda è solo una oscillazione transitoria, e d'altra
http://www.strasbourgcurieux.com/fourrure/
(occhio, ché non è adatto alle anime belle) ti viene da pensare
che tutto sommato è meglio così; anzi, ti ritrovi a fare il tifo
per qualche bel meteorite che anticipi ampiamente la fine della
specie avente codesta "immagine e somiglianza".
Solo dinanzi a chi -quasi tutti, in un modo o nell'altro- insistesse a
proclamare il significato fondamentalmente morale dell'essere.

Allora e solo allora si può "rispondere per le rime" e augurarsi che un
meteorite venga a "fare giustizia", invece di limitarsi a porre fine
alla mera esistenza fisica, perché non ce n'è una metafisica, di una
certa forma di vita, sedicente figlia delle buone stelle e degli dei,
che uccide altre forme di vita più deboli per scopi provvisoriamente
ornamentali. Ma c'è il rischio che la cosa sfugga di mano, ovvero che
ci si creda veramente, che si finisca vittime dei predicatori proprio
in quanto non ci si sottrae al gioco della predica e contropredica.

L'altro giorno mi son letto un po' quel che dicevano quei capoccioni
che citavi in un tuo post.

Brian Goodwin ha degli accenti addirittura nicciani:

<< It's not a question of being "better than"; it's simply a matter of
finding a place where you can be yourself. That's what evolution is
about. That's why you can see it as a dance. It's not going anywhere,
it's simply exploring a space of possibilities.>>

Sarebbe stato più appropriato parlare di moto browniano, e non di
danza. Danza? Ciò che è e tutto quel che si muove va a passo d'un
ubriaco, that's what evolution is about.

Mi dimentico di avere il diritto ai miei gusti personali, ubriaco fra
gli ubriachi, nell'ubriachezza universale. Dico: il più spelacchiato e
inutile dei gatti vale incommensurabilmente di più del più nobile
eccetera eccetera degli uomini, specie se non mi sono utili.
Non "vale", ma "mi piace".
--
Ciao, Cosimo.
Marco V.
2005-09-07 08:07:10 UTC
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Post by Cosimo
[...]
Post by Davide Pioggia
Tutta 'sta faccenda è solo una oscillazione transitoria, e d'altra
http://www.strasbourgcurieux.com/fourrure/
(occhio, ché non è adatto alle anime belle) ti viene da pensare
che tutto sommato è meglio così; anzi, ti ritrovi a fare il tifo
per qualche bel meteorite che anticipi ampiamente la fine della
specie avente codesta "immagine e somiglianza".
Solo dinanzi a chi -quasi tutti, in un modo o nell'altro- insistesse a
proclamare il significato fondamentalmente morale dell'essere.
Appunto. Con questo "solo" staremmo enunciando anche noi la nostra brava
verità morale.
Post by Cosimo
Allora e solo allora si può "rispondere per le rime" e augurarsi che un
meteorite venga a "fare giustizia", invece di limitarsi a porre fine
alla mera esistenza fisica, perché non ce n'è una metafisica, di una
certa forma di vita, sedicente figlia delle buone stelle e degli dei,
che uccide altre forme di vita più deboli per scopi provvisoriamente
ornamentali.
Esatto. Anche il "tifo" cui Davide provocatoriamente alludeva, corrisponde
all'enunciazione di una verità morale. Ciò per cui si fa quel "tifo" - il
meteorite - deve esercitare la negazione su ciò che non "deve" essere. E ciò
che non "deve" essere è l'"ingiustizia": la violazione del "dover essere".
La negazione di cui è capace l'uomo è talmente potente da poter rendere
l'"umanità" intera suo oggetto. L'"umanità" intera può essere identificata
all'ingiustizia, cioè a ciò che non "deve" essere. Ma ciò non intacca
minimamente la capacità morale dell'essere umano: ne è anzi la sua più
estrema dimostrazione. D'altra parte Davide sa bene che la stirpe di coloro
che si occupano - o pretendono di occuparsi - della moralità dell'umanità
intera, è forse inestirpabile dall'umanità.
Post by Cosimo
Ma c'è il rischio che la cosa sfugga di mano, ovvero che
ci si creda veramente, che si finisca vittime dei predicatori proprio
in quanto non ci si sottrae al gioco della predica e contropredica.
Beh, è quello che intedevo. Tuttavia non in senso deleterio. Si tratta,
semplicemente, della riconferma della moralità dell'essere umano. Una
moralità formale, perchè il suo contenuto oscilla da Madre Teresa ad Adolf
Hitler? E sia, una moralità formale.
Post by Cosimo
Mi dimentico di avere il diritto ai miei gusti personali, ubriaco fra
gli ubriachi, nell'ubriachezza universale. Dico: il più spelacchiato e
inutile dei gatti vale incommensurabilmente di più del più nobile
eccetera eccetera degli uomini, specie se non mi sono utili.
Purchè ci sia tu a giudicare ciò. E quel tuo giuidizio deve avere "valore".
Non ci trovo nulla di male, ad esempio, nell'affermare che tra un essere
umano in agonia ed un animale in agonia non ci sono differenze. Ciò è
sperimentabile. Essi stanno lì, inchiodati nella prossimità della morte:
potresti farne qualunque cosa: aiutarli a morire, farli a pezzettini,
infliggergli ulteriore dolore etc. Ma che cosa in verità sperimento?
Sperimento me stesso. Sperimento di non essere una telecamera. Sperimento di
riconoscere il dolore. Quanto alle immagini del dolore, continuo a non
vederle come la classica scala da gettar via (="ci hanno presentato
l'immagine, ed ora sono cavoli nostri"). Sono parte del gioco.

Un saluto,

Marco
uahlim
2005-09-07 00:07:21 UTC
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Post by Davide Pioggia
Post by uahlim
Ma, piu' che altro la questione sta diventando priva di interesse, perche'
francamente l'importanza data al verbo essere non ha neppure tutto questo
senso.
E chi ci vuole dare importanza? Io mi limito a dire "come si usa". Stiamo
semplicemente stabilendo le "regole" di un linguaggio
Giusto, noi stiamo classificando, ma che cosa?

Cos'e' un contesto, a questo punto?


individui reali, quelli che popolano l'universo e fanno qualcosa, e mi
pare che siano le tue denominazioni, ossia asserzioni di esistenza.

A sto punto mi chiedo: i numeri creati dagli assiomi di Peano sono
denominati o connotati? Il successore di 1 e' una connotazione od una
denominazione? Io dico che sono denominati a questo punto, perche' sono
creati, la denominazione mi pare un atto di creazione di individui nel
sistema.
Od e' un set di istruzioni che si da' ad un diavoletto: denominami degli
individui e dagli queste caratteristiche ad ognuno di esso.
In questo caso le istruzioni per denominare ossia per popolare il mondo
gli dicono anche che se p(a)=p(b) allora a=b e viceversa, la
caratteristica di equivalenza tra denominazione e proprieta di essere
successore di e' esplicitata;


Ma allora forse il nostro processo di popolamento dell'universo degli
individui avviene proprio cosi': partiamo dall'uno ossia dall'io che
percepisce e vuole.
E gli altri individui sono connotati per delle proprieta' di rapporto con
l'uno che siamo noi...

fatti accertati relativi a questi individui, che individuano lo stato del
nostro universo di nostro conoscenza, ossia il concetto di fatti veri (il
principio di non contraddizione lo mettiamo? io direi di no)

individui ipotetici, ossia x tale che... e nel caso esista una sola
soluzione, queste siano le connotazioni

fatti ipotetici, ossia teoremi concerneti individui ipotetici.

Un conto e' esprimere la frase credo che l'autore dell'Odissea e' cieco,
ma questa frase che dice, in realta'?

Puo' affermare tre cose:

1) dall'esame dello scritto ho concluso che l'opera e' di un solo autore
(ed anche questo perche' autori diversi producono stili diversi, e quindi
lo stile riesce a connotare l'autore), e che per caratteristiche dello
scritto deduco che chi l'ha scritto non era cieco.

2) so chi e' l'autore e di lui conosco tutte le proprieta'

3) so chi e' l'autore e non conosco tutto di lui... ma allora in che senso
so chi e' l'autore?

Ecco che la denominazione in realta' e' una connotazione su una proprieta'
che e' una chiave primaria del mio database o contesto.

Mentre le altre connotazioni dall'esame di certe proprieta' non e' detto
che siano chiavi primarie, sono solo query che in taluni casi individuano
un solo elemento.

Ed adesso che accade, che si chiede che la sostituzione della
denominazione con la connotazione ossia dell'ente reale con quello
ipotetico che pero' lo individua dia gli stessi risultati.

Ossia che se "TRE" ha TRE LETTERE, anche "DUE PIU' UNO" abbia TRE LETTERE.

E non accade, non accade dove i contesti non sono specialistici perche' la
denominazione e' adatta ad un settore ma non ad altri e l'uguaglianza e'
vera solo in uno di essi, quelli che sono sinonimi in un settore non lo
sono in altri, perche' si accavallano due database, due contesti, e
perche' si crede che esista un piano di realta' privilegiato in cui fare
le denominazioni e solo quello.

Sta faccenda va bene finche' considero solo fatti di quel piano di realta'.

Ad esempio nel caso di Omero in realta' l'identita' c'e' nel piano della
realta' storica ma non in quello della realta' mentale.

Comunque si', alla fine e' stato interessante concludere che la
denominazione e' una connotazione fatta su una chiave primaria.

Poi un ultimo dubbio: se non fa parte dei fatti il fatto a=b, allora
risulta per forza a diverso da b?

Non e' detto, perche' parlo di fatti accertati e non di fatti.
--
Per me l'universo ha un senso proprio perche' e' privo di significati.

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LordBeotian
2005-09-06 21:33:22 UTC
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Post by uahlim
Sai perche' non mi interessa sta cosa?
Perche' tu attribuisci importanza al piano dell'esistenza.
Per me e' un piano come tutti gli altri.
E non ti rendi conto che la persona e' una finzione, un'approssimazione e
che e' definita in maniera intensionale, ossia con delle proprieta',
sempre, che e' sempre connotata, mai denotata.
Non sono d'accordo: se creano un mio duplicato esatto quello non sono io (io
non percepisco attraverso i suoi sensi, non penso i suoi pensieri,
eccetera).
Post by uahlim
L'oggetto persona denotata dal nome Alessandro Manzoni non esiste a rigor
di termini, e' una semplificazione, esiste invece una serie di
comportamenti che se non variano tra loro in una certa misura tendono a
farmi affermare che i due Alessandri che vedo sono la stessa persona.
Ma quello delle persone era solo un esempio, il discorso su denotazione e
connotazione si può riformulare pari pari in mille altri contesti che non
coinvolgono "persone":

"Mario sa che 1=1"
"1=exp(2*pigreco*i)"
->"Mario sa che 1=exp(2*pi greco*i)" (falso)
Marco V.
2005-09-06 13:44:04 UTC
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Post by Davide Pioggia
Secondo me la faccenda la state "psicologizzando" troppo (e se lo dico io!)
Se vogliamo costruire una semantica fondata sulla verità delle proposizioni,
dobbiamo dire che un contesto è *estensionale* quando possiede le seguenti
1) sostituzione di termini coreferenziali
P(a) & a=b => P(b)
(se è vero P(a) di a, ed a e b hanno lo stesso referente,
allora è vero P(b))
2) generalizzazione esistenziale
P(a) => esiste x tale che P(x) è vera
(ciò di cui si parla esiste).
Come dicevo, quando valgono entrambe queste proprietà diciamo che il
contesto è estensionale, altrimenti, se ne viene a meno anche una sola,
diciamo che è *intensionale*.
Tutto ciò, però, non ha a che fare con la "mente" o la "psiche", tant'è che
ho potuto fornire quella definizione senza ricorrere a questi termini.
Qualcuno potrebbe osservare che quel "esiste" individua una "realtà" che sta
al di fuori della "mente", ma siamo partiti dal presupposto che il
"significato" è definito dalla verità delle proposizioni, e dunque quando
diciamo "come funzionano", logicamente, i connettivi logici non stiamo
parlando dell'_esse in re_ e dell'_esse in intellectu_, ma stiamo
semplicemente definendo il "significato" di quei connettivi.
Come sai, io sono ancor più radicale di te ne nel dire che bisogna fare
estrema attenzione a connettere i significati - ed il tentativo di
rispondere alla domanda "che cos'è il significato" - alla "psiche". Questo,
non
certo perchè io creda che i significati siano cose in sè depositate
nell'Iperuranio semantico, delle quali le cose sensibili, per aver il
significato che hanno ("questa è una sedia", "questo è un uomo" etc.),
devono (assurdamente; assurdità già dimostrata da Aristotele, che pure con
il suo essenzialismo è rimasto un po' "indietro" rispetto alla moderna
teoria del significato) partecipare. Piuttosto: "i significati sono nella
testa" è una di quelle proposizioni *terribili*, perchè terribilmente
difficile (ed equivocabile) è il compito di determinare il...significato di
"testa" e "essere nella testa". Uno dice durante una conversazione
filosofica che "i significati sono nella testa", al che il neurobiologo di
turno che origliava alla porta fa il suo trionfale ingresso sulla scena
dicendo "Hai detto "testa"? Allora stai dicendo che i significati sono nel
cervello. Cioè sono un prodotto dell'attività fisico-chimica del
cevello":-).

Fatta questa premessa, osservo che quando, nella mia risposta a K., mi
riferivo alla differenza tra "realtà reale" e "realtà mentale", lo facevo
solo per esemplificare. La "psicologicità" del significato, rispetto a
quello che dicevo è un fatto accessorio. Io cercavo di mostrare che
apparentemente esiste un via *logica*, all'interno della stessa teoria
"classica" della verità, per negare l'assunto che la "verità" sia una
condizione solo sufficiente del "senso" (questo assunto, che è proprio del
"senso comune" di cui tutti facciamo uso dice: se una proposizione è vera,
allora necessariamente ha senso; ma se una proposizone ha senso, non
necessariamente è vera). Rispetto al tentativo di indicare questa via, è un
fatto accessorio, puramente accidentale, che il "modello" associato alla
sensatezza della proposizione e nel quale la proposizione sensata è
realizzata, abbia una connotazione "psicologica" (sia cioè
l'"immagine mentale" che uno "produce" quando asserisce che gli asini
volano; anzi, è alquanto discutibile, come dicevo a Qf giorni fa, che il
"senso" esiga la "produzione" di una "rappresentazione").

Poi, è chiaro, si potranno formulare mille obiezioni contro quel tentativo.
Se vuoi, questo tentativo ha a che fare con quella questione (vi
accennava Cosimo giorni fa), che non a caso è stata posta nell'intorno della
"nascita" del pensiero occidentale, di come si faccia a dire che la
"potenza" esiste separatamente dall'"atto" (traducendo: come si faccia a
dire che la situazione descritta da una proposizione sia "possibile").
Post by Davide Pioggia
Però penso anche che si possa risolvere la questione senza
fare riferimenti più o meno diretti alla "mente" (psiche, intelletto, o quel
che è).
Come ho cercato di dire, si trattava, da parte mia, di riferimenti
accessori, contingenti. La sostanza del discorso che facevo non ne viene
intaccata. O meglio, non ne dipende.
Post by Davide Pioggia
No, lasciamo che i matematici vadano fino in
fondo nel loro lavoro di "epslulsione" e poi analizzaziamo la psicologia di
quella "espulsione".
La psicologia dell'espulsione della psicologia dalle scienze cosiddette
"formali". Il soggetto dell'espulsione del soggetto dalle scienza formali.
Anche la psicologia vuole disporre di un "elenchos":-).
Post by Davide Pioggia
Per altro uno può anche partecipare a quel lavoro di
esplulsione, e poi "osservarsi" da un punto di vista psicologico mentre lo
compie. Però anche in questo caso se costui mi tira fuori il complesso di
Edipo per dimostrare il teorema di Pitagora non ci siamo proprio, e sono io
il primo a rimandarlo a casa a studiare la geometria.)
E' bello ritrovare su icfm il vecchio Davide sintattico, quello dei
"triangoli semiotici", dopo mesi di Davide semantico, quello di un altro
genere di "triangoli":-).

Un saluto,

Marco
uahlim
2005-09-05 20:48:26 UTC
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Post by Marco V.
e "realtà mentale", ma se entrambi questi termini denotano dei "modelli",
perchè mai la verità di "asini volano"(=P) deve essere decisa dal primo
"modello" e non dal secondo? Domanda in perfetto stile-Uahlim:-)
Concludendo kantianamente direi che il significato e' il noumeno ed il
senso il fenomeno.
E che per me il mondo ha senso proprio perche' e' insignificante.
;-)
--
genti diverse, venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.

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uahlim
2005-09-05 20:41:55 UTC
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Post by Signor K.
Certo. Anche perché se una sintagma non rinvia ad alcuna rappresentazione di
qualsiasi oggetto o stato di fatti non è possibile stabilirne il valore di
verità - dire se è vero o falso..
Si, pero' da come la vedo io a seconda del contesto la stessa cosa puo'
essere un oggetto od una condizione da verificare.

Ad esempio i numeri.
I numeri rispetto al mondo fisico hanno ovviamente senso ma non
significato perche' descrivono una condizione.
Ma i numeri nell'aritmetica rispetto ai teoremi sono degli oggetti che
hanno significato ma non senso.

Con una gerarchia di astrazione.
In pratica l'elemento esistente, l'atomo e' il significato, la relazione
tra elementi, tra atomi il fatto, ossia il senso.

Ad esempio nella logica del primo ordine le proposizioni hanno significato
ma non senso, sono invece le dimostrazioni che hanno senso.

Ok, ho capito.
Grazie.
--
genti diverse, venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.

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uahlim
2005-09-05 20:23:34 UTC
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Post by Marco V.
sintagmi - la stessa differenza che intercorre tra "l'autore della
Metafisica" e "il maestro di Alessandro Magno" da una parte e "Aristotele"
dall'altro. Le prime due espressioni hanno "senso" differente ma
"significato" identico -
Fammi capire: l'espressione "l'attuale re di Francia" nella tua accezione
sarebbe quindi dotata di senso ma sarebbe priva di significato?

Come pure l'espressione x appartenente all'insieme dei numeri reali tale
che x*x+1=0 sarebbe priva di significato ma con un senso?

Ossia il significato sarebbe la soluzione (o le soluzioni se poi piu'
d'uno fu maestro ad Alessandro Magno) dell'equazione e l'equazione il
senso?
--
genti diverse, venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.

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Marco V.
2005-09-09 21:30:37 UTC
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Post by uahlim
Post by Marco V.
sintagmi - la stessa differenza che intercorre tra "l'autore della
Metafisica" e "il maestro di Alessandro Magno" da una parte e "Aristotele"
dall'altro. Le prime due espressioni hanno "senso" differente ma
"significato" identico -
Fammi capire: l'espressione "l'attuale re di Francia" nella tua accezione
sarebbe quindi dotata di senso ma sarebbe priva di significato?
Mi era sfuggito il tuo post.

Nella *teoria di Frege* è proprio così. Quella espressione (che contiene il
termine indessicale "attuale") è sensata ma priva di riferimento oggettuale,
cioè di significato. Dunque, in base al principio di composizionalità, un
enunciato in cui figuri quella espressione è a sua volta sensato ma
privo di significato, cioè, siccome il significato di un enunciato è il
suo valore di verità, privo di valore di verità. Ovvero, nè vero nè falso.
Proprio per ovviare a questa conseguenza, Frege proporrà la creazione di una
lingua "perfetta" (simbolica) in cui ogni termine singolare o nome proprio,
e comunque ogni espressione grammaticalmente corretta, sia dotato di
denotazione. Alla teoria fregeana obietterà Russell con la sua teoria delle
"descrizioni definite", nel modo che ben sai. A Russell obietterà a sua
volta Strawson. E così via (la filosofia analitica è un continuo proliferare
di teorie, a tal punto che alcuni - mi pare Colletti - hanno parlato di un
suo risolversi in un "nulla di fatto": volevano chiarire il linguaggio; lo
hanno lasciato uguale, e da chiarire sono rimaste le loro teorie).

A proposito di Russell, può essere utile ricordare che nel suo "On denoting"
(il saggio nel quale espone la sua teoria delle descrizioni definite; siamo
esattamente a 100 anni dalla sua pubblicazione) la
coppia fregeana senso("Sinn")/significato(Bedeutung) viene resa
rispettivamente come meaning/denotation. "Meaning" corrisponde al nostro
"significato" - dunque anche in Russell, come in Husserl, c'è questo scambio
terminologico.
Post by uahlim
Come pure l'espressione x appartenente all'insieme dei numeri reali tale
che x*x+1=0 sarebbe priva di significato ma con un senso?
Esatto. "x*x+1=0"(=P(x)) contiene una variabile libera, la x, che assume
valori su un certo dominio. P(x) è cioè una "formula aperta", e non un
"enunciato" o "formula chiusa". E quello di poter avere un certo valore di
verità è una proprietà degli enunciati, non delle formule aperte. Dovremmo
mettere quella espressione nella forma "Esiste (un) x tale che P(x)", in cui
x figura come variabile vincolata, cioè quantificata esistenzialmente. Ma
allora, all'interno della stessa teoria di Frege, la non esistenza di una x
che verifichi quella uguaglianza implica non l'assenza del valore di verità
(così come "Il re di Francia è calvo" non è nè vero nè falso), ma la
*falsità* dell'enunciato.

Invece, "x appartenente all'insieme dei numeri reali tale che P(x)" è una
espressione che per Frege ha sicuramente senso. Ma altrettanto sicuramente è
priva di significato, cioè di denotazione. Infatti quella equazione non
ammette soluzione nell'insieme dei reali.
Post by uahlim
Ossia il significato sarebbe la soluzione (o le soluzioni se poi piu'
d'uno fu maestro ad Alessandro Magno) dell'equazione e l'equazione il
senso?
Il significato sarebbe la soluzione dell'equazione P(x), certo. Ma non è
vero quello che dici dopo. Per Frege il senso in questione è il senso
dell'espressione "x...tale che P(x)". P(x), cioè l'equazione, è un
componente del senso in questione. Se come espressione per cui specificare
la teoria fregeana prendi P(x), si cade nell'errore cui mi riferivo sopra
(differenza tra formule aperte ed enunciati).

Un saluto,

Marco
thisDeadBoy
2005-09-05 06:30:43 UTC
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Post by uahlim
Che differenza c'e' tra senso e significato? Per pensatori diversi od
epoche diverse i due termini hanno acquisito un senso od un significato
diverso?
il significato e' in se', il senso e' in relazione.
tu lo sai perche' su cio' ci giochi molto.
ciao
--
questo articolo e` stato inviato via web dal servizio gratuito
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uahlim
2005-09-05 20:27:43 UTC
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Post by thisDeadBoy
il significato e' in se', il senso e' in relazione.
tu lo sai perche' su cio' ci giochi molto.
ciao
Mi piace, molto buddhista: il mio mondo per me ha senso perche' e' privo
di significato.
--
genti diverse, venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.

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Marco V.
2005-09-06 14:09:48 UTC
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Post by uahlim
Che differenza c'e' tra senso e significato? Per pensatori diversi od
epoche diverse i due termini hanno acquisito un senso od un significato
diverso?
Quanto alla "storia" di questi due termini, il discorso sarebbe lungo. Come
esempio, potremmo citare il fatto che il Husserl "significato" è usato
grosso modo nella accezione in cui Frege usa "senso": cioè, come *ciò* che
fa sì che i nostri atti espressivi o percettivi abbiano un carattere
intenzionale; il fondamento della intenzionalità dei nostri atti, potremmo
dire. Un *ciò*, però, che non coincide affatto con il "riferimento", come ci
viene immediatamente esibito dal fatto che enunciati sensati, che cioè hanno
senso, possono essere, nelle loro componenti, privi di riferimento
oggettuale (e questo è proprio il problema di cui accennavo a K. e Davide).
Nella logica formale poi, dopo Carnap e Kripke con "senso" si intende in
genere la funzione che associa ad ogni espressione del linguaggio il suo
referente nel mondo possibile.

Un saluto,

Marco
Labirinti
2005-09-10 22:35:14 UTC
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Post by uahlim
Che differenza c'e' tra senso e significato? Per pensatori diversi od
epoche diverse i due termini hanno acquisito un senso od un significato
diverso?
Grazie.
Non vorrei sbagliarmi, ma il senso lo riferirei a cose molto generali
come prospettive, visioni del mondo, etc. Mentre il significato lo
vedrei funzione del senso all'interno del quale si sta ragionando.

In pratica, il marxismo fornisce un certo senso al mondo, il
cristianesimo un altro senso. Pensiamo ora ad una carestia. Essa
acquisterà un significato da una prospettiva economicista come quella
marxista ed un altro da una prospettiva religiosa che vede Dio come
causa e finalità di tutte le cose.

Labirinti
***@libero.it
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