Discussione:
Rovelli, Nagarjuna, sostanza
(troppo vecchio per rispondere)
pcf ansiagorod
2023-05-16 08:44:36 UTC
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Ciao gruppo,

Sull'onda dei fatti recenti mi sono imbattuto per la seconda
volta nel Rovelli filosofo. Diverse volte per quanto posso
ricordare ha chiamato in causa il filosofo indiano Nagarjuna e
cercando in rete il motivo di questa sua simpatia mi sono
imbattuto in questo:

'Io non sono un filosofo, sono un fisico: un vile meccanico. A
questo vile meccanico […] Nagarjuna insegna che posso pensare
le manifestazioni degli oggetti fisici senza dovermi chiedere
cosa sia l’oggetto fisico indipendentemente dalle sue
manifestazioni.'

Che pare sia tratto dal suo libro Helgoland che non ho. Poi ho
trovato 'Una critica del naturalismo senza sostanza di Carlo
Rovelli' del prof Bargigli di Firenze. Non ne posto il link
perché almeno il mio browser lo considera virus (un PDF? Sì
potrebbe ma non lo è in questo caso) ma è facilmente trovabile.
Il succo dell'articolo è che il concetto di sostanza nella
filosofia occidentale è abbastanza duttile da impedire che si
debba negare il concetto di sostanza medesimo. Ma secondo me
non coglie (e credo non intenda farlo) il punto del perché la
lettura che Rovelli fa di Nagarjuna mi suona innaturale anche
se non so precisarne più di tanto i motivi.

Per quanto poco possa io aver compreso Nagarjuna e parafrasando
Rovelli, Nagarjuna si limita a negare l'esistenza indipendente
degli enti e non riduce il reale a 'solo relazioni'. Il
fenomeno, l'oggetto esiste realmente ma non esiste in modo
intrinseco. Credo che in termini nostrani sia una negazione
dell'idea di sostanza o almeno di qualche sua modalità di
esistenza. Ma questa negazione non impedisce che i fenomeni
siano reali: 'semplicemente' non esistono come ci appaiono.
Quindi sulla base dell'interdipendenza dei costituenti del
fenomeno (esempio tipico il carro che non è le sue ruote, le
sue parti, etc.) e della nostra percezione noi etichettiamo il
fenomeno in quel certo modo con quel certo nome. Questo
comprende le relazioni ma - sempre per la mia comprensione di
Nagarjuna - queste relazioni possono sussistere solo sulla base
di qualcosa. Quindi mi pare tutto il contrario
dell'affermazione di Rovelli: anzi deve esistere quella che
tecnicamente in quella letteratura (indo tibetana) viene
chiamata 'base di imputazione'; nel classico esempio del carro
sono le sue parti. Per la fisica potrebbero essere (?) i dati
sperimentali del fenomeno che si sta studiando. Poco importa
obiettare che ad esempio l'elettrone è per noi inconcepibile
come oggetto fisico. Gli effetti che produce in certi
esperimenti e circostanze possono sussistere solo perché
qualcosa che non è solo un insieme di relazioni ha un qualche
status di esistenza tanto è vero che produce effetti sugli
strumenti di misura. E penso che questo obietterebbe Nagarjuna
a Rovelli anche se è ovviamente solo la mia impressione.

Perché ho scritto tutto questo? Perché ora che Rovelli si è
eletto a 'maître à penser' mi trovo spesso a discutere con
alcune persone che conoscono la filosofia indiana tramite lui,
e a mio parere a costoro arriva il messaggio sbagliato che più
sbagliato non si potrebbe. Beninteso non credo sia colpa di
Rovelli ma del fatto che il pensiero di Nagarjuna si presta
meravigliosamente a supportare menate quantistiche e
pseudo-fisiche e quindi attira in modo naturale un fisico con
inclinazioni alla filosofia. E credo che a quel punto sia molto
difficile essere grandi e profondi allo stesso modo in più di
una disciplina. Ma dico questo in termini dubitativi perché
vale anche per me: non sono uno studioso di Nagarjuna che
insegna filosofia indiana in qualche prestigiosa università.
Posso aver capito male io.

Vorrei essere in grado di dare un quadro preciso alle mie
sensazioni; per questo credo di abbisognare di una decente
conoscenza del concetto di 'sostanza' come si è sviluppato
nella nostra filosofia occidentale. Orbene, esiste il libro
giusto e se sì cosa mi consigliate?

Grazie :)
Marco V.
2023-05-18 07:27:46 UTC
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Post by pcf ansiagorod
Ciao gruppo,
Sull'onda dei fatti recenti mi sono imbattuto per la seconda
volta nel Rovelli filosofo. Diverse volte per quanto posso
ricordare ha chiamato in causa il filosofo indiano Nagarjuna e
cercando in rete il motivo di questa sua simpatia mi sono
'Io non sono un filosofo, sono un fisico: un vile meccanico. A
questo vile meccanico […] Nagarjuna insegna che posso pensare
le manifestazioni degli oggetti fisici senza dovermi chiedere
cosa sia l’oggetto fisico indipendentemente dalle sue
manifestazioni.'
Che pare sia tratto dal suo libro Helgoland che non ho. Poi ho
trovato 'Una critica del naturalismo senza sostanza di Carlo
Rovelli' del prof Bargigli di Firenze. Non ne posto il link
perché almeno il mio browser lo considera virus (un PDF? Sì
potrebbe ma non lo è in questo caso) ma è facilmente trovabile.
Il succo dell'articolo è che il concetto di sostanza nella
filosofia occidentale è abbastanza duttile da impedire che si
debba negare il concetto di sostanza medesimo. Ma secondo me
non coglie (e credo non intenda farlo) il punto del perché la
lettura che Rovelli fa di Nagarjuna mi suona innaturale anche
se non so precisarne più di tanto i motivi.
Per quanto poco possa io aver compreso Nagarjuna e parafrasando
Rovelli, Nagarjuna si limita a negare l'esistenza indipendente
degli enti e non riduce il reale a 'solo relazioni'. Il
fenomeno, l'oggetto esiste realmente ma non esiste in modo
intrinseco. Credo che in termini nostrani sia una negazione
dell'idea di sostanza o almeno di qualche sua modalità di
esistenza. Ma questa negazione non impedisce che i fenomeni
siano reali: 'semplicemente' non esistono come ci appaiono.
Quindi sulla base dell'interdipendenza dei costituenti del
fenomeno (esempio tipico il carro che non è le sue ruote, le
sue parti, etc.) e della nostra percezione noi etichettiamo il
fenomeno in quel certo modo con quel certo nome. Questo
comprende le relazioni ma - sempre per la mia comprensione di
Nagarjuna - queste relazioni possono sussistere solo sulla base
di qualcosa. Quindi mi pare tutto il contrario
dell'affermazione di Rovelli: anzi deve esistere quella che
tecnicamente in quella letteratura (indo tibetana) viene
chiamata 'base di imputazione'; nel classico esempio del carro
sono le sue parti. Per la fisica potrebbero essere (?) i dati
sperimentali del fenomeno che si sta studiando. Poco importa
obiettare che ad esempio l'elettrone è per noi inconcepibile
come oggetto fisico. Gli effetti che produce in certi
esperimenti e circostanze possono sussistere solo perché
qualcosa che non è solo un insieme di relazioni ha un qualche
status di esistenza tanto è vero che produce effetti sugli
strumenti di misura. E penso che questo obietterebbe Nagarjuna
a Rovelli anche se è ovviamente solo la mia impressione.
Perché ho scritto tutto questo? Perché ora che Rovelli si è
eletto a 'maître à penser' mi trovo spesso a discutere con
alcune persone che conoscono la filosofia indiana tramite lui,
e a mio parere a costoro arriva il messaggio sbagliato che più
sbagliato non si potrebbe. Beninteso non credo sia colpa di
Rovelli ma del fatto che il pensiero di Nagarjuna si presta
meravigliosamente a supportare menate quantistiche e
pseudo-fisiche e quindi attira in modo naturale un fisico con
inclinazioni alla filosofia. E credo che a quel punto sia molto
difficile essere grandi e profondi allo stesso modo in più di
una disciplina. Ma dico questo in termini dubitativi perché
vale anche per me: non sono uno studioso di Nagarjuna che
insegna filosofia indiana in qualche prestigiosa università.
Posso aver capito male io.
Vorrei essere in grado di dare un quadro preciso alle mie
sensazioni; per questo credo di abbisognare di una decente
conoscenza del concetto di 'sostanza' come si è sviluppato
nella nostra filosofia occidentale. Orbene, esiste il libro
giusto e se sì cosa mi consigliate?
In quella sua affermazione il buon Rovelli fa implicitamente riferimento al concetto di cosa in sé. Kant sarebbe d'accordo, nel senso che per pensare i fenomeni è sufficiente assumere *che* esista il qualcosa X indipendente dalle sue rappresentazioni. Ma allora qui il problema è come sia stato recepito da Rovelli il pensiero di Nagarjuna, di cui non conosco la... sostanza. Sicuramente fa più "spirituale" richiamarsi all'indiano Nagarjuna piuttosto che al prussiano Kant. Quanto al concetto di "sostanza", tutto comincia, in buona... sostanza:-), con il libro Z della Metafisica di Aristotele, un libro terribilmente problematico. La bibliografia è sconfinata. Non so se hai provato a sfogliare i riferimenti bibliografici in quel libro di Galluzzo. Un'altra buona idea, sempre se si legge l'inglese, è dare un'occhiata alla voce sulla Standford: https://plato.stanford.edu/entries/substance/
Massimo 456b
2023-05-20 07:19:51 UTC
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Il giorno mercoledì 17 maggio 2023 alle 20:33:04 UTC+2 pcf ansiagorod ha scritto:> Ciao gruppo, > > Sull'onda dei fatti recenti mi sono imbattuto per la seconda > volta nel Rovelli filosofo. Diverse volte per quanto posso > ricordare ha chiamato in causa il filosofo indiano Nagarjuna e > cercando in rete il motivo di questa sua simpatia mi sono > imbattuto in questo: > > 'Io non sono un filosofo, sono un fisico: un vile meccanico. A > questo vile meccanico [?] Nagarjuna insegna che posso pensare > le manifestazioni degli oggetti fisici senza dovermi chiedere > cosa sia l?oggetto fisico indipendentemente dalle sue > manifestazioni.' > > Che pare sia tratto dal suo libro Helgoland che non ho. Poi ho > trovato 'Una critica del naturalismo senza sostanza di Carlo > Rovelli' del prof Bargigli di Firenze. Non ne posto il link > perché almeno il mio browser lo considera virus (un PDF? Sì > potrebbe ma non lo è in questo caso) ma è facilmente trovabile. > Il succo dell'articolo è che il co
ncetto di sostanza nella > filosofia occidentale è abbastanza duttile da impedire che si > debba negare il concetto di sostanza medesimo. Ma secondo me > non coglie (e credo non intenda farlo) il punto del perché la > lettura che Rovelli fa di Nagarjuna mi suona innaturale anche > se non so precisarne più di tanto i motivi. > > Per quanto poco possa io aver compreso Nagarjuna e parafrasando > Rovelli, Nagarjuna si limita a negare l'esistenza indipendente > degli enti e non riduce il reale a 'solo relazioni'. Il > fenomeno, l'oggetto esiste realmente ma non esiste in modo > intrinseco. Credo che in termini nostrani sia una negazione > dell'idea di sostanza o almeno di qualche sua modalità di > esistenza. Ma questa negazione non impedisce che i fenomeni > siano reali: 'semplicemente' non esistono come ci appaiono. > Quindi sulla base dell'interdipendenza dei costituenti del > fenomeno (esempio tipico il carro che non è le sue ruote, le > sue parti, etc.) e della nostra percezione noi
etichettiamo il > fenomeno in quel certo modo con quel certo nome. Questo > comprende le relazioni ma - sempre per la mia comprensione di > Nagarjuna - queste relazioni possono sussistere solo sulla base > di qualcosa. Quindi mi pare tutto il contrario > dell'affermazione di Rovelli: anzi deve esistere quella che > tecnicamente in quella letteratura (indo tibetana) viene > chiamata 'base di imputazione'; nel classico esempio del carro > sono le sue parti. Per la fisica potrebbero essere (?) i dati > sperimentali del fenomeno che si sta studiando. Poco importa > obiettare che ad esempio l'elettrone è per noi inconcepibile > come oggetto fisico. Gli effetti che produce in certi > esperimenti e circostanze possono sussistere solo perché > qualcosa che non è solo un insieme di relazioni ha un qualche > status di esistenza tanto è vero che produce effetti sugli > strumenti di misura. E penso che questo obietterebbe Nagarjuna > a Rovelli anche se è ovviamente solo la mia impressione. > >
Perché ho scritto tutto questo? Perché ora che Rovelli si è > eletto a 'maître à penser' mi trovo spesso a discutere con > alcune persone che conoscono la filosofia indiana tramite lui, > e a mio parere a costoro arriva il messaggio sbagliato che più > sbagliato non si potrebbe. Beninteso non credo sia colpa di > Rovelli ma del fatto che il pensiero di Nagarjuna si presta > meravigliosamente a supportare menate quantistiche e > pseudo-fisiche e quindi attira in modo naturale un fisico con > inclinazioni alla filosofia. E credo che a quel punto sia molto > difficile essere grandi e profondi allo stesso modo in più di > una disciplina. Ma dico questo in termini dubitativi perché > vale anche per me: non sono uno studioso di Nagarjuna che > insegna filosofia indiana in qualche prestigiosa università. > Posso aver capito male io. > > Vorrei essere in grado di dare un quadro preciso alle mie > sensazioni; per questo credo di abbisognare di una decente > conoscenza del concetto di 'sostan
za' come si è sviluppato > nella nostra filosofia occidentale. Orbene, esiste il libro > giusto e se sì cosa mi consigliate? In quella sua affermazione il buon Rovelli fa implicitamente riferimento al concetto di cosa in sé. Kant sarebbe d'accordo, nel senso che per pensare i fenomeni è sufficiente assumere *che* esista il qualcosa X indipendente dalle sue rappresentazioni. Ma allora qui il problema è come sia stato recepito da Rovelli il pensiero di Nagarjuna, di cui non conosco la... sostanza. Sicuramente fa più "spirituale" richiamarsi all'indiano Nagarjuna piuttosto che al prussiano Kant. Quanto al concetto di "sostanza", tutto comincia, in buona... sostanza:-), con il libro Z della Metafisica di Aristotele, un libro terribilmente problematico. La bibliografia è sconfinata. Non so se hai provato a sfogliare i riferimenti bibliografici in quel libro di Galluzzo. Un'altra buona idea, sempre se si legge l'inglese, è dare un'occhiata alla voce sulla Standford: https://plato.stanford
.edu/entries/substance/

un'altra buona idea, senza leggere nulla, e' chiedersi se la
sostanza della misura sia conciliabile con la sostanza degli enti
e del loro ambi-ente.
E filosoficamente l'ambiente degli enti non e' lo spaziotempo ma
l'essere.
Cio' che scorre davanti ai nostri occhi irrefrenabile e che
nessuno puo' misurare ma solo intuire.
Che poi spiritualmente uno possa ricorrere all'impertubabilita'
indiana per fermare l'essere nel divenire e' solo una pratica che
occidentalmente chiamiamo riflessione.
--
ciao Massimo


________________________

##provare per credere##


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Marco V.
2023-05-24 10:58:20 UTC
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Post by Massimo 456b
[...]
un'altra buona idea, senza leggere nulla, e' chiedersi se la
sostanza della misura sia conciliabile con la sostanza degli enti
e del loro ambi-ente.
E filosoficamente l'ambiente degli enti non e' lo spaziotempo ma
l'essere.
Già, la misura, che comporta l'interazione con la soggettività, è necessariamente misura di qualcosa. Ma quel "di" (che indica la "sostanza della misura") significa solamente che qualcosa viene misurato, e non che il risultato della misura esprime una proprietà *di* un qualcosa che funge da sostrato indipendente. A partire da qui è impostabile tutta la problematica.
Post by Massimo 456b
Cio' che scorre davanti ai nostri occhi irrefrenabile e che
nessuno puo' misurare ma solo intuire.
Che poi spiritualmente uno possa ricorrere all'impertubabilita'
indiana per fermare l'essere nel divenire e' solo una pratica che
occidentalmente chiamiamo riflessione.
Lo scorrere di "ciò che scorre" è lo scorrere *di* qualcosa? Dalla resistenza ontologica di quel "di", sempre lui, dipende se il saggio ci sommergerà di dottrine o sceglierà il silenzio.

Saluti,

Marco
pcf ansiagorod
2023-05-19 13:17:42 UTC
Permalink
Post by Marco V.
In quella sua affermazione il buon Rovelli fa implicitamente
riferimento al concetto di cosa in sé. Kant sarebbe
d'accordo, nel senso che per pensare i fenomeni è sufficiente
assumere *che* esista il qualcosa X indipendente dalle sue
rappresentazioni. Ma allora qui il problema è come sia stato
recepito da Rovelli il pensiero di Nagarjuna, di cui non
conosco la... sostanza. Sicuramente fa più "spirituale"
richiamarsi all'indiano Nagarjuna piuttosto che al prussiano
Kant.
Almeno tu conosci Kant, io non posso certo dire di conoscere né
Kant né Nagarjuna. Ammesso di conoscere entrambi a sufficienza
si potrebbe capire come sono stati recepiti da Rovelli. Come ho
accennato tra le righe è l'ultimo dei miei problemi ma scala
posizioni in classifica parlando con quelli che hanno
incontrato Nagarjuna tramite Rovelli :D

Sarebbe già molto difficile un ipotetico lavoro di _eventuale_
rettifica della ricezione del pensiero di Nagarjuna tramite
Rovelli in presenza delle ipotesi migliori: conoscenza
dell'argomento, individuo capace di comprendere eventuali
errori eccetera. Così mi pare disperante e alla fine, per me,
inutile.

Quello che è certo è che Nagarjuna è appartenuto a un universo
culturale così distante dal nostro che le conclusioni a cui è
giunto - che possano interessare un filosofo occidentale medio
- sono conseguenze di elaborazioni dirette a tutt'altro scopo.

Per questo penso che qualsiasi tipo di appropriazione o
parallelismo richieda molta cautela. Però Rovelli non è il
primo a subire il fascino dell'India e forse è destino dei
grandi essere 'letti' in tanti modi a cui nemmeno avrebbero
pensato :D

Per completezza, avrei voluto rivedere meglio il mio post prima
di spedire. In effetti sia a Nagarjuna che Rovelli 'interessa'
negare qualche aspetto dell'idea di sostanza mentre da come ho
posto le cose si potrebbe pensare di no. Resta la mia
sensazione che pensassero a cose troppo diverse perché possano
avere aspetti in comune. Ma è proprio quello che vorrei capire
e poi precisare a me stesso.
Post by Marco V.
Quanto al concetto di "sostanza", tutto comincia, in
buona... sostanza:-), con il libro Z della Metafisica di
Aristotele, un libro terribilmente problematico. La
bibliografia è sconfinata. Non so se hai provato a sfogliare
i riferimenti bibliografici in quel libro di Galluzzo.
Un'altra buona idea, sempre se si legge l'inglese, è dare
https://plato.stanford.edu/entries/substance/
Non ho dato un'occhata ai riferimenti del libro. Già mi sta
impegnando da solo così; dover o voler ricorrere a un
riferimento sarebbe indice di una certa comprensione da parte
mia. Magari ci arriverò pure, chi sa.

Per il resto ho diligentemente annotato e messo la pagina di
Stanford in evidenza, spero di cavarne qualcosa e ti ringrazio
anche stavolta :)
Marco V.
2023-05-24 11:10:56 UTC
Permalink
Post by pcf ansiagorod
[...]
Almeno tu conosci Kant, io non posso certo dire di conoscere né
Kant né Nagarjuna. Ammesso di conoscere entrambi a sufficienza
si potrebbe capire come sono stati recepiti da Rovelli. Come ho
accennato tra le righe è l'ultimo dei miei problemi ma scala
posizioni in classifica parlando con quelli che hanno
incontrato Nagarjuna tramite Rovelli :D
Sarebbe già molto difficile un ipotetico lavoro di _eventuale_
rettifica della ricezione del pensiero di Nagarjuna tramite
Rovelli in presenza delle ipotesi migliori: conoscenza
dell'argomento, individuo capace di comprendere eventuali
errori eccetera. Così mi pare disperante e alla fine, per me,
inutile.
Quello che è certo è che Nagarjuna è appartenuto a un universo
culturale così distante dal nostro che le conclusioni a cui è
giunto - che possano interessare un filosofo occidentale medio
- sono conseguenze di elaborazioni dirette a tutt'altro scopo.
Per questo penso che qualsiasi tipo di appropriazione o
parallelismo richieda molta cautela. Però Rovelli non è il
primo a subire il fascino dell'India e forse è destino dei
grandi essere 'letti' in tanti modi a cui nemmeno avrebbero
pensato :D
Per completezza, avrei voluto rivedere meglio il mio post prima
di spedire. In effetti sia a Nagarjuna che Rovelli 'interessa'
negare qualche aspetto dell'idea di sostanza mentre da come ho
posto le cose si potrebbe pensare di no. Resta la mia
sensazione che pensassero a cose troppo diverse perché possano
avere aspetti in comune. Ma è proprio quello che vorrei capire
e poi precisare a me stesso.
La mia sensazione è che da molti occidentali il buddhismo (e non solo) venga recepito, senza che se ne sia completamente consapevoli, attraverso Kant. E può addirittura accadere il contrario. Dietro tutto questo, che è causa di innumerevoli confusioni, c'è però un nocciolo di verità: lo "scetticismo", nel senso più generale, ha certamente nel pensiero orientale una delle sue fonti originarie, che risuona parecchio in certe dottrine di Platone. Ma qui allora il problema diventa quello, tuttora aperto, dell'origine della filosofia.
Loris Dalla Rosa
2023-05-24 15:28:38 UTC
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Post by Marco V.
Post by pcf ansiagorod
[...]
Almeno tu conosci Kant, io non posso certo dire di conoscere né
Kant né Nagarjuna. Ammesso di conoscere entrambi a sufficienza
si potrebbe capire come sono stati recepiti da Rovelli. Come ho
accennato tra le righe è l'ultimo dei miei problemi ma scala
posizioni in classifica parlando con quelli che hanno
incontrato Nagarjuna tramite Rovelli :D
Sarebbe già molto difficile un ipotetico lavoro di _eventuale_
rettifica della ricezione del pensiero di Nagarjuna tramite
Rovelli in presenza delle ipotesi migliori: conoscenza
dell'argomento, individuo capace di comprendere eventuali
errori eccetera. Così mi pare disperante e alla fine, per me,
inutile.
Quello che è certo è che Nagarjuna è appartenuto a un universo
culturale così distante dal nostro che le conclusioni a cui è
giunto - che possano interessare un filosofo occidentale medio
- sono conseguenze di elaborazioni dirette a tutt'altro scopo.
Per questo penso che qualsiasi tipo di appropriazione o
parallelismo richieda molta cautela. Però Rovelli non è il
primo a subire il fascino dell'India e forse è destino dei
grandi essere 'letti' in tanti modi a cui nemmeno avrebbero
pensato :D
Per completezza, avrei voluto rivedere meglio il mio post prima
di spedire. In effetti sia a Nagarjuna che Rovelli 'interessa'
negare qualche aspetto dell'idea di sostanza mentre da come ho
posto le cose si potrebbe pensare di no. Resta la mia
sensazione che pensassero a cose troppo diverse perché possano
avere aspetti in comune. Ma è proprio quello che vorrei capire
e poi precisare a me stesso.
La mia sensazione è che da molti occidentali il buddhismo (e non solo) venga recepito, senza che se ne sia completamente consapevoli, attraverso Kant. E può addirittura accadere il contrario. Dietro tutto questo, che è causa di innumerevoli confusioni, c'è però un nocciolo di verità: lo "scetticismo", nel senso più generale, ha certamente nel pensiero orientale una delle sue fonti originarie, che risuona parecchio in certe dottrine di Platone. Ma qui allora il problema diventa quello, tuttora aperto, dell'origine della filosofia.
Eh gia', caro Marco, e se vogliamo individuare il maggior "importatore"
di filosofia "esotica" dall'oriente indiano non possiamo che rivolgerci
a Schopenhauer (parlando di filosofi, ben inteso, e non della pletora di
ciarlatani fiorita negli anni '60 e '70 del secolo scorso), il quale
cosi' scriveva nei "Parerga":
<<In India non potranno mai mettere radice le nostre religioni: la
sapienza originaria del genere umano non sara' soppiantata dagli
accidenti successi in Galilea. Viceversa torna l'indiana sapienza verso
l'Europa e produrra' una fondamentale mutazione del nostro sapere e
pensare.>>
Schopenhauer subi' il fascino del saggio di F. Schlegel, "Sulla lingua e
la filosofia degli indiani" (1808), e poi l'orientalista Friedrich Meyer
gli fece conoscere, in traduzione latina, la parte filosofica dei libri
Veda (le "Upanishad"), che gli fece scrivere nel proemio della sua opera
maggiore: <<...io ritengo che l'influsso della letteratura sanscrita non
sara' meno profondo del rinascimento della cultura greca nel secolo XV>>
Ma la sua ricezione del buddismo non pote' che avvenire con la
mediazione di Kant e con la forzatura a questo suo imprescindibile
maestro e a quel pilastro della filosofia occidentale moderna che e' il
"cogito" cartesiano. Schopenhauer interpreta a suo modo il mondo come
rappresentazione, "velo di Maya" sotto il quale pero' non vi e' il
nulla, ma la realta' noumenica di una volonta' di vivere, senza alcun
germe di ragione ne' di finalismo, senza alcun concetto di essa al di
fuori delle forme platoneggianti della sua individuazione. Che nella
filofofia occidentale cio' abbia avuto un impatto notevole e' fuori di
dubbio, ma in senso diametralmente a quello della "noluntas" di
Schopenhauer, come ha ben mostrato Nietzsche. Il nichilismo occidentale
non e' e non poteva essere quello di Nagarjuna (per quel poco che di
esso so) nominato dall'amico "pcf ansiagorod", che, nella decostruzione
del pensiero stesso e delle sue categorie, a mio avviso trova
conclusione piu' coerente, per quanto detto paradossalmente, nel
*silenzio* di un monastero buddista, piuttosto che nella filosofia di
Schopenhauer. Andra' meglio al nostro buon fisico Rovelli? Non lo so, e
attendo lumi che rischiarino il mio scetticismo, che investe un po'
tutti i fisici che approdano alla filosofia, come Ulisse all'isola di
Αἰαίη:-).
Cari saluti,
Loris
--
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loris.d...@fastwebnet.it
2023-05-24 15:33:30 UTC
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Post by pcf ansiagorod
[...]
Almeno tu conosci Kant, io non posso certo dire di conoscere né
Kant né Nagarjuna. Ammesso di conoscere entrambi a sufficienza
si potrebbe capire come sono stati recepiti da Rovelli. Come ho
accennato tra le righe è l'ultimo dei miei problemi ma scala
posizioni in classifica parlando con quelli che hanno
incontrato Nagarjuna tramite Rovelli :D
Sarebbe già molto difficile un ipotetico lavoro di _eventuale_
rettifica della ricezione del pensiero di Nagarjuna tramite
Rovelli in presenza delle ipotesi migliori: conoscenza
dell'argomento, individuo capace di comprendere eventuali
errori eccetera. Così mi pare disperante e alla fine, per me,
inutile.
Quello che è certo è che Nagarjuna è appartenuto a un universo
culturale così distante dal nostro che le conclusioni a cui è
giunto - che possano interessare un filosofo occidentale medio
- sono conseguenze di elaborazioni dirette a tutt'altro scopo.
Per questo penso che qualsiasi tipo di appropriazione o
parallelismo richieda molta cautela. Però Rovelli non è il
primo a subire il fascino dell'India e forse è destino dei
grandi essere 'letti' in tanti modi a cui nemmeno avrebbero
pensato :D
Per completezza, avrei voluto rivedere meglio il mio post prima
di spedire. In effetti sia a Nagarjuna che Rovelli 'interessa'
negare qualche aspetto dell'idea di sostanza mentre da come ho
posto le cose si potrebbe pensare di no. Resta la mia
sensazione che pensassero a cose troppo diverse perché possano
avere aspetti in comune. Ma è proprio quello che vorrei capire
e poi precisare a me stesso.
La mia sensazione è che da molti occidentali il buddhismo (e non solo) venga recepito, senza che se ne sia completamente consapevoli, attraverso Kant. E può >addirittura accadere il contrario. Dietro tutto questo, che è causa di innumerevoli confusioni, c'è però un nocciolo di verità: lo "scetticismo", nel senso più >generale, ha certamente nel pensiero orientale una delle sue fonti originarie, che risuona parecchio in certe dottrine di Platone. Ma qui allora il problema diventa >quello, tuttora aperto, dell'origine della filosofia.
Eh gia', caro Marco, e se vogliamo individuare il maggior "importatore" di filosofia "esotica" dall'oriente indiano non possiamo che rivolgerci a Schopenhauer (parlando di filosofi, ben inteso, e non della pletora di ciarlatani fiorita negli anni '60 e '70 del secolo scorso), il quale cosi' scriveva nei "Parerga":
<<In India non potranno mai mettere radice le nostre religioni: la sapienza originaria del genere umano non sara' soppiantata dagli accidenti successi in Galilea. Viceversa torna l'indiana sapienza verso l'Europa e produrra' una fondamentale mutazione del nostro sapere e pensare.>>
Schopenhauer subi' il fascino del saggio di F. Schlegel, "Sulla lingua e la filosofia degli indiani" (1808), e poi l'orientalista Friedrich Meyer gli fece conoscere, in traduzione latina, la parte filosofica dei libri Veda (le "Upanishad"), che gli fece scrivere nel proemio della sua opera maggiore: <<...io ritengo che l'influsso della letteratura sanscrita non sara' meno profondo del rinascimento della cultura greca nel secolo XV>>
Ma la sua ricezione del buddismo non pote' che avvenire con la mediazione di Kant e con la forzatura a questo suo imprescindibile maestro e a quel pilastro della filosofia occidentale moderna che e' il "cogito" cartesiano. Schopenhauer interpreta a suo modo il mondo come rappresentazione, "velo di Maya" sotto il quale pero' non vi e' il nulla, ma la realta' noumenica di una volonta' di vivere, senza alcun germe di ragione ne' di finalismo, senza alcun concetto di essa al di fuori delle forme platoneggianti della sua individuazione. Che nella filofofia occidentale cio' abbia avuto un impatto notevole e' fuori di dubbio, ma in senso diametralmente a quello della "noluntas" di Schopenhauer, come ha ben mostrato Nietzsche. Il nichilismo occidentale non e' e non poteva essere quello di Nagarjuna (per quel poco che di esso so) nominato dall'amico "pcf ansiagorod", che, nella decostruzione del pensiero stesso e delle sue categorie, a mio avviso trova conclusione piu' coerente, per quanto detto paradossalmente, nel *silenzio* di un monastero buddista, piuttosto che nella filosofia di Schopenhauer. Andra' meglio al nostro buon fisico Rovelli? Non lo so, e attendo lumi che rischiarino il mio scetticismo, che investe un po' tutti i fisici che approdano alla filosofia, come Ulisse all'isola di Αἰαίη:-).
Cari saluti,
Loris
Marco V.
2023-05-25 11:31:32 UTC
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Post by ***@fastwebnet.it
[...]
<<In India non potranno mai mettere radice le nostre religioni: la sapienza originaria del genere umano non sara' soppiantata dagli accidenti successi in Galilea. Viceversa torna l'indiana sapienza verso l'Europa e produrra' una fondamentale mutazione del nostro sapere e pensare.>>
Schopenhauer subi' il fascino del saggio di F. Schlegel, "Sulla lingua e la filosofia degli indiani" (1808), e poi l'orientalista Friedrich Meyer gli fece conoscere, in traduzione latina, la parte filosofica dei libri Veda (le "Upanishad"), che gli fece scrivere nel proemio della sua opera maggiore: <<...io ritengo che l'influsso della letteratura sanscrita non sara' meno profondo del rinascimento della cultura greca nel secolo XV>>
Ma la sua ricezione del buddismo non pote' che avvenire con la mediazione di Kant e con la forzatura a questo suo imprescindibile maestro e a quel pilastro della filosofia occidentale moderna che e' il "cogito" cartesiano. Schopenhauer interpreta a suo modo il mondo come rappresentazione, "velo di Maya" sotto il quale pero' non vi e' il nulla, ma la realta' noumenica di una volonta' di vivere, senza alcun germe di ragione ne' di finalismo, senza alcun concetto di essa al di fuori delle forme platoneggianti della sua individuazione. Che nella filofofia occidentale cio' abbia avuto un impatto notevole e' fuori di dubbio, ma in senso diametralmente a quello della "noluntas" di Schopenhauer, come ha ben mostrato Nietzsche. Il nichilismo occidentale non e' e non poteva essere quello di Nagarjuna (per quel poco che di esso so) nominato dall'amico "pcf ansiagorod", che, nella decostruzione del pensiero stesso e delle sue categorie, a mio avviso trova conclusione piu' coerente, per quanto detto paradossalmente, nel *silenzio* di un monastero buddista, piuttosto che nella filosofia di Schopenhauer. Andra' meglio al nostro buon fisico Rovelli? Non lo so, e attendo lumi che rischiarino il mio scetticismo, che investe un po' tutti i fisici che approdano alla filosofia, come Ulisse all'isola di Αἰαίη:-).
Ciao Loris, già, è Schopenhauer, che disponeva di traduzioni parziali, ad aprire le vie di collegamento tra la filosofia moderna e la tradizione indiana. L'analisi di Nietzsche sulle logiche che avrebbero regolato la diffusione del pensiero orientale tra le masse occidentali è stata confermata dai fatti. E attendo lumi anch'io sull'ultimo punto. Di Rovelli avevo cominciato, prima che la *v*oluntas che domina con la sua spietata oggettività il nostro mondo (cioè il "lavoro") mi riassorbisse, a leggere questo suo scritto: "Physics needs philosophy. Philosophy needs physics" [https://core.ac.uk/download/pdf/160114252.pdf], un titolo dal sapore un po' teologico (fides/intellectus)... Esordisce criticando la tesi di Weinberg sulla pericolosità della filosofia per la fisica (e che dire di quella contraria?:-)) e quella di Hawking sulla morte (per esaurimento) della filosofia... Le "comunicazioni" fisica/filosofia sono tanto problematiche quanto originarie, se pensiamo ai "fisici" ionici con cui, stando alla tradizione, la filosofia ha esordito. Poco dopo quell'esordio, è forse l'enigmatica figura di Parmenide che ci permetterebbe di affrontare la questione: il suo ἐὸν è o no il *silenzio* del mondo dei fenomeni?

Cari saluti,

Marco
Loris Dalla Rosa
2023-05-24 15:35:15 UTC
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Post by Marco V.
Post by pcf ansiagorod
[...]
Almeno tu conosci Kant, io non posso certo dire di conoscere né
Kant né Nagarjuna. Ammesso di conoscere entrambi a sufficienza
si potrebbe capire come sono stati recepiti da Rovelli. Come ho
accennato tra le righe è l'ultimo dei miei problemi ma scala
posizioni in classifica parlando con quelli che hanno
incontrato Nagarjuna tramite Rovelli :D
Sarebbe già molto difficile un ipotetico lavoro di _eventuale_
rettifica della ricezione del pensiero di Nagarjuna tramite
Rovelli in presenza delle ipotesi migliori: conoscenza
dell'argomento, individuo capace di comprendere eventuali
errori eccetera. Così mi pare disperante e alla fine, per me,
inutile.
Quello che è certo è che Nagarjuna è appartenuto a un universo
culturale così distante dal nostro che le conclusioni a cui è
giunto - che possano interessare un filosofo occidentale medio
- sono conseguenze di elaborazioni dirette a tutt'altro scopo.
Per questo penso che qualsiasi tipo di appropriazione o
parallelismo richieda molta cautela. Però Rovelli non è il
primo a subire il fascino dell'India e forse è destino dei
grandi essere 'letti' in tanti modi a cui nemmeno avrebbero
pensato :D
Per completezza, avrei voluto rivedere meglio il mio post prima
di spedire. In effetti sia a Nagarjuna che Rovelli 'interessa'
negare qualche aspetto dell'idea di sostanza mentre da come ho
posto le cose si potrebbe pensare di no. Resta la mia
sensazione che pensassero a cose troppo diverse perché possano
avere aspetti in comune. Ma è proprio quello che vorrei capire
e poi precisare a me stesso.
La mia sensazione è che da molti occidentali il buddhismo (e non solo) venga recepito, senza che se ne sia completamente consapevoli, attraverso Kant. E può addirittura accadere il contrario. Dietro tutto questo, che è causa di innumerevoli confusioni, c'è però un nocciolo di verità: lo "scetticismo", nel senso più generale, ha certamente nel pensiero orientale una delle sue fonti originarie, che risuona parecchio in certe dottrine di Platone. Ma qui allora il problema diventa quello, tuttora aperto, dell'origine della filosofia.
Eh gia', caro Marco, e se vogliamo individuare il maggior "importatore"
di filosofia "esotica" dall'oriente indiano non possiamo che rivolgerci
a Schopenhauer (parlando di filosofi, ben inteso, e non della pletora di
ciarlatani fiorita negli anni '60 e '70 del secolo scorso), il quale
cosi' scriveva nei "Parerga":
<<In India non potranno mai mettere radice le nostre religioni: la
sapienza originaria del genere umano non sara' soppiantata dagli
accidenti successi in Galilea. Viceversa torna l'indiana sapienza verso
l'Europa e produrra' una fondamentale mutazione del nostro sapere e
pensare.>>
Schopenhauer subi' il fascino del saggio di F. Schlegel, "Sulla lingua e
la filosofia degli indiani" (1808), e poi l'orientalista Friedrich Meyer
gli fece conoscere, in traduzione latina, la parte filosofica dei libri
Veda (le "Upanishad"), che gli fece scrivere nel proemio della sua opera
maggiore: <<...io ritengo che l'influsso della letteratura sanscrita non
sara' meno profondo del rinascimento della cultura greca nel secolo XV>>
Ma la sua ricezione del buddismo non pote' che avvenire con la
mediazione di Kant e con la forzatura a questo suo imprescindibile
maestro e a quel pilastro della filosofia occidentale moderna che e' il
"cogito" cartesiano. Schopenhauer interpreta a suo modo il mondo come
rappresentazione, "velo di Maya" sotto il quale pero' non vi e' il
nulla, ma la realta' noumenica di una volonta' di vivere, senza alcun
germe di ragione ne' di finalismo, senza alcun concetto di essa al di
fuori delle forme platoneggianti della sua individuazione. Che nella
filofofia occidentale cio' abbia avuto un impatto notevole e' fuori di
dubbio, ma in senso diametralmente a quello della "noluntas" di
Schopenhauer, come ha ben mostrato Nietzsche. Il nichilismo occidentale
non e' e non poteva essere quello di Nagarjuna (per quel poco che di
esso so) nominato dall'amico "pcf ansiagorod", che, nella decostruzione
del pensiero stesso e delle sue categorie, a mio avviso trova
conclusione piu' coerente, per quanto detto paradossalmente, nel
*silenzio* di un monastero buddista, piuttosto che nella filosofia di
Schopenhauer. Andra' meglio al nostro buon fisico Rovelli? Non lo so, e
attendo lumi che rischiarino il mio scetticismo, che investe un po'
tutti i fisici che approdano alla filosofia, come Ulisse all'isola di
Αἰαίη:-).
Cari saluti,
Loris
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Loris Dalla Rosa
2023-05-24 17:36:56 UTC
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[...]
Mi scuso per i doppioni, la moderazione mi sta creando problemi:-)
L.
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Marco V.
2023-05-25 11:46:53 UTC
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Post by Loris Dalla Rosa
[...]
Mi scuso per i doppioni, la moderazione mi sta creando problemi:-)
Se crea problemi a te, che ne sei il capo, figurati agli altri:-)).

Marco
Omega
2023-05-26 05:38:28 UTC
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Post by Marco V.
Post by Loris Dalla Rosa
[...]
Mi scuso per i doppioni, la moderazione mi sta creando problemi:-)
Se crea problemi a te, che ne sei il capo, figurati agli altri:-)).
Marco
A me infatti ha fatto sparire un risposta alle mail di Pastore sul tema
della cancellazione culturale. E purtroppo non ne ho neppure la copia.

Omega
Loris Dalla Rosa
2023-05-27 14:15:03 UTC
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Post by pcf ansiagorod
Ciao gruppo,
Sull'onda dei fatti recenti mi sono imbattuto per la seconda volta nel
Rovelli filosofo. Diverse volte per quanto posso ricordare ha chiamato
in causa il filosofo indiano Nagarjuna e cercando in rete il motivo di
'Io non sono un filosofo, sono un fisico: un vile meccanico. A questo
vile meccanico […] Nagarjuna insegna che posso pensare le manifestazioni
degli oggetti fisici senza dovermi chiedere cosa sia l’oggetto fisico
indipendentemente dalle sue manifestazioni.'
Che pare sia tratto dal suo libro Helgoland che non ho. Poi ho trovato
'Una critica del naturalismo senza sostanza di Carlo Rovelli' del prof
Bargigli di Firenze. Non ne posto il link perché almeno il mio browser
lo considera virus (un PDF? Sì potrebbe ma non lo è in questo caso) ma è
facilmente trovabile. Il succo dell'articolo è che il concetto di
sostanza nella filosofia occidentale è abbastanza duttile da impedire
che si debba negare il concetto di sostanza medesimo. Ma secondo me non
coglie (e credo non intenda farlo) il punto del perché la lettura che
Rovelli fa di Nagarjuna mi suona innaturale anche se non so precisarne
più di tanto i motivi.
Per quanto poco possa io aver compreso Nagarjuna e parafrasando Rovelli,
Nagarjuna si limita a negare l'esistenza indipendente degli enti e non
riduce il reale a 'solo relazioni'. Il fenomeno, l'oggetto esiste
realmente ma non esiste in modo intrinseco. Credo che in termini
nostrani sia una negazione dell'idea di sostanza o almeno di qualche sua
modalità di esistenza. Ma questa negazione non impedisce che i fenomeni
siano reali: 'semplicemente' non esistono come ci appaiono. Quindi sulla
base dell'interdipendenza dei costituenti del fenomeno (esempio tipico
il carro che non è le sue ruote, le sue parti, etc.) e della nostra
percezione noi etichettiamo il fenomeno in quel certo modo con quel
certo nome. Questo comprende le relazioni ma - sempre per la mia
comprensione di Nagarjuna - queste relazioni possono sussistere solo
sulla base di qualcosa. Quindi mi pare tutto il contrario
dell'affermazione di Rovelli: anzi deve esistere quella che tecnicamente
in quella letteratura (indo tibetana) viene chiamata 'base di
imputazione'; nel classico esempio del carro sono le sue parti. Per la
fisica potrebbero essere (?) i dati sperimentali del fenomeno che si sta
studiando. Poco importa obiettare che ad esempio l'elettrone è per noi
inconcepibile come oggetto fisico. Gli effetti che produce in certi
esperimenti e circostanze possono sussistere solo perché qualcosa che
non è solo un insieme di relazioni ha un qualche status di esistenza
tanto è vero che produce effetti sugli strumenti di misura. E penso che
questo obietterebbe Nagarjuna a Rovelli anche se è ovviamente solo la
mia impressione.
Perché ho scritto tutto questo? Perché ora che Rovelli si è eletto a
'maître à penser' mi trovo spesso a discutere con alcune persone che
conoscono la filosofia indiana tramite lui, e a mio parere a costoro
arriva il messaggio sbagliato che più sbagliato non si potrebbe.
Beninteso non credo sia colpa di Rovelli ma del fatto che il pensiero di
Nagarjuna si presta meravigliosamente a supportare menate quantistiche e
pseudo-fisiche e quindi attira in modo naturale un fisico con
inclinazioni alla filosofia. E credo che a quel punto sia molto
difficile essere grandi e profondi allo stesso modo in più di una
disciplina. Ma dico questo in termini dubitativi perché vale anche per
me: non sono uno studioso di Nagarjuna che insegna filosofia indiana in
qualche prestigiosa università. Posso aver capito male io.
Ciao ansiagorod. Ho riletto con attenzione il tuo post. Anzitutto ti
confermo che il riferimento di Rovelli a Nagarjuna e' nel suo
"Helgoland". Ma piu' importante e' correggere l'idea che ti sei fatto di
Nagarjuna: e' tutt'altro che un contemporaneo, essendo stato un brahmano
vissuto nel II secolo d.C.. Ma per avere un'idea generale del suo
pensiero (cui Rovelli allude a proposito della dissoluzione del concetto
di sostanza) e del contesto un po' ampio della filosofia indiana in cui
si colloca, forse ti sara' utile quanto di seguito riporto. Si tratta di
un intero capitolo di un mio vecchio manuale di filosofia, dal titolo un
po' ambizioso: "Storia del pensiero umano", di Ernesto Balducci,
Edizioni Cremonese 1986, vol.1.
Il testo e' affidabile, come lo era il suo autore (che ho conosciuto
personalmente) anche se era un prete:-).
https://it.wikipedia.org/wiki/Ernesto_Balducci#Biografia
Un difetto pero' ce l'ha: manca una bibliografia orientativa per chi
voglia approfondire; chi voglia farlo deve arrangiarsi.
Poi il riferimento che fa Rovelli al nichilismo di Nagarjuna, che ti
lascia secondo me giustamente perplesso, e' discutibile in un secondo
tempo. Buona lettura,
Loris.

-------------
<<8-21 Le scuole buddiste: il nichilismo di Nagarjuna e l'idealismo dì
Asanga.
Si è già visto come nella scuola del Piccolo Veicolo lo sviluppo del
pensiero filosofico, scontando le sue premesse rigidamente sensistiche,
sia sboccato nel nichilismo per proporre, quale alternativa a questo
naufragio della ragione, la fede cieca nella parola di Buddha (7,27).
Ebbene, questa parabola del Piccolo Veicolo può considerarsi come una
prolusione al pensiero del Grande Veicolo che avrà un destino filosofico
tanto più grandioso anche se, rapportato alle nostre misure,
incredibilmente paradossale. Ma già qui, a nostro giudizio, risiede
l'interesse di questo capitolo della storia del pensiero, in questa
inesauribile estrosità della ragione orientale che, muovendosi, con
l'agilità di un trapezista, tra il Nulla e l'Assoluto, oscilla di
continuo tra il più totale nichilismo e il mi-sticismo più estatico.
Alle origini dell'epoca mahavanica sta, come un patriarca, l'ex-brahmano
Nagarjuna, la cui attività si svolse (ma le date sono molto incerte) nel
II secolo d.C, nell'India Nord-occidentale. Il suo pensiero fu
sviluppato, nei secoli successivi (fino al sec. VII), dai suoi seguaci
Aryadeva e Santideva, le cui opere conobbero una straordinaria
popolarità, non solo in India ma in tutta l'Asia centrale e nell'estremo
oriente. Essi han dato vita alla scuola dei Nichilisti (sunyavadins = da
sunya, vuoto) che in qualche modo ripercorre la stessa via battuta dai
Sautrantika (7.27) ma con risultati metafisici ben diversi. Per i
Sautrantika, tra la non esistenza dell'oggetto e la non esistenza del
soggetto stava la serie dei fenomeni, che almeno essa era dotata
d'esistenza, sia pure ridotta all'istante in cui la serie fenomenica via
via si condensa per subito scomparire. Tra il vuoto oggettivo e quello
soggettivo c'era questo velo o meglio questa infinitesima bolla di
sapone dell'istante fenomenico. Nagarjuna soffia sulla bolla di sapone e
la dissolve: non solo il fenomeno non ha dietro di sé né dalla parte del
soggetto né dalla parte dell'oggetto, nessuna sostanza, ma non esiste
nemmeno come fenomeno. Infatti, argomenta Nagarjuna, l'istante ha questo
di proprio (altrimenti non sarebbe l'istante), che scompare nel momento
stesso in cui appare: insomma non c'è.
Non è il caso qui di riassumere la straripante ricchezza di
argomentazioni con cui da Nagarjuna a Santideva, e cioè dal II al VII
secolo, i nichilisti contrappongono alle altre scuole la dottrina del
vuoto assoluto: essa ha in sé tutta la scaltrezza della sofistica
occidentale e insieme una specie di ingenuità infantile, dovuta al fatto
che, in fondo, questi nichilisti erano dei mistici per i quali la
distruzione della ragione non era che il passo necessario per
l'affermazione della fede. E difatti il loro Nulla non è poi un vero e
proprio Nulla.
Il Vuoto di Nagarjuna, ad esempio, non è né l'Essere né il Nulla. Come
aveva insegnato Buddha, la verità non è né nel giudizio d'esistenza né
in quello di non-esistenza.
L'Essere e il Nulla sono l'uno inerente all'altro, l'uno confutazione
dell'al¬tro, l'uno condizione dell'altro. La verità va cercata al di là
dell'uno e dell'altro, dato che essi sono niente più che due nozioni
razionali e la ragione — ecco il vero bersaglio dei nichilisti — non è
che una menzogna. La scuola di Nagarjuna, proprio perché si tiene fuori
sia dalle correnti di pensiero che si fon-davano sul giudizio
d'esistenza (se non della sostanza, almeno dell'Essere assoluto) sia da
quelle che si basavano sul giudizio di non-esistenza, viene anche detta
la scuola del Sentiero medio (Madhyamika). Come si diceva, il suo
obiettivo non era filosofico, era religioso: invece di attendere il
Nirvana dopo la morte, il suo nichilismo lo anticipava nella vita.
Infatti, ridotta tutta la realtà ad illusione e vissuta nella
consapevolezza della sua illusorietà, non resta di vero, fin d'ora, che
il puro Vuoto nel quale, sì, è la vera beatitudine. Non c'è bisogno di
aspettare la fine delle reincarnazioni per diventare come Buddha: basta
applicare fino in fondo la dialettica distruttiva della ragione.
La scuola degli Yogacara, che nel nostro linguaggio potremmo dire
dell'idealismo assoluto, viene fatta risalire a due fratelli, vissuti
nel V secolo d.C, Asanga e Vasubandhu, nati nella regione di Gandhara,
dove, come si è detto, avvenne una qualche osmosi tra la cultura greca e
quella buddhista. L'influenza dei due fratelli (passati ambedue, in
momenti diversi, dal materialismo della scuola Hinayana al Mahayana) fu
immensa non solo sulla cultura indiana ma in tutto l'estremo oriente.
Tra l'altro il pellegrino cinese Hiuen Tsang, nel secolo VII, propagò in
Cina il loro insegnamento. Per noi occidentali la loro dottrina è
particolarmente interessante perché presenta una curiosa rassomiglianza
con quello che sarà l'idealismo tedesco degli inizi del 1800.
Come Fichte (III. 1. 5) partirà dal criticismo di Kant, così gli
Yogacara partono dal nichilismo di Nagarjuna. Il vuoto universale, a
loro giudizio, presuppone qualcosa che sia vuoto: l'illusione universale
presuppone un soggetto illuso. Questo contenente vuoto, questo soggetto
illuso è il Pensiero. Il mondo esterno non esiste al di fuori del
Pensiero, come anche il soggetto empirico, l'io e il tu della nostra
esperienza, e come l'atto di conoscenza con cui l'io entra in contatto
col mondo esterno. Questi tre dati dell'esperienza — il soggetto,
l'oggetto e l'atto con cui il soggetto conosce l'oggetto — sono tutti e
tre una sola cosa, sono il Pensiero che pensa se stesso e pensandosi si
dà un contenuto di rappresentazioni, le quali, prese in sé e per sé,
sono davvero soltanto delle illusioni ma, riconosciute come prodotto del
pensiero, sono vere. O meglio: di vero c'è solo il Pensiero, anteriore
al soggetto e all'oggetto, matrice eterna da cui promanano sia l'ordine
soggettivo che l'ordine oggettivo, oceano precosciente su cui si agitano
i flutti della coscienza.
Questo Pensiero precosciente (Alaya Vijnana), se ben si riflette,
rassomiglia all’Atman senza pensiero della tradizione induista. Anche
per gli Yogacara, come per le Upanishad, i soggetti e gli oggetti
particolari sorgono sull'oceano quieto del pensiero in virtù della
nescienza (avidya}.
Come già per Nagarjuna, anche per Asanga e Vasubandhu la dialettica
della ragione serve quale premessa all'unica vera via conoscitiva,
quella dell'intuizione mistica, la quale, trasferendo l'uomo, per
Nagarjuna, al di là dell'Essere e del Nulla, per Asanga e Vasubandhu al
di là del Mondo e dell'Io, lo immedesima con l'Assoluto e cioè col
Nirvana di cui aveva predicato Buddha.>>
--
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pcf ansiagorod
2023-05-28 15:20:24 UTC
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Grazie mille della tua premura, ho apprezzato. Premetto che mi
limito a mettere sul tavolo qualche mia perplessità e non
intendo criticare il prof. Balducci. E' evidente che conosce
l'argomento ma temo che le fonti di cui si è servito non
fossero esaustive del panorama. A sua ulteriore 'discolpa' il
fatto che per lungo tempo sono mancate traduzioni e diversi
testi fondamentali sopravvivono solo in traduzioni tibetane e
cinesi.

Ovviamente so di usare in modo improprio o almeno troppo
generale i termini della nostra filosofia, spero di capirci
qualcosa di più col tempo che ancora ho davanti a me. Non sono
stati i miei studi quindi chiedo venia.
Post by Loris Dalla Rosa
<<8-21 Le scuole buddiste: il nichilismo di Nagarjuna e
l'idealismo dì Asanga. [...]
Nagarjuna nega decisamente qualsiasi forma di nichilismo. E'
ovvio che si può usare il termine se se ne è conordato portata
e significato ma lo trovo pericolosamente appesantito dalla
tradizione filosofica europea. E' vero che i proponenti delle
scuole filosofiche indiane possono ben essere denominati
sunyavadin ma vuoto significa solo l'assenza di certi modi di
esistenza dei fenomeni e della mente, senza assolutamente
negare il reale. Tanto è vero che la scuola di Nagarjuna è più
correttamente denominata Madhyamaka ovvero 'via di mezzo'. E la
denominazione deriva dal fatto che viene respinto sia il
nichilismo (che gli indiani conoscevano benissimo, con
elaborazioni di pensiero non tanto lontane dalle nostre) sia
appunto la sostanza, che nel lessico tibetano va sotto il nome
di 'eternalismo' o almeno viene resa in inglese così e quindi
anche in italiano.

In grandissima sintesi mente e fenomeni esistono, nel senso che
possono produrre effetti; ma non esistono nel modo che si è
normalmente portati a credere se pure è incastrato nel nostro
'hardware'-mente.

In questo modo vengono evitati i due estremi di eternalismo e
nichilismo. La realtà viene affermata e riconosciuta esistere,
ma la mente, se non allenata, crede che i fenomeni abbiano una
sostanza. Nagarjuna dice (credo!) che dall'interdipendenza tra
le componenti-parti del fenomeno, la nostra mente imputa
l'etichetta che dà il nome al fenomeno. Insostanziale ma
perfettamente reale.

Esempio banale, un istante di tempo. Se sottoposto all'analisi
della Madhyamaka si 'scopre' che ha senso solo rispetto a un
istante precedente e uno successivo, la coscienza che lo
sperimenta e così via. Sulla base dell'interdipendenza tra le
parti, alla mente appare quel certo ente o fenomeno. Ma appare
come se fosse in un certo senso isolato, in quanto dotato di
sostanza. Scopo di tutta la filosofia buddhista è smontare
questo assenso inconscio a modi di esistere che in realtà non
esistono. Ma solo i modi di esistere, non le cose.
Post by Loris Dalla Rosa
nell'estremo oriente. Essi han dato vita alla scuola dei
Nichilisti (sunyavadins = da sunya, vuoto) che in qualche
modo ripercorre la stessa via battuta dai Sautrantika (7.27)
ma con risultati metafisici ben diversi. Per i Sautrantika,
tra la non esistenza dell'oggetto e la non esistenza del
soggetto stava la serie dei fenomeni, che almeno essa era
dotata d'esistenza, sia pure ridotta all'istante in cui la
serie fenomenica via via si condensa per subito scomparire.
Qui osservo due cose:

1) Per fugare dubbi sulla identificazione vuoto <-> nichilismo
basta cercare con google 'misconceptions about buddhist
emptiness', ci sono molti riferimenti. Uno è questo: A. Berzin
è uno dei traduttori del Dalai Lama e la tradizione esegetica
tibetana è quella rimasta più fedele al pensiero indiano, ma
anche nei testi cinesi non si si allontana dal concetto.

https://studybuddhism.com/en/tibetan-buddhism/about-buddhism/misconceptions-about-buddhism/common-misunderstandings-about-buddhism

Un altro testo interessante, a mia conoscenza tra i pochissimi
a gettare un ponte su dati concreti è quello di Jan Westerhoff,
'Nagarjuna's Madhyamaka: A Philosophical Introduction'. Mi è
arrivato qualche settimana fa e mi pare un capolavoro. Ho
parecchia roba su queste cose viste dall'interno ma è la prima
volta che leggo una trattazione sintetica fatta da un filosofo
occidentale che mi pare non tradire il senso.

Non sto ovviamente confutando la tua fonte, dico solo che gli
studi sono andati avanti e ora si ha un panorama forse più
completo.

2) Il modo in cui è esposta la scuola Sautrantika è
interessante. In sostanza, come tutte le quattro scuole di cui
quella di Nagarjuna è la più elevata, tratta molto a fondo la
negazione della sostanza. In questo caso la sostanza (per come
ho compreso la Sautrantika) è qualcosa di simile all'idea
platonica anche se con differenze notevoli. L'errore da cui
siamo affetti in modo innato è che alla coscienza appare l'idea
dell'oggetto, per esempio il concetto-idea di tavolo, ma non
notiamo che quel particolare tavolo che abbiamo davanti cambia
continuamente. Lo sappiamo dalla chimica e dalla fisica ma non
costituisce percezione diretta mentale. Mi fermo qui perché è
un ramo collaterale della discussione. L'ho accennato solo per
evidenziare che una volta conosciuto il contesto le parole del
professore hanno un senso, ma se non lo si conosce sono sicuro
che si va a pensare a cose del tutto diverse.

E ora Rovelli. La mia perplessità sulla sua ricezione di
Nagarjuna è che mi pare radicalizzi l'importanza delle
relazioni di interdipendenza attribuendola indirettamente o
implicitamente a Nagarjuna. Ma per la scuola Madhyamaka deve
esserci 'qualcosa' che fa da base di designazione per il
fenomeno. Basta cercare con google 'settuplice ragionamento
chandrakirti carro' (es.
https://archive.org/details/7-fold-reasoning-analysis-of-the-chariot)
per capire cosa intendo. Nel caso della sua misura sulle
particelle, non credo nemmeno abbia senso invocare la
filosofia. A quella scala dimensionale non abbiamo alcuna
rappresentazione dell'ente, che di fatto 'è' la sua descrizione
matematica. Nello spirito di Nagarjuna potrei forse dire che la
particella viene a esistere perché dipende da altro, altre
particelle, la sua descrizione matematica dato che possiamo
conoscerla solo tramite questa, le misure etc. Pur tutte queste
cose prive di esistenza indipendente (per dirla con i loro
termini), nondimento esistono. Esistono solo
interdipendentemente ma esistono.

Addirittura la Madhyamaka è divisa dai commentatori tibetani in
due sottoscuole. La meno radicale ammette che il fenomeno deve
avere una specie di 'input' oggettivo per la coscienza, e
questo 'input' è di fatto una sostanza. Viene però specificato
che esiste inseparabile dal fenomeno quindi essendo
impermanente non è una sostanza vera e propria come suppongo la
materia del demiurgo del pensiero greco. Ma anche la
suddivisione superiore riconosce che per potersi parlare di
interazioni deve esserci qualcosa che ne faccia da base. Per
questo (cito a memoria) scrivere che grazie a Nagarjuna ci si
può concentrare solo sulle relazioni, a me desta qualche
perplessità.

Scusate la lunghezza. Mo' vi prendo a parolacce tanto nessuno
sarà arrivato fin qui e nessuno quindi si potrà offendere.
Scherzo.

Grazie ancora del tuo post.

A.
Loris Dalla Rosa
2023-05-29 10:19:54 UTC
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Grazie mille della tua premura, ho apprezzato. Premetto che mi limito a
mettere sul tavolo qualche mia perplessità e non intendo criticare il
prof. Balducci. E' evidente che conosce l'argomento ma temo che le fonti
di cui si è servito non fossero esaustive del panorama. A sua ulteriore
'discolpa' il fatto che per lungo tempo sono mancate traduzioni e
diversi testi fondamentali sopravvivono solo in traduzioni tibetane e
cinesi.
Ovviamente so di usare in modo improprio o almeno troppo generale i
termini della nostra filosofia, spero di capirci qualcosa di più col
tempo che ancora ho davanti a me. Non sono stati i miei studi quindi
chiedo venia.
<<8-21   Le scuole buddiste: il nichilismo di Nagarjuna e l'idealismo
dì Asanga. [...]
Nagarjuna nega decisamente qualsiasi forma di nichilismo. E' ovvio che
si può usare il termine se se ne è conordato portata e significato ma lo
trovo pericolosamente appesantito dalla tradizione filosofica europea.
E' vero che i proponenti delle scuole filosofiche indiane possono ben
essere denominati sunyavadin ma vuoto significa solo l'assenza di certi
modi di esistenza dei fenomeni e della mente, senza assolutamente negare
il reale. Tanto è vero che la scuola di Nagarjuna è più correttamente
denominata Madhyamaka ovvero 'via di mezzo'. E la denominazione deriva
dal fatto che viene respinto sia il nichilismo (che gli indiani
conoscevano benissimo, con elaborazioni di pensiero non tanto lontane
dalle nostre) sia appunto la sostanza, che nel lessico tibetano va sotto
il nome di 'eternalismo' o almeno viene resa in inglese così e quindi
anche in italiano.
In grandissima sintesi mente e fenomeni esistono, nel senso che possono
produrre effetti; ma non esistono nel modo che si è normalmente portati
a credere se pure è incastrato nel nostro 'hardware'-mente.
In questo modo vengono evitati i due estremi di eternalismo e
nichilismo. La realtà viene affermata e riconosciuta esistere, ma la
mente, se non allenata, crede che i fenomeni abbiano una sostanza.
Nagarjuna dice (credo!) che dall'interdipendenza tra le componenti-parti
del fenomeno, la nostra mente imputa l'etichetta che dà il nome al
fenomeno. Insostanziale ma perfettamente reale.
Esempio banale, un istante di tempo. Se sottoposto all'analisi della
Madhyamaka si 'scopre' che ha senso solo rispetto a un istante
precedente e uno successivo, la coscienza che lo sperimenta e così via.
Sulla base dell'interdipendenza tra le parti, alla mente appare quel
certo ente o fenomeno. Ma appare come se fosse in un certo senso
isolato, in quanto dotato di sostanza. Scopo di tutta la filosofia
buddhista è smontare questo assenso inconscio a modi di esistere che in
realtà non esistono. Ma solo i modi di esistere, non le cose.
nell'estremo oriente. Essi han dato vita alla scuola dei Nichilisti
(sunyavadins = da sunya, vuoto) che in qualche modo ripercorre la
stessa via battuta dai Sautrantika (7.27) ma con risultati metafisici
ben diversi. Per i Sautrantika, tra la non esistenza dell'oggetto e la
non esistenza del soggetto stava la serie dei fenomeni, che almeno
essa era dotata d'esistenza, sia pure ridotta all'istante in cui la
serie fenomenica via via si condensa per subito scomparire.
1) Per fugare dubbi sulla identificazione vuoto <-> nichilismo basta
cercare con google 'misconceptions about buddhist emptiness', ci sono
molti riferimenti. Uno è questo: A. Berzin è uno dei traduttori del
Dalai Lama e la tradizione esegetica tibetana è quella rimasta più
fedele al pensiero indiano, ma anche nei testi cinesi non si si
allontana dal concetto.
https://studybuddhism.com/en/tibetan-buddhism/about-buddhism/misconceptions-about-buddhism/common-misunderstandings-about-buddhism
Un altro testo interessante, a mia conoscenza tra i pochissimi a gettare
un ponte su dati concreti è quello di Jan Westerhoff, 'Nagarjuna's
Madhyamaka: A Philosophical Introduction'. Mi è arrivato qualche
settimana fa e mi pare un capolavoro. Ho parecchia roba su queste cose
viste dall'interno ma è la prima volta che leggo una trattazione
sintetica fatta da un filosofo occidentale che mi pare non tradire il
senso.
Non sto ovviamente confutando la tua fonte, dico solo che gli studi sono
andati avanti e ora si ha un panorama forse più completo.
2) Il modo in cui è esposta la scuola Sautrantika è interessante. In
sostanza, come tutte le quattro scuole di cui quella di Nagarjuna è la
più elevata, tratta molto a fondo la negazione della sostanza. In questo
caso la sostanza (per come ho compreso la Sautrantika) è qualcosa di
simile all'idea platonica anche se con differenze notevoli. L'errore da
cui siamo affetti in modo innato è che alla coscienza appare l'idea
dell'oggetto, per esempio il concetto-idea di tavolo, ma non notiamo che
quel particolare tavolo che abbiamo davanti cambia continuamente. Lo
sappiamo dalla chimica e dalla fisica ma non costituisce percezione
diretta mentale. Mi fermo qui perché è un ramo collaterale della
discussione. L'ho accennato solo per evidenziare che una volta
conosciuto il contesto le parole del professore hanno un senso, ma se
non lo si conosce sono sicuro che si va a pensare a cose del tutto diverse.
E ora Rovelli. La mia perplessità sulla sua ricezione di Nagarjuna è che
mi pare radicalizzi l'importanza delle relazioni di interdipendenza
attribuendola indirettamente o implicitamente a Nagarjuna. Ma per la
scuola Madhyamaka deve esserci 'qualcosa' che fa da base di designazione
per il fenomeno. Basta cercare con google 'settuplice ragionamento
chandrakirti carro' (es.
https://archive.org/details/7-fold-reasoning-analysis-of-the-chariot)
per capire cosa intendo. Nel caso della sua misura sulle particelle, non
credo nemmeno abbia senso invocare la filosofia. A quella scala
dimensionale non abbiamo alcuna rappresentazione dell'ente, che di fatto
'è' la sua descrizione matematica. Nello spirito di Nagarjuna potrei
forse dire che la particella viene a esistere perché dipende da altro,
altre particelle, la sua descrizione matematica dato che possiamo
conoscerla solo tramite questa, le misure etc. Pur tutte queste cose
prive di esistenza indipendente (per dirla con i loro termini),
nondimento esistono. Esistono solo interdipendentemente ma esistono.
Addirittura la Madhyamaka è divisa dai commentatori tibetani in due
sottoscuole. La meno radicale ammette che il fenomeno deve avere una
specie di 'input' oggettivo per la coscienza, e questo 'input' è di
fatto una sostanza. Viene però specificato che esiste inseparabile dal
fenomeno quindi essendo impermanente non è una sostanza vera e propria
come suppongo la materia del demiurgo del pensiero greco. Ma anche la
suddivisione superiore riconosce che per potersi parlare di interazioni
deve esserci qualcosa che ne faccia da base. Per questo (cito a memoria)
scrivere che grazie a Nagarjuna ci si può concentrare solo sulle
relazioni, a me desta qualche perplessità.
Ciao "pcf ansiagorod". Ho letto, al tuo primo link, dei falsi stereotipi
circa il buddismo. Non potendo mettere in dubbio l'autorevolezza
dell'autore (non ho fatto ricerche approfondite su argomenti cosi'
lontani dai miei interessi intellettuali; mi bastano ed avanzano le
problematiche del pensiero occidentale:-)), mi sono chiesto tuttavia di
quale buddhismo si sta parlando, avvertendone un'interpretazione venata
quasi da un certo "edonismo", difficile da trovare almeno in quello
originario riferibile direttamente alle parole di Gotamo Siddharta sulle
"Quattro auguste verita'", tenuto a Benares(*). Vero e' che Buddha non
ha scritto nulla e la sua vita ci e' stata tramandata dai discepoli (che
nel corso del tempo hanno dato origine a varie "correnti"), in racconti
agiografici in cui e' difficile discernere i dati sicuramente storici.
Cosi' e' anche il discorso che ho riportato in nota, ma che dagli
studiosi e' giudicato di massima verosimiglianza.
Comunque io mi tengo la perplessita' dell'incompetente e possiamo
mettere tutto questo tra parentesi, per tornare piu' al tema specifico
del tuo post, che riguarda piu' in particolare che cosa il fisico
Rovelli ha recepito della filosofia indiana, in funzione della sua
soluzione "relazionale" degli enigmi posti dalla meccanica quantistica.
Hai detto di non possedere il suo "Helgoland"?(**). Ne ho copia
digitale, per cui mi e' facile cercare le citazioni che possono
interessarti e che vado a riportare. Le numero, per meglio distinguerle
da qualche mio eventuale breve commento.
1)<<All'ennesima volta che mi sono sentito chiedere: «Hai letto
Nagarjuna?», ho deciso di leggerlo. È un testo poco noto in Occidente ma
non è un testo minore: è uno dei capisaldi della filosofia indiana, ed è
solo per la mia penosa ignoranza del pensiero asiatico, caratteristica
di un occidentale, che non lo conoscevo. Si intitola con una di queste
impossibili parole indiane: Mùlamadhyamakakàiikà, tradotta in molti
modi, per esempio Le stanze del cammino di mezzo. Uno letto in una
traduzione commentata di un filosofo analitico americano."3 Mi ha
lasciato un'impressione profonda.
Nàgàrjuna è vissuto nel II secolo. Sul suo testo esistono innumerevoli
commenti e si sono stratificate interpretazioni ed esegesi, ^interesse
dei testi così antichi è proprio la stratificazione di letture che ce li
consegna arricchiti di livelli di significato. Quello che ci interessa
davvero dei testi antichi non è cosa volesse inizialmente dire l'autore:
è quello che il testo può suggerire oggi a noi.
La tesi centrale del libro di Nàgàrjuna è semplicemente che non ci sono
cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro. La risonanza
con la meccanica quantistica è immediata. Ovviamente Nàgàrjuna non
sapeva e non poteva sapere nulla di quanti, non è questo il punto. Il
punto è che i filosofi ci offrono modi originali di pensare il mondo, e
noi possiamo servircene se ci risultano utili. La prospettiva che offre
Nàgàrjuna ci rende forse un po' più facile pensare il mondo dei quanti.

2)<<Il fascino del pensiero di Nagarjuna va al di là del le questioni
della fisica moderna. La sua prospettiva ha qualcosa di vertiginoso.
Risuona con il meglio di tanta filosofia occidentale, classica e
recente. Con lo scetticismo radicale di Hume, con lo smascheramento
delle domande mal poste che ci permette il pensiero di Wittgenstein. Ma
Nagarjuna mi sembra non cadere nella trappola in cui si impiglia tanta
filosofia postulando punti di partenza che finiscono sempre per
rivelarsi poco convincenti a lungo andare. Parla della realtà, della sua
complessità e della sua comprensibilità, ma ci difende dalla trappola
concettuale di volerne trovare un fondamento ultimo.>>

3)<<Io non sono un filosofo, sono un fisico: un vile meccanico. A questo
vile meccanico, che si occupa di quanti, Nagarjuna insegna che posso
pensare le manifestazioni degli oggetti fisici senza dovermi chiedere
cosa sia l'oggetto fisico indipendentemente dalle sue manifestazioni.
Ma la vacuità di Nagarjuna nutre anche un atteggiamento etico
profondamente rasserenante: comprendere che non esistiamo come entità
autonome ci aiuta a liberarci dall'attaccamento e dalla sofferenza.
Proprio per la sua impermanenza, per l'assenza di ogni Assoluto, la vita
ha senso ed è preziosa.>> [Questa l'hai in parte riportata tu]

Questi sono i piu' diretti riferimenti al pensiero di Nagarjuna. Ma cio'
che piu' importa e' la funzione che essi hanno, che e' quella che hai
presente e cui ho anch'io accennato: la sua interpretazione
*relazionale* dei fenomeni quantistici, e che nel suo nucleo piu'
logico-teoretico ha il suo perno nel concetto di "vuoto", inteso come
vuoto *di sostanza*, cioe' della sostanza come oggettivita' ontologica
della realta'. Non e' il caso che mi dilunghi con citazioni anche su
questo, che dal punto di vista della fisica dei quanti saprai meglio di
me. Piuttosto: tu ritieni che Rovelli abbia estremizzato questa
impostazione relazionale. Non solo, a mio avviso, e' andato
"filosoficamente" oltre dovuto, ma ha anche fatto sua questa
estremizzazione:

4)<<Di solito poi osserviamo il mondo a grandi scale, quindi non ne
vediamo la granularità. Vediamo valori mediati fra tantissime piccole
variabili. Non vediamo singole molecole: vediamo l'intero gatto. Quando
ci sono tantissime variabili, le fluttuazioni diventano irrilevanti, la
probabilità si avvicina alla certezza.7* I miliardi di variabili
discontinue e punteggiate dell'agitato e fluttuante mondo dei quanti si
riducono alle poche variabili continue e ben definite della nostra
esperienza quotidiana. Alla nostra scala il mondo è come un oceano
agitato dalle onde osservato dalla luna: una piatta superficie di una
biglia immobile.
La nostra esperienza quotidiana quindi è compatibile con il mondo
quantlstico: la teoria dei quanti comprende la meccanica classica, e
comprende la nostra usuale visione del mondo, come approssimazioni. Le
comprende come un uomo che vede bene può comprendere l'esperienza di un
miope che non vede il ribollire in una pentola sul fuoco. Ma alla scala
delle molecole, il netto spigolo di un coltello d'acciaio è fluttuante e
impreciso come il bordo di un oceano in tempesta che si sfrangia su una
spiaggia di sabbia bianca.
La solidità della visione classica del mondo non è che nostra miopia. Le
certezze della fisica classica sono solo probabilità. L’immagine del
mondo nitida e solida della vecchia fisica è un'illusione.>>

5)<<Al di là della fisica, il pensiero relazionale lo si ritrova in
tutte le scienze. In biologia le caratteristiche dei sistemi viventi
sono comprensibili in relazione all'ambiente, formato da altri esseri
viventi. In chimica le proprietà degli elementi sono il modo in cui
questi interagiscono con altri elementi. In economia si parla di
relazioni economiche. In psicologia la personalità individuale esiste in
un contesto relazionale. In questi e tanti altri casi capiamo le cose
(vita biologica, vita psichica, composti chimici...) nel loro essere in
relazione ad altre cose.
Nella storia della filosofia occidentale, la critica alla nozione di
«entità» presa come fondamento della realtà è ricorrente. La si ritrova
nelle tradizioni filosofiche più disparate, dal «tutto scorre» di
Gradito, fino alla contemporanea metafisica delle relazioni. Solo
nell'ultimo anno sono usciti libri di filosofi come "Un approccio
fondale alla metafisica delle prospettive" e "Il relativismo dei punti
di vista: un nuovo approccio epistemologico basato sul concetto di punto
di vista". Nella filosofia analitica, il "realismo strutturale" è basato
sull'idea che le relazioni vengano prima degli oggetti: per Ladyman, ad
esempio, il modo migliore di comprendere il mondo è pensarlo come un
insieme di relazioni senza oggetti che siano in relazione. In una
prospettiva neokantiana Michel Bitbol ha scritto "Dall'interno del
mondo: per una filosofia e una scienza delle relazioni". In Italia,
Laura Candiotto ha pubblicato con Giacomo Pezzano un libro intitolato
Filosofia delle relazioni.>>

Non mi dilungo in una critica delle posizioni filosofiche che qui
Rovelli cita, che sarebbe troppo specialistica. Mi accontento solo di
accennare al fatto che l'estremizzazione del concetto di "vuoto di
sostanza" logicamente porta, per un procedimento all'infinito,
all'idealismo assoluto; e da poco esperto di meccanica quantistica mi
permetto di preferirgli la prundenza e la saggezza tutta occidentale di
Penrose, espresse in un altro libro divulgativo:
<<Non ho fatto mistero della mia convinzione che la soluzione dei
rompicapo della teoria quantistica si potrà avere soltanto quando avremo
trovato una teoria migliorata [...]. Sappiamo che, al livello
submicroscopico, dominano incontrastate le leggi quantistiche, ma al
livello delle palle da tennis vale la fisica classica. Fra questi due
li¬velli abbiamo bisogno secondo me di capire la nuova legge, per
ve¬dere in che modo il mondo quantistico si fonda con quello classico.
Io credo, inoltre, che avremo bisogno di questa legge se dovremo mai
capire la mente!>> (Penrose, "I vestiti nuovi dell'imperatore")
Scusate la lunghezza.
Cosa dovrei dire io?:-)
Un saluto,
Loris

(*) <<Questa, o monaci, è l'augusta verità circa il dolore: nascita è
dolore, vecchiezza è dolore, malattia è dolore; dolore è l'unione con
ciò che dispiace, dolore è la separazione da ciò che piace, non ottenere
ciò che si desidera è dolore; in breve, i cinque diversi aggregati che
determinano l'attaccamento all'esistenza sono dolore.
Questa, o monaci, è l'augusta verità circa l'origine del dolore: è la
sete che conduce di rinascita in rinascita, che si associa con la gioia
e il desiderio e trova qua e là il suo appagamento, cioè la sete di
piaceri sessuali, la sete di rinascita, la sete di annichilimento.
Questa, o monaci, è l'augusta verità circa l'estinzione del dolore:
l’eliminazione di questa sete mediante il totale annientamento della
passione; abbandonarla, privarsi di lei, sciogliersi da lei, non
concederle alcun luogo.
Questa, o monaci, è l'augusta verità circa la via che conduce
all'estinzione del dolore; è questa la santa via composta di otto parti.
Essa ha questi nomi: retto modo di pensare, retta decisione, retta
parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto ricordo, retta
concentrazione.>>

(**) Breve saggio divulgativo, piacevole da leggere, non disdegna di
scendere nell'aneddotico (la famiglia molto "allargata" del brillante
Heisenberg, le amanti di Schroedinger, l' "arrogante" Pauli, le
vicissitudini del comunista Bohm...), ma contiene anche numerose note e
riferimenti impegnativi, per "addetti ai lavori".
--
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pcf ansiagorod
2023-05-29 15:19:36 UTC
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Post by Loris Dalla Rosa
Comunque io mi tengo la perplessita' dell'incompetente e
possiamo mettere tutto questo tra parentesi, per tornare piu'
al tema specifico del tuo post, che riguarda piu' in
particolare che cosa il fisico Rovelli ha recepito della
filosofia indiana, in funzione della sua soluzione
"relazionale" degli enigmi posti dalla meccanica quantistica.
Grazie delle citazioni intanto; cercherò di procurarmi il
testo.

Riguardo al resto che ho tagliato per leggibilità direi che il
thread si potrebbe considerare esaurito dato che ho i
riferimenti bibliografici arricchiti dai contributi di chi ha
partecipato, che sono stati per me molto importanti. A questo
punto i temi a cui la questione di partenza può dare vita e già
in essere in embrione sono diversi. Ne vedo un paio.

1) In generale l'intero fenomeno della ricezione della
filosofia indiana tra i fisici o almeno tra molti di loro.
Chiaramente è un problema che non mi tocca e quindi non ne sono
troppo curioso. Ho elaborato le mie risposte personali e se
qualcosa è corretto sicuramente è stato pensato da qualcuno e
già scritto da qualche parte. Se invece non è stato già detto è
sicuramente sbagliato. La mia sintesi, per quel che vale, è:
abbastanza spesso, quando il tema della vacuità buddhista viene
conosciuto tramite un fisico che lo aggancia alla meccanica
quantistica, la mente di chi ascolta ne è contagiata al punto
di richiedere un grosso lavoro per mettere le cose a posto. Ma
appunto, è un'idea mia, non insegno filosofia indiana quindi
sto in finestra e guardo sotto. Oltretutto potrei essere in
errore io.

2) La tua osservazione che una negazione radicale della
sostanza porterebbe all'idealismo assoluto (se ho capito bene).
Mi chiedo se tu trovi più sostenibile salvare la sostanza per
criticare l'idealismo assoluto o partire dalla validità
dell'idealismo assoluto per negare la sostanza. Qui abbiamo
totalmente abbandonato Rovarjuna :D e di fatto si apre un
argomento del tutto diverso. Sarei curioso di sapere se è stato
già proposto e dove, ma non certo per negarti originalità di
pensiero; solo per non costringere indirettamente a scrivere
lunghi papiri che magari interessano solo me.

Su entrambe le cose e forse qualcun'altra penso sarebbe più
comodo aprire altri thread per non creare un calderone enorme.

Non so se lo farò io sul secondo punto perché appunto ho la
remora che non interessi altri utenti. Sul primo nemmeno ci
penso lontanamente; non sono l'esegeta di Rovelli anche se ogni
tanto mi trovo a dover fare puntualizzazioni a chi conosce
questi argomenti tramite lui, e non sono pochissimi.

ciao!

A.
Loris Dalla Rosa
2023-05-31 09:08:09 UTC
Permalink
Post by Loris Dalla Rosa
Comunque io mi tengo la perplessita' dell'incompetente e possiamo
mettere tutto questo tra parentesi, per tornare piu' al tema specifico
del tuo post, che riguarda piu' in particolare che cosa il fisico
Rovelli ha recepito della filosofia indiana, in funzione della sua
soluzione "relazionale" degli enigmi posti dalla meccanica quantistica.
Grazie delle citazioni intanto; cercherò di procurarmi il testo.
Riguardo al resto che ho tagliato per leggibilità direi che il thread si
potrebbe considerare esaurito dato che ho i riferimenti bibliografici
arricchiti dai contributi di chi ha partecipato, che sono stati per me
molto importanti. A questo punto i temi a cui la questione di partenza
può dare vita e già in essere in embrione sono diversi. Ne vedo un paio.
1) In generale l'intero fenomeno della ricezione della filosofia indiana
tra i fisici o almeno tra molti di loro. Chiaramente è un problema che
non mi tocca e quindi non ne sono troppo curioso. Ho elaborato le mie
risposte personali e se qualcosa è corretto sicuramente è stato pensato
da qualcuno e già scritto da qualche parte. Se invece non è stato già
abbastanza spesso, quando il tema della vacuità buddhista viene
conosciuto tramite un fisico che lo aggancia alla meccanica quantistica,
la mente di chi ascolta ne è contagiata al punto di richiedere un grosso
lavoro per mettere le cose a posto. Ma appunto, è un'idea mia, non
insegno filosofia indiana quindi sto in finestra e guardo sotto.
Oltretutto potrei essere in errore io.
2) La tua osservazione che una negazione radicale della sostanza
porterebbe all'idealismo assoluto (se ho capito bene). Mi chiedo se tu
trovi più sostenibile salvare la sostanza per criticare l'idealismo
assoluto o partire dalla validità dell'idealismo assoluto per negare la
sostanza. Qui abbiamo totalmente abbandonato Rovarjuna :D e di fatto si
apre un argomento del tutto diverso. Sarei curioso di sapere se è stato
già proposto e dove, ma non certo per negarti originalità di pensiero;
solo per non costringere indirettamente a scrivere lunghi papiri che
magari interessano solo me.
Ciao A., rispondendo ad Omega ho finito per parlare anche di cose che
intendevo riservare alla risposta a te.
Allora brevemente su questi tuoi due punti. Sul primo, e recuperando la
tua preoccupazione (sul secondo) di negarmi un'eventuale
oroginalita':-), ti diro' che non ho alcuna velleita' di essere
originale: la lascio ai piu' giovani, che hanno maggiore possibilita' di
credersi originali in proporzione inversa alla vastita' delle loro
letture. Pero' non c'e' da demoralizzarsi:-), dicendo che se hai
elaborato risposte personali sono senz'altro sbagliate se non sono gia'
state pensate da altri. Che una risposta giusta implichi che sia gia'
stata data e' un'implicazione comunque sbagliata, indipendentemente dal
fatto che in effetti nessuno l'hai mai formulata:-). Altrimenti nulla di
nuovo ci sarebbe mai sotto il sole del sapere, scientifico o non. Circa
il secondo punto, se leggi la mia risposta a Omega individuerai
facilmente la mia posizione di... vetero-kantiano, in difesa di un
idealismo critico che intende salvare il realismo.
Su entrambe le cose e forse qualcun'altra penso sarebbe più comodo
aprire altri thread per non creare un calderone enorme.
Non so se lo farò io sul secondo punto perché appunto ho la remora che
non interessi altri utenti. Sul primo nemmeno ci penso lontanamente; non
sono l'esegeta di Rovelli anche se ogni tanto mi trovo a dover fare
puntualizzazioni a chi conosce questi argomenti tramite lui, e non sono
pochissimi.
Si', ci sarebbe molta materia per altri 3D. Per concludere, sia comunque
chiara una cosa: la mia critica a Rovelli non e' critica al *fisico*
Rovelli (non ne avrei certo la competenza), ma al *filosofo* Rovelli.
Per quanto riguarda il primo, anzi, anche nell'esposizione divulgativa
del rompicapo dell' "entanglement", senza ricorrere alla teoria dei
molti mondi o a quella delle variabili nascoste, trovo la sua
"soluzione"... come dire... di buon senso; almeno cosi' a me sembra. Se
ti procuri "Helgoland" puoi vederlo nell'esposizione del suo esperimento
mentale. Qui non posso riportarlo, sia perche' sarebbe troppo lungo, sia
perche' non e' prelevabile con un semplice copia-incolla, sia perche'
andrebbe a finire che violerei il Copyright. Poi come si traduca il buon
senso nel linguaggio della matematica:-), non so proprio, non e' di mia
competenza, ma della fisica, di cui tu sei di gran lunga piu' competente
di me.
Un saluto,
Loris
--
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Omega
2023-05-30 06:31:42 UTC
Permalink
Post by Loris Dalla Rosa
Grazie mille della tua premura, ho apprezzato. Premetto che mi limito
a mettere sul tavolo qualche mia perplessità e non intendo criticare
il prof. Balducci. E' evidente che conosce l'argomento ma temo che le
fonti di cui si è servito non fossero esaustive del panorama. A sua
ulteriore 'discolpa' il fatto che per lungo tempo sono mancate
traduzioni e diversi testi fondamentali sopravvivono solo in
traduzioni tibetane e cinesi.
Ovviamente so di usare in modo improprio o almeno troppo generale i
termini della nostra filosofia, spero di capirci qualcosa di più col
tempo che ancora ho davanti a me. Non sono stati i miei studi quindi
chiedo venia.
<<8-21   Le scuole buddiste: il nichilismo di Nagarjuna e l'idealismo
dì Asanga. [...]
Nagarjuna nega decisamente qualsiasi forma di nichilismo. E' ovvio che
si può usare il termine se se ne è conordato portata e significato ma
lo trovo pericolosamente appesantito dalla tradizione filosofica
europea. E' vero che i proponenti delle scuole filosofiche indiane
possono ben essere denominati sunyavadin ma vuoto significa solo
l'assenza di certi modi di esistenza dei fenomeni e della mente, senza
assolutamente negare il reale. Tanto è vero che la scuola di Nagarjuna
è più correttamente denominata Madhyamaka ovvero 'via di mezzo'. E la
denominazione deriva dal fatto che viene respinto sia il nichilismo
(che gli indiani conoscevano benissimo, con elaborazioni di pensiero
non tanto lontane dalle nostre) sia appunto la sostanza, che nel
lessico tibetano va sotto il nome di 'eternalismo' o almeno viene resa
in inglese così e quindi anche in italiano.
In grandissima sintesi mente e fenomeni esistono, nel senso che
possono produrre effetti; ma non esistono nel modo che si è
normalmente portati a credere se pure è incastrato nel nostro
'hardware'-mente.
In questo modo vengono evitati i due estremi di eternalismo e
nichilismo. La realtà viene affermata e riconosciuta esistere, ma la
mente, se non allenata, crede che i fenomeni abbiano una sostanza.
Nagarjuna dice (credo!) che dall'interdipendenza tra le
componenti-parti del fenomeno, la nostra mente imputa l'etichetta che
dà il nome al fenomeno. Insostanziale ma perfettamente reale.
Esempio banale, un istante di tempo. Se sottoposto all'analisi della
Madhyamaka si 'scopre' che ha senso solo rispetto a un istante
precedente e uno successivo, la coscienza che lo sperimenta e così
via. Sulla base dell'interdipendenza tra le parti, alla mente appare
quel certo ente o fenomeno. Ma appare come se fosse in un certo senso
isolato, in quanto dotato di sostanza. Scopo di tutta la filosofia
buddhista è smontare questo assenso inconscio a modi di esistere che
in realtà non esistono. Ma solo i modi di esistere, non le cose.
nell'estremo oriente. Essi han dato vita alla scuola dei Nichilisti
(sunyavadins = da sunya, vuoto) che in qualche modo ripercorre la
stessa via battuta dai Sautrantika (7.27) ma con risultati metafisici
ben diversi. Per i Sautrantika, tra la non esistenza dell'oggetto e
la non esistenza del soggetto stava la serie dei fenomeni, che almeno
essa era dotata d'esistenza, sia pure ridotta all'istante in cui la
serie fenomenica via via si condensa per subito scomparire.
1) Per fugare dubbi sulla identificazione vuoto <-> nichilismo basta
cercare con google 'misconceptions about buddhist emptiness', ci sono
molti riferimenti. Uno è questo: A. Berzin è uno dei traduttori del
Dalai Lama e la tradizione esegetica tibetana è quella rimasta più
fedele al pensiero indiano, ma anche nei testi cinesi non si si
allontana dal concetto.
https://studybuddhism.com/en/tibetan-buddhism/about-buddhism/misconceptions-about-buddhism/common-misunderstandings-about-buddhism
Un altro testo interessante, a mia conoscenza tra i pochissimi a
gettare un ponte su dati concreti è quello di Jan Westerhoff,
'Nagarjuna's Madhyamaka: A Philosophical Introduction'. Mi è arrivato
qualche settimana fa e mi pare un capolavoro. Ho parecchia roba su
queste cose viste dall'interno ma è la prima volta che leggo una
trattazione sintetica fatta da un filosofo occidentale che mi pare non
tradire il senso.
Non sto ovviamente confutando la tua fonte, dico solo che gli studi
sono andati avanti e ora si ha un panorama forse più completo.
2) Il modo in cui è esposta la scuola Sautrantika è interessante. In
sostanza, come tutte le quattro scuole di cui quella di Nagarjuna è la
più elevata, tratta molto a fondo la negazione della sostanza. In
questo caso la sostanza (per come ho compreso la Sautrantika) è
qualcosa di simile all'idea platonica anche se con differenze
notevoli. L'errore da cui siamo affetti in modo innato è che alla
coscienza appare l'idea dell'oggetto, per esempio il concetto-idea di
tavolo, ma non notiamo che quel particolare tavolo che abbiamo davanti
cambia continuamente. Lo sappiamo dalla chimica e dalla fisica ma non
costituisce percezione diretta mentale. Mi fermo qui perché è un ramo
collaterale della discussione. L'ho accennato solo per evidenziare che
una volta conosciuto il contesto le parole del professore hanno un
senso, ma se non lo si conosce sono sicuro che si va a pensare a cose
del tutto diverse.
E ora Rovelli. La mia perplessità sulla sua ricezione di Nagarjuna è
che mi pare radicalizzi l'importanza delle relazioni di
interdipendenza attribuendola indirettamente o implicitamente a
Nagarjuna. Ma per la scuola Madhyamaka deve esserci 'qualcosa' che fa
da base di designazione per il fenomeno. Basta cercare con google
'settuplice ragionamento chandrakirti carro' (es.
https://archive.org/details/7-fold-reasoning-analysis-of-the-chariot)
per capire cosa intendo. Nel caso della sua misura sulle particelle,
non credo nemmeno abbia senso invocare la filosofia. A quella scala
dimensionale non abbiamo alcuna rappresentazione dell'ente, che di
fatto 'è' la sua descrizione matematica. Nello spirito di Nagarjuna
potrei forse dire che la particella viene a esistere perché dipende da
altro, altre particelle, la sua descrizione matematica dato che
possiamo conoscerla solo tramite questa, le misure etc. Pur tutte
queste cose prive di esistenza indipendente (per dirla con i loro
termini), nondimento esistono. Esistono solo interdipendentemente ma
esistono.
Addirittura la Madhyamaka è divisa dai commentatori tibetani in due
sottoscuole. La meno radicale ammette che il fenomeno deve avere una
specie di 'input' oggettivo per la coscienza, e questo 'input' è di
fatto una sostanza. Viene però specificato che esiste inseparabile dal
fenomeno quindi essendo impermanente non è una sostanza vera e propria
come suppongo la materia del demiurgo del pensiero greco. Ma anche la
suddivisione superiore riconosce che per potersi parlare di
interazioni deve esserci qualcosa che ne faccia da base. Per questo
(cito a memoria) scrivere che grazie a Nagarjuna ci si può concentrare
solo sulle relazioni, a me desta qualche perplessità.
Ciao "pcf ansiagorod". Ho letto, al tuo primo link, dei falsi stereotipi
circa il buddismo. Non potendo mettere in dubbio l'autorevolezza
dell'autore (non ho fatto ricerche approfondite su argomenti cosi'
lontani dai miei interessi intellettuali; mi bastano ed avanzano le
problematiche del pensiero occidentale:-)), mi sono chiesto tuttavia di
quale buddhismo si sta parlando, avvertendone un'interpretazione venata
quasi da un certo "edonismo", difficile da trovare almeno in quello
originario riferibile direttamente alle parole di Gotamo Siddharta sulle
"Quattro auguste verita'", tenuto a Benares(*). Vero e' che Buddha non
ha scritto nulla e la sua vita ci e' stata tramandata dai discepoli (che
nel corso del tempo hanno dato origine a varie "correnti"), in racconti
agiografici in cui e' difficile discernere i dati sicuramente storici.
Cosi' e' anche il discorso che ho riportato in nota, ma che dagli
studiosi e' giudicato di massima verosimiglianza.
Comunque io mi tengo la perplessita' dell'incompetente e possiamo
mettere tutto questo tra parentesi, per tornare piu' al tema specifico
del tuo post, che riguarda piu' in particolare che cosa il fisico
Rovelli ha recepito della filosofia indiana, in funzione della sua
soluzione "relazionale" degli enigmi posti dalla meccanica quantistica.
Hai detto di non possedere il suo "Helgoland"?(**). Ne ho copia
digitale, per cui mi e' facile cercare le citazioni che possono
interessarti e che vado a riportare. Le numero, per meglio distinguerle
da qualche mio eventuale breve commento.
1)<<All'ennesima volta che mi sono sentito chiedere: «Hai letto
Nagarjuna?», ho deciso di leggerlo. È un testo poco noto in Occidente ma
non è un testo minore: è uno dei capisaldi della filosofia indiana, ed è
solo per la mia penosa ignoranza del pensiero asiatico, caratteristica
di un occidentale, che non lo conoscevo. Si intitola con una di queste
impossibili parole indiane: Mùlamadhyamakakàiikà, tradotta in molti
modi, per esempio Le stanze del cammino di mezzo. Uno letto in una
traduzione commentata di un filosofo analitico americano."3 Mi ha
lasciato un'impressione profonda.
Nàgàrjuna è vissuto nel II secolo. Sul suo testo esistono innumerevoli
commenti e si sono stratificate interpretazioni ed esegesi, ^interesse
dei testi così antichi è proprio la stratificazione di letture che ce li
consegna arricchiti di livelli di significato. Quello che ci interessa
è quello che il testo può suggerire oggi a noi.
La tesi centrale del libro di Nàgàrjuna è semplicemente che non ci sono
cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro. La risonanza
con la meccanica quantistica è immediata. Ovviamente Nàgàrjuna non
sapeva e non poteva sapere nulla di quanti, non è questo il punto. Il
punto è che i filosofi ci offrono modi originali di pensare il mondo, e
noi possiamo servircene se ci risultano utili. La prospettiva che offre
Nàgàrjuna ci rende forse un po' più facile pensare il mondo dei quanti.
2)<<Il fascino del pensiero di Nagarjuna va al di là del le questioni
della fisica moderna. La sua prospettiva ha qualcosa di vertiginoso.
Risuona con il meglio di tanta filosofia occidentale, classica e
recente. Con lo scetticismo radicale di Hume, con lo smascheramento
delle domande mal poste che ci permette il pensiero di Wittgenstein. Ma
Nagarjuna mi sembra non cadere nella trappola in cui si impiglia tanta
filosofia postulando punti di partenza che finiscono sempre per
rivelarsi poco convincenti a lungo andare. Parla della realtà, della sua
complessità e della sua comprensibilità, ma ci difende dalla trappola
concettuale di volerne trovare un fondamento ultimo.>>
3)<<Io non sono un filosofo, sono un fisico: un vile meccanico. A questo
vile meccanico, che si occupa di quanti, Nagarjuna insegna che posso
pensare le manifestazioni degli oggetti fisici senza dovermi chiedere
cosa sia l'oggetto fisico indipendentemente dalle sue manifestazioni.
Ma la vacuità di Nagarjuna nutre anche un atteggiamento etico
profondamente rasserenante: comprendere che non esistiamo come entità
autonome ci aiuta a liberarci dall'attaccamento e dalla sofferenza.
Proprio per la sua impermanenza, per l'assenza di ogni Assoluto, la vita
ha senso ed è preziosa.>> [Questa l'hai in parte riportata tu]
Questi sono i piu' diretti riferimenti al pensiero di Nagarjuna. Ma cio'
che piu' importa e' la funzione che essi hanno, che e' quella che hai
presente e cui ho anch'io accennato: la sua interpretazione
*relazionale* dei fenomeni quantistici, e che nel suo nucleo piu'
logico-teoretico ha il suo perno nel concetto di "vuoto", inteso come
vuoto *di sostanza*, cioe' della sostanza come oggettivita' ontologica
della realta'. Non e' il caso che mi dilunghi con citazioni anche su
questo, che dal punto di vista della fisica dei quanti saprai meglio di
me. Piuttosto: tu ritieni che Rovelli abbia estremizzato questa
impostazione relazionale. Non solo, a mio avviso, e' andato
"filosoficamente" oltre dovuto, ma ha anche fatto sua questa
4)<<Di solito poi osserviamo il mondo a grandi scale, quindi non ne
vediamo la granularità. Vediamo valori mediati fra tantissime piccole
variabili. Non vediamo singole molecole: vediamo l'intero gatto. Quando
ci sono tantissime variabili, le fluttuazioni diventano irrilevanti, la
probabilità si avvicina alla certezza.7* I miliardi di variabili
discontinue e punteggiate dell'agitato e fluttuante mondo dei quanti si
riducono alle poche variabili continue e ben definite della nostra
esperienza quotidiana. Alla nostra scala il mondo è come un oceano
agitato dalle onde osservato dalla luna: una piatta superficie di una
biglia immobile.
La nostra esperienza quotidiana quindi è compatibile con il mondo
quantlstico: la teoria dei quanti comprende la meccanica classica, e
comprende la nostra usuale visione del mondo, come approssimazioni. Le
comprende come un uomo che vede bene può comprendere l'esperienza di un
miope che non vede il ribollire in una pentola sul fuoco. Ma alla scala
delle molecole, il netto spigolo di un coltello d'acciaio è fluttuante e
impreciso come il bordo di un oceano in tempesta che si sfrangia su una
spiaggia di sabbia bianca.
La solidità della visione classica del mondo non è che nostra miopia. Le
certezze della fisica classica sono solo probabilità. L’immagine del
mondo nitida e solida della vecchia fisica è un'illusione.>>
5)<<Al di là della fisica, il pensiero relazionale lo si ritrova in
tutte le scienze. In biologia le caratteristiche dei sistemi viventi
sono comprensibili in relazione all'ambiente, formato da altri esseri
viventi. In chimica le proprietà degli elementi sono il modo in cui
questi interagiscono con altri elementi. In economia si parla di
relazioni economiche. In psicologia la personalità individuale esiste in
un contesto relazionale. In questi e tanti altri casi capiamo le cose
(vita biologica, vita psichica, composti chimici...) nel loro essere in
relazione ad altre cose.
Nella storia della filosofia occidentale, la critica alla nozione di
«entità» presa come fondamento della realtà è ricorrente. La si ritrova
nelle tradizioni filosofiche più disparate, dal «tutto scorre» di
Gradito, fino alla contemporanea metafisica delle relazioni. Solo
nell'ultimo anno sono usciti libri di filosofi come "Un approccio
fondale alla metafisica delle prospettive" e "Il relativismo dei punti
di vista: un nuovo approccio epistemologico basato sul concetto di punto
di vista". Nella filosofia analitica, il "realismo strutturale" è basato
sull'idea che le relazioni vengano prima degli oggetti: per Ladyman, ad
esempio, il modo migliore di comprendere il mondo è pensarlo come un
insieme di relazioni senza oggetti che siano in relazione. In una
prospettiva neokantiana Michel Bitbol ha scritto "Dall'interno del
mondo: per una filosofia e una scienza delle relazioni". In Italia,
Laura Candiotto ha pubblicato con Giacomo Pezzano un libro intitolato
Filosofia delle relazioni.>>
Non mi dilungo in una critica delle posizioni filosofiche che qui
Rovelli cita, che sarebbe troppo specialistica. Mi accontento solo di
accennare al fatto che l'estremizzazione del concetto di "vuoto di
sostanza" logicamente porta, per un procedimento all'infinito,
all'idealismo assoluto; e da poco esperto di meccanica quantistica mi
permetto di preferirgli la prundenza e la saggezza tutta occidentale di
<<Non ho fatto mistero della mia convinzione che la soluzione dei
rompicapo della teoria quantistica si potrà avere soltanto quando avremo
trovato una teoria migliorata [...]. Sappiamo che, al livello
submicroscopico, dominano incontrastate le leggi quantistiche, ma al
livello delle palle da tennis vale la fisica classica. Fra questi due
li¬velli abbiamo bisogno secondo me di capire la nuova legge, per
ve¬dere in che modo il mondo quantistico si fonda con quello classico.
Io credo, inoltre, che avremo bisogno di questa legge se dovremo mai
capire la mente!>> (Penrose, "I vestiti nuovi dell'imperatore")
Scusate la lunghezza.
Cosa dovrei dire io?:-)
Un saluto,
Loris
(*) <<Questa, o monaci, è l'augusta verità circa il dolore: nascita è
dolore, vecchiezza è dolore, malattia è dolore; dolore è l'unione con
ciò che dispiace, dolore è la separazione da ciò che piace, non ottenere
ciò che si desidera è dolore; in breve, i cinque diversi aggregati che
determinano l'attaccamento all'esistenza sono dolore.
Questa, o monaci, è l'augusta verità circa l'origine del dolore: è la
sete che conduce di rinascita in rinascita, che si associa con la gioia
e il desiderio e trova qua e là il suo appagamento, cioè la sete di
piaceri sessuali, la sete di rinascita, la sete di annichilimento.
l’eliminazione di questa sete mediante il totale annientamento della
passione; abbandonarla, privarsi di lei, sciogliersi da lei, non
concederle alcun luogo.
Questa, o monaci, è l'augusta verità circa la via che conduce
all'estinzione del dolore; è questa la santa via composta di otto parti.
Essa ha questi nomi: retto modo di pensare, retta decisione, retta
parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto ricordo, retta
concentrazione.>>
(**) Breve saggio divulgativo, piacevole da leggere, non disdegna di
scendere nell'aneddotico (la famiglia molto "allargata" del brillante
Heisenberg, le amanti di Schroedinger, l' "arrogante" Pauli, le
vicissitudini del comunista Bohm...), ma contiene anche numerose note e
riferimenti impegnativi, per "addetti ai lavori".
Ho letto con interesse tutta la vostra discussione, ma devo dire, da
profano, che nella mia vita privata e professionale ho dovuto
constatare, senza apposite teorie, che nulla è ciò che può essere
descritto da una qualche definizione/descizione, per quanto complessa e
articolata, se non in un istante infinitesimo, in un'istantanea che
coglie ciò che osserviamo nel suo stato proprio soltanto di tale istante
nel contesto di un universo che lo fa essere ciò che è solo in tale
istante.
Come dicevo, ciò non ha bisogno di filosofie apposite né di teorie
fisiche apposite. Per una semplice ragione: ovunque si posi
l'attenzione, nel micro o nel macro, questa è semplicemente l'evidenza.
E non arriverei proprio a una filosofia del dolore ,che cerca di rendere
meccanicamente gestibile ciò che non può esserlo: ciò che è reale.

Un saluto
Omega
Loris Dalla Rosa
2023-05-31 09:07:47 UTC
Permalink
Post by Omega
Post by Loris Dalla Rosa
Grazie mille della tua premura, ho apprezzato. Premetto che mi limito
a mettere sul tavolo qualche mia perplessità e non intendo criticare
il prof. Balducci. E' evidente che conosce l'argomento ma temo che le
fonti di cui si è servito non fossero esaustive del panorama. A sua
ulteriore 'discolpa' il fatto che per lungo tempo sono mancate
traduzioni e diversi testi fondamentali sopravvivono solo in
traduzioni tibetane e cinesi.
Ovviamente so di usare in modo improprio o almeno troppo generale i
termini della nostra filosofia, spero di capirci qualcosa di più col
tempo che ancora ho davanti a me. Non sono stati i miei studi quindi
chiedo venia.
<<8-21   Le scuole buddiste: il nichilismo di Nagarjuna e
l'idealismo dì Asanga. [...]
Nagarjuna nega decisamente qualsiasi forma di nichilismo. E' ovvio
che si può usare il termine se se ne è conordato portata e
significato ma lo trovo pericolosamente appesantito dalla tradizione
filosofica europea. E' vero che i proponenti delle scuole filosofiche
indiane possono ben essere denominati sunyavadin ma vuoto significa
solo l'assenza di certi modi di esistenza dei fenomeni e della mente,
senza assolutamente negare il reale. Tanto è vero che la scuola di
Nagarjuna è più correttamente denominata Madhyamaka ovvero 'via di
mezzo'. E la denominazione deriva dal fatto che viene respinto sia il
nichilismo (che gli indiani conoscevano benissimo, con elaborazioni
di pensiero non tanto lontane dalle nostre) sia appunto la sostanza,
che nel lessico tibetano va sotto il nome di 'eternalismo' o almeno
viene resa in inglese così e quindi anche in italiano.
In grandissima sintesi mente e fenomeni esistono, nel senso che
possono produrre effetti; ma non esistono nel modo che si è
normalmente portati a credere se pure è incastrato nel nostro
'hardware'-mente.
In questo modo vengono evitati i due estremi di eternalismo e
nichilismo. La realtà viene affermata e riconosciuta esistere, ma la
mente, se non allenata, crede che i fenomeni abbiano una sostanza.
Nagarjuna dice (credo!) che dall'interdipendenza tra le
componenti-parti del fenomeno, la nostra mente imputa l'etichetta che
dà il nome al fenomeno. Insostanziale ma perfettamente reale.
Esempio banale, un istante di tempo. Se sottoposto all'analisi della
Madhyamaka si 'scopre' che ha senso solo rispetto a un istante
precedente e uno successivo, la coscienza che lo sperimenta e così
via. Sulla base dell'interdipendenza tra le parti, alla mente appare
quel certo ente o fenomeno. Ma appare come se fosse in un certo senso
isolato, in quanto dotato di sostanza. Scopo di tutta la filosofia
buddhista è smontare questo assenso inconscio a modi di esistere che
in realtà non esistono. Ma solo i modi di esistere, non le cose.
nell'estremo oriente. Essi han dato vita alla scuola dei Nichilisti
(sunyavadins = da sunya, vuoto) che in qualche modo ripercorre la
stessa via battuta dai Sautrantika (7.27) ma con risultati
metafisici ben diversi. Per i Sautrantika, tra la non esistenza
dell'oggetto e la non esistenza del soggetto stava la serie dei
fenomeni, che almeno essa era dotata d'esistenza, sia pure ridotta
all'istante in cui la serie fenomenica via via si condensa per
subito scomparire.
1) Per fugare dubbi sulla identificazione vuoto <-> nichilismo basta
cercare con google 'misconceptions about buddhist emptiness', ci sono
molti riferimenti. Uno è questo: A. Berzin è uno dei traduttori del
Dalai Lama e la tradizione esegetica tibetana è quella rimasta più
fedele al pensiero indiano, ma anche nei testi cinesi non si si
allontana dal concetto.
https://studybuddhism.com/en/tibetan-buddhism/about-buddhism/misconceptions-about-buddhism/common-misunderstandings-about-buddhism
Un altro testo interessante, a mia conoscenza tra i pochissimi a
gettare un ponte su dati concreti è quello di Jan Westerhoff,
'Nagarjuna's Madhyamaka: A Philosophical Introduction'. Mi è arrivato
qualche settimana fa e mi pare un capolavoro. Ho parecchia roba su
queste cose viste dall'interno ma è la prima volta che leggo una
trattazione sintetica fatta da un filosofo occidentale che mi pare
non tradire il senso.
Non sto ovviamente confutando la tua fonte, dico solo che gli studi
sono andati avanti e ora si ha un panorama forse più completo.
2) Il modo in cui è esposta la scuola Sautrantika è interessante. In
sostanza, come tutte le quattro scuole di cui quella di Nagarjuna è
la più elevata, tratta molto a fondo la negazione della sostanza. In
questo caso la sostanza (per come ho compreso la Sautrantika) è
qualcosa di simile all'idea platonica anche se con differenze
notevoli. L'errore da cui siamo affetti in modo innato è che alla
coscienza appare l'idea dell'oggetto, per esempio il concetto-idea di
tavolo, ma non notiamo che quel particolare tavolo che abbiamo
davanti cambia continuamente. Lo sappiamo dalla chimica e dalla
fisica ma non costituisce percezione diretta mentale. Mi fermo qui
perché è un ramo collaterale della discussione. L'ho accennato solo
per evidenziare che una volta conosciuto il contesto le parole del
professore hanno un senso, ma se non lo si conosce sono sicuro che si
va a pensare a cose del tutto diverse.
E ora Rovelli. La mia perplessità sulla sua ricezione di Nagarjuna è
che mi pare radicalizzi l'importanza delle relazioni di
interdipendenza attribuendola indirettamente o implicitamente a
Nagarjuna. Ma per la scuola Madhyamaka deve esserci 'qualcosa' che fa
da base di designazione per il fenomeno. Basta cercare con google
'settuplice ragionamento chandrakirti carro' (es.
https://archive.org/details/7-fold-reasoning-analysis-of-the-chariot)
per capire cosa intendo. Nel caso della sua misura sulle particelle,
non credo nemmeno abbia senso invocare la filosofia. A quella scala
dimensionale non abbiamo alcuna rappresentazione dell'ente, che di
fatto 'è' la sua descrizione matematica. Nello spirito di Nagarjuna
potrei forse dire che la particella viene a esistere perché dipende
da altro, altre particelle, la sua descrizione matematica dato che
possiamo conoscerla solo tramite questa, le misure etc. Pur tutte
queste cose prive di esistenza indipendente (per dirla con i loro
termini), nondimento esistono. Esistono solo interdipendentemente ma
esistono.
Addirittura la Madhyamaka è divisa dai commentatori tibetani in due
sottoscuole. La meno radicale ammette che il fenomeno deve avere una
specie di 'input' oggettivo per la coscienza, e questo 'input' è di
fatto una sostanza. Viene però specificato che esiste inseparabile
dal fenomeno quindi essendo impermanente non è una sostanza vera e
propria come suppongo la materia del demiurgo del pensiero greco. Ma
anche la suddivisione superiore riconosce che per potersi parlare di
interazioni deve esserci qualcosa che ne faccia da base. Per questo
(cito a memoria) scrivere che grazie a Nagarjuna ci si può
concentrare solo sulle relazioni, a me desta qualche perplessità.
Ciao "pcf ansiagorod". Ho letto, al tuo primo link, dei falsi
stereotipi circa il buddismo. Non potendo mettere in dubbio
l'autorevolezza dell'autore (non ho fatto ricerche approfondite su
argomenti cosi' lontani dai miei interessi intellettuali; mi bastano
ed avanzano le problematiche del pensiero occidentale:-)), mi sono
chiesto tuttavia di quale buddhismo si sta parlando, avvertendone
un'interpretazione venata quasi da un certo "edonismo", difficile da
trovare almeno in quello originario riferibile direttamente alle
parole di Gotamo Siddharta sulle "Quattro auguste verita'", tenuto a
Benares(*). Vero e' che Buddha non ha scritto nulla e la sua vita ci
e' stata tramandata dai discepoli (che nel corso del tempo hanno dato
origine a varie "correnti"), in racconti agiografici in cui e'
difficile discernere i dati sicuramente storici. Cosi' e' anche il
discorso che ho riportato in nota, ma che dagli studiosi e' giudicato
di massima verosimiglianza.
Comunque io mi tengo la perplessita' dell'incompetente e possiamo
mettere tutto questo tra parentesi, per tornare piu' al tema specifico
del tuo post, che riguarda piu' in particolare che cosa il fisico
Rovelli ha recepito della filosofia indiana, in funzione della sua
soluzione "relazionale" degli enigmi posti dalla meccanica
quantistica. Hai detto di non possedere il suo "Helgoland"?(**). Ne ho
copia digitale, per cui mi e' facile cercare le citazioni che possono
interessarti e che vado a riportare. Le numero, per meglio
distinguerle da qualche mio eventuale breve commento.
1)<<All'ennesima volta che mi sono sentito chiedere: «Hai letto
Nagarjuna?», ho deciso di leggerlo. È un testo poco noto in Occidente
ma non è un testo minore: è uno dei capisaldi della filosofia indiana,
ed è solo per la mia penosa ignoranza del pensiero asiatico,
caratteristica di un occidentale, che non lo conoscevo. Si intitola
con una di queste impossibili parole indiane: Mùlamadhyamakakàiikà,
tradotta in molti modi, per esempio Le stanze del cammino di mezzo.
Uno letto in una traduzione commentata di un filosofo analitico
americano."3 Mi ha lasciato un'impressione profonda.
Nàgàrjuna è vissuto nel II secolo. Sul suo testo esistono innumerevoli
commenti e si sono stratificate interpretazioni ed esegesi, ^interesse
dei testi così antichi è proprio la stratificazione di letture che ce
li consegna arricchiti di livelli di significato. Quello che ci
interessa davvero dei testi antichi non è cosa volesse inizialmente
dire l'autore: è quello che il testo può suggerire oggi a noi.
La tesi centrale del libro di Nàgàrjuna è semplicemente che non ci
sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro. La
risonanza con la meccanica quantistica è immediata. Ovviamente
Nàgàrjuna non sapeva e non poteva sapere nulla di quanti, non è questo
il punto. Il punto è che i filosofi ci offrono modi originali di
pensare il mondo, e noi possiamo servircene se ci risultano utili. La
prospettiva che offre Nàgàrjuna ci rende forse un po' più facile
pensare il mondo dei quanti.
2)<<Il fascino del pensiero di Nagarjuna va al di là del le questioni
della fisica moderna. La sua prospettiva ha qualcosa di vertiginoso.
Risuona con il meglio di tanta filosofia occidentale, classica e
recente. Con lo scetticismo radicale di Hume, con lo smascheramento
delle domande mal poste che ci permette il pensiero di Wittgenstein.
Ma Nagarjuna mi sembra non cadere nella trappola in cui si impiglia
tanta filosofia postulando punti di partenza che finiscono sempre per
rivelarsi poco convincenti a lungo andare. Parla della realtà, della
sua complessità e della sua comprensibilità, ma ci difende dalla
trappola concettuale di volerne trovare un fondamento ultimo.>>
3)<<Io non sono un filosofo, sono un fisico: un vile meccanico. A
questo vile meccanico, che si occupa di quanti, Nagarjuna insegna che
posso pensare le manifestazioni degli oggetti fisici senza dovermi
chiedere cosa sia l'oggetto fisico indipendentemente dalle sue
manifestazioni.
Ma la vacuità di Nagarjuna nutre anche un atteggiamento etico
profondamente rasserenante: comprendere che non esistiamo come entità
autonome ci aiuta a liberarci dall'attaccamento e dalla sofferenza.
Proprio per la sua impermanenza, per l'assenza di ogni Assoluto, la
vita ha senso ed è preziosa.>> [Questa l'hai in parte riportata tu]
Questi sono i piu' diretti riferimenti al pensiero di Nagarjuna. Ma
cio' che piu' importa e' la funzione che essi hanno, che e' quella che
hai presente e cui ho anch'io accennato: la sua interpretazione
*relazionale* dei fenomeni quantistici, e che nel suo nucleo piu'
logico-teoretico ha il suo perno nel concetto di "vuoto", inteso come
vuoto *di sostanza*, cioe' della sostanza come oggettivita' ontologica
della realta'. Non e' il caso che mi dilunghi con citazioni anche su
questo, che dal punto di vista della fisica dei quanti saprai meglio
di me. Piuttosto: tu ritieni che Rovelli abbia estremizzato questa
impostazione relazionale. Non solo, a mio avviso, e' andato
"filosoficamente" oltre dovuto, ma ha anche fatto sua questa
4)<<Di solito poi osserviamo il mondo a grandi scale, quindi non ne
vediamo la granularità. Vediamo valori mediati fra tantissime piccole
variabili. Non vediamo singole molecole: vediamo l'intero gatto.
Quando ci sono tantissime variabili, le fluttuazioni diventano
irrilevanti, la probabilità si avvicina alla certezza.7* I miliardi di
variabili discontinue e punteggiate dell'agitato e fluttuante mondo
dei quanti si riducono alle poche variabili continue e ben definite
della nostra esperienza quotidiana. Alla nostra scala il mondo è come
un oceano agitato dalle onde osservato dalla luna: una piatta
superficie di una biglia immobile.
La nostra esperienza quotidiana quindi è compatibile con il mondo
quantlstico: la teoria dei quanti comprende la meccanica classica, e
comprende la nostra usuale visione del mondo, come approssimazioni. Le
comprende come un uomo che vede bene può comprendere l'esperienza di
un miope che non vede il ribollire in una pentola sul fuoco. Ma alla
scala delle molecole, il netto spigolo di un coltello d'acciaio è
fluttuante e impreciso come il bordo di un oceano in tempesta che si
sfrangia su una spiaggia di sabbia bianca.
La solidità della visione classica del mondo non è che nostra miopia.
Le certezze della fisica classica sono solo probabilità. L’immagine
del mondo nitida e solida della vecchia fisica è un'illusione.>>
5)<<Al di là della fisica, il pensiero relazionale lo si ritrova in
tutte le scienze. In biologia le caratteristiche dei sistemi viventi
sono comprensibili in relazione all'ambiente, formato da altri esseri
viventi. In chimica le proprietà degli elementi sono il modo in cui
questi interagiscono con altri elementi. In economia si parla di
relazioni economiche. In psicologia la personalità individuale esiste
in un contesto relazionale. In questi e tanti altri casi capiamo le
cose (vita biologica, vita psichica, composti chimici...) nel loro
essere in relazione ad altre cose.
Nella storia della filosofia occidentale, la critica alla nozione di
«entità» presa come fondamento della realtà è ricorrente. La si
ritrova nelle tradizioni filosofiche più disparate, dal «tutto scorre»
di Gradito, fino alla contemporanea metafisica delle relazioni. Solo
nell'ultimo anno sono usciti libri di filosofi come "Un approccio
fondale alla metafisica delle prospettive" e "Il relativismo dei punti
di vista: un nuovo approccio epistemologico basato sul concetto di
punto di vista". Nella filosofia analitica, il "realismo strutturale"
è basato sull'idea che le relazioni vengano prima degli oggetti: per
Ladyman, ad esempio, il modo migliore di comprendere il mondo è
pensarlo come un insieme di relazioni senza oggetti che siano in
relazione. In una prospettiva neokantiana Michel Bitbol ha scritto
"Dall'interno del mondo: per una filosofia e una scienza delle
relazioni". In Italia, Laura Candiotto ha pubblicato con Giacomo
Pezzano un libro intitolato Filosofia delle relazioni.>>
Non mi dilungo in una critica delle posizioni filosofiche che qui
Rovelli cita, che sarebbe troppo specialistica. Mi accontento solo di
accennare al fatto che l'estremizzazione del concetto di "vuoto di
sostanza" logicamente porta, per un procedimento all'infinito,
all'idealismo assoluto; e da poco esperto di meccanica quantistica mi
permetto di preferirgli la prundenza e la saggezza tutta occidentale
<<Non ho fatto mistero della mia convinzione che la soluzione dei
rompicapo della teoria quantistica si potrà avere soltanto quando
avremo trovato una teoria migliorata [...]. Sappiamo che, al livello
submicroscopico, dominano incontrastate le leggi quantistiche, ma al
livello delle palle da tennis vale la fisica classica. Fra questi due
li¬velli abbiamo bisogno secondo me di capire la nuova legge, per
ve¬dere in che modo il mondo quantistico si fonda con quello classico.
Io credo, inoltre, che avremo bisogno di questa legge se dovremo mai
capire la mente!>> (Penrose, "I vestiti nuovi dell'imperatore")
Scusate la lunghezza.
Cosa dovrei dire io?:-)
Un saluto,
Loris
(*) <<Questa, o monaci, è l'augusta verità circa il dolore: nascita è
dolore, vecchiezza è dolore, malattia è dolore; dolore è l'unione con
ciò che dispiace, dolore è la separazione da ciò che piace, non
ottenere ciò che si desidera è dolore; in breve, i cinque diversi
aggregati che determinano l'attaccamento all'esistenza sono dolore.
Questa, o monaci, è l'augusta verità circa l'origine del dolore: è la
sete che conduce di rinascita in rinascita, che si associa con la
gioia e il desiderio e trova qua e là il suo appagamento, cioè la sete
di piaceri sessuali, la sete di rinascita, la sete di annichilimento.
l’eliminazione di questa sete mediante il totale annientamento della
passione; abbandonarla, privarsi di lei, sciogliersi da lei, non
concederle alcun luogo.
Questa, o monaci, è l'augusta verità circa la via che conduce
all'estinzione del dolore; è questa la santa via composta di otto
parti. Essa ha questi nomi: retto modo di pensare, retta decisione,
retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto ricordo,
retta concentrazione.>>
(**) Breve saggio divulgativo, piacevole da leggere, non disdegna di
scendere nell'aneddotico (la famiglia molto "allargata" del brillante
Heisenberg, le amanti di Schroedinger, l' "arrogante" Pauli, le
vicissitudini del comunista Bohm...), ma contiene anche numerose note
e riferimenti impegnativi, per "addetti ai lavori".
Ho letto con interesse tutta la vostra discussione, ma devo dire, da
profano, che nella mia vita privata e professionale ho dovuto
constatare, senza apposite teorie, che nulla è ciò che può essere
descritto da una qualche definizione/descizione, per quanto complessa e
articolata, se non in un istante infinitesimo, in un'istantanea che
coglie ciò che osserviamo nel suo stato proprio soltanto di tale istante
nel contesto di un universo che lo fa essere ciò che è solo in tale
istante.
Come dicevo, ciò non ha bisogno di filosofie apposite né di teorie
fisiche apposite. Per una semplice ragione: ovunque si posi
l'attenzione, nel micro o nel macro, questa è semplicemente l'evidenza.
E non arriverei proprio a una filosofia del dolore ,che cerca di rendere
meccanicamente gestibile ciò che non può esserlo: ciò che è reale.
Ciao Omega. Grazie dell'intervento, che permette di vedere la stessa
questione trattata, che appare cosi' complessa perche' riguarda una
materia ostica come la MQ, sotto una prospettiva molto piu' "alla mano",
cioe' da un punto di vista che non richiede competenze specialistiche
(che neppure io ho) relative a quella materia. La questione di fondo,
quella veramente cruciale che sta sotto l'interpretazione
dell'entaglement di Rovelli e che investe anche il tuo discorso (che con
essa solo in apparenza non ha nulla a che fare), e' quella riassumibile
in questa frase di Rovelli (che esprime a proposito di un saggio cui lui
rimanda):
<<per Ladyman, ad esempio, il modo migliore di comprendere il mondo è
pensarlo come un insieme di relazioni senza oggetti che siano in
relazione.>>
"senza oggetti che siano in relazione"??? Ecco, questa idea e' quella
che gli fa parlare di logica delle relazioni *senza sostanza*,
addirittura di "Naturalismo senza sostanza" (titolo di un suo capitolo),
ed e' anche il motivo della sua "infatuazione" (detto con tutto il
rispetto) per quanto recepisce della filosofia indiana. Questo pone
invece un bel problema, che non e' piu' specialistico della fisica dei
quanti, ma e' in quella terra comune sia alla filosofia che alla fisica,
che e' la coerenza logica cui deve sottostare qualunque teoria della
conoscenza, come qualunque teoria scientifica. Ma vengo specificamente a
quanto hai detto.
Se dici che una definizione/descizione dell'universo muta nell'evidenza
che dura un istante infinitesimo <<nel contesto di un universo che lo fa
essere ciò che è solo in tale istante>>, come e' possibile che
l'universo muti, se non escludendo che *non* tutto muti, cioe'
escludendo che sia l'universo stesso, il suo *concetto*, a mutare? Non
si puo' parlare di qualcosa che muta, se di quel qualcosa... qualcosa
non muta. E se per "sostanza" intendiamo l'identico che permane nel
mutamento delle sue proprieta' fenomeniche, essa e' "sotto gli occhi":
*sotto* gli occhi nel senso che non si vede nel mutare delle sue
proprieta' fenomeniche, ma che e' *posta* come quella necessita'
cognitiva che ci permette di parlare di qualcosa che muta. E' questo
quel famoso "noumeno", che ancor prima di essere pre-supposto, dalla
nostra passivita' ricettiva di fronte agli input che ci provengono
dall'esterno, e' *posto* come necessita' cognitiva che ci permette di
parlare in generale delle cose, e di quello stesso "noumeno", nella
massimizzazione olistica del suo concetto, che chiamiamo "universo". La
questione e' antica quanto i frammenti dell'oscuro Eraclito, cui anche
fa riferimento Rovelli, nella sua scorribanda nei territori della
filosofia(*), pensando che sia di sostegno alla sua teoria delle
relazioni senza sostanza, e che secondo il mio modesto parere puo' dar
luogo solo a discorsi... senza sostanza.

Vedo che, rispondendo a te, ho detto cose che mi riservavo di dire in
una risposta a "pcf ansiagorod". Vorra' dire che lo rimandero' a questa,
perche' la logica del mio commento sulla "sostanza" dell'universo e' del
tutto analoga a quella sulla "sostanza" del fotone, dove "sostanza" ha
quel senso di funzione cognitiva di cui ho detto, e in cui risiede la
possibilita' (forse l'unica) di salvare dall'idealismo assoluto un
realismo critico.
Cari saluti,
Loris

(*) <<Nella storia della filosofia occidentale, la critica alla nozione
di «entità» presa come fondamento della realtà è ricorrente. La si
ritrova nelle tradizioni filosofiche più disparate:dal «tutto scorre» di
Eraclito, fino alla contemporanea metafisica delle relazioni. Solo
nell'ultimo anno sono usciti libri di filosofi come "Un approccio
formale alla metafìsica delle prospettive e lì relativismo dei punti di
vista: un nuovo approccio epistemologico basato sul concetto di punto di
vista.">>. Rimanda appunto a questo: "A.E. Hautamàki, Viewpoint
Relativism: A New Approach to Epistemological Relativism based on the
Concept of Points of View", Springer, Berlin, 2020.
Va bene, vedro' se riesco a procurarmelo, forse imparero' qualcosa di nuovo.
--
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Omega
2023-06-02 05:51:54 UTC
Permalink
Post by Loris Dalla Rosa
Post by Omega
Post by pcf ansiagorod
Grazie mille della tua premura, ho apprezzato. Premetto che mi
limito a mettere sul tavolo qualche mia perplessità e non intendo
criticare il prof. Balducci. E' evidente che conosce l'argomento ma
temo che le fonti di cui si è servito non fossero esaustive del
panorama. A sua ulteriore 'discolpa' il fatto che per lungo tempo
sono mancate traduzioni e diversi testi fondamentali sopravvivono
solo in traduzioni tibetane e cinesi.
Ovviamente so di usare in modo improprio o almeno troppo generale i
termini della nostra filosofia, spero di capirci qualcosa di più col
tempo che ancora ho davanti a me. Non sono stati i miei studi quindi
chiedo venia.
<<8-21   Le scuole buddiste: il nichilismo di Nagarjuna e
l'idealismo dì Asanga. [...]
...
In grandissima sintesi mente e fenomeni esistono, nel senso che
possono produrre effetti; ma non esistono nel modo che si è
normalmente portati a credere se pure è incastrato nel nostro
'hardware'-mente.
Hardware-mente è un altro pregiudizio di noi, che tendiamo a localizzare
funzioni che non possono che essere, invece, sistemiche. Noi, per così
dire, siamo la nostra mente.
Post by Loris Dalla Rosa
Post by Omega
Post by pcf ansiagorod
In questo modo vengono evitati i due estremi di eternalismo e
nichilismo. La realtà viene affermata e riconosciuta esistere, ma la
mente, se non allenata, crede che i fenomeni abbiano una sostanza.
Nagarjuna dice (credo!) che dall'interdipendenza tra le
componenti-parti del fenomeno, la nostra mente imputa l'etichetta
che dà il nome al fenomeno. Insostanziale ma perfettamente reale.
Esempio banale, un istante di tempo. Se sottoposto all'analisi della
Madhyamaka si 'scopre' che ha senso solo rispetto a un istante
precedente e uno successivo, la coscienza che lo sperimenta e così via.
Questa non è analisi ma al più percezione, o meglio esperienza, o ancora
meglio convinzione 'mentale'.
Post by Loris Dalla Rosa
Post by Omega
Ho letto con interesse tutta la vostra discussione, ma devo dire, da
profano, che nella mia vita privata e professionale ho dovuto
constatare, senza apposite teorie, che nulla è ciò che può essere
descritto da una qualche definizione/descizione, per quanto complessa
e articolata, se non in un istante infinitesimo, in un'istantanea che
coglie ciò che osserviamo nel suo stato proprio soltanto di tale
istante nel contesto di un universo che lo fa essere ciò che è solo in
tale istante.
Come dicevo, ciò non ha bisogno di filosofie apposite né di teorie
fisiche apposite. Per una semplice ragione: ovunque si posi
l'attenzione, nel micro o nel macro, questa è semplicemente
l'evidenza. E non arriverei proprio a una filosofia del dolore ,che
cerca di rendere meccanicamente gestibile ciò che non può esserlo: ciò
che è reale.
Ciao Omega. Grazie dell'intervento, che permette di vedere la stessa
questione trattata, che appare cosi' complessa perche' riguarda una
materia ostica come la MQ, sotto una prospettiva molto piu' "alla mano",
cioe' da un punto di vista che non richiede competenze specialistiche
(che neppure io ho) relative a quella materia. La questione di fondo,
quella veramente cruciale che sta sotto l'interpretazione
dell'entaglement di Rovelli e che investe anche il tuo discorso (che con
essa solo in apparenza non ha nulla a che fare), e' quella riassumibile
in questa frase di Rovelli (che esprime a proposito di un saggio cui lui
<<per Ladyman, ad esempio, il modo migliore di comprendere il mondo è
pensarlo come un insieme di relazioni senza oggetti che siano in
relazione.>>
Oggetti, come ho detto, 'istantanei', ma oggetti in quel loro istante di
esistenza. Non è pensabile una relazione se non fra qualcosa di concreto
e qualcos'altro di concreto, di reale, seppure massimamente effimeri
entrambi. Altrimenti come sarebbe possibile una qualunque relazione?
Post by Loris Dalla Rosa
"senza oggetti che siano in relazione"??? Ecco, questa idea e' quella
che gli fa parlare di logica delle relazioni *senza sostanza*,
addirittura di "Naturalismo senza sostanza" (titolo di un suo capitolo),
ed e' anche il motivo della sua "infatuazione" (detto con tutto il
rispetto) per quanto recepisce della filosofia indiana. Questo pone
invece un bel problema, che non e' piu' specialistico della fisica dei
quanti, ma e' in quella terra comune sia alla filosofia che alla fisica,
che e' la coerenza logica cui deve sottostare qualunque teoria della
conoscenza, come qualunque teoria scientifica. Ma vengo specificamente a
quanto hai detto.
Se dici che una definizione/descizione dell'universo muta nell'evidenza
che dura un istante infinitesimo <<nel contesto di un universo che lo fa
essere ciò che è solo in tale istante>>, come e' possibile che
l'universo muti, se non escludendo che *non* tutto muti, cioe'
escludendo che sia l'universo stesso, il suo *concetto*, a mutare?
L'universo non può che essere mutamento in ogni suo anfratto, proprio
perché non c'è nulla in esso che non sia in relazione costante e
complessissima con il proprio contesto. E' mai pensabile che qualcosa
sia in relazione con nulla? Isolato? L'intero universo collasserebbe in
quel punto, nel tentativo di stabilire una necessaria relazione
conseguente alle sue proprietà. Relazione che definisce e anzi determina
l'esistenza stessa di un ente e del suo contesto in tale istante.
Post by Loris Dalla Rosa
si puo' parlare di qualcosa che muta, se di quel qualcosa... qualcosa
non muta. E se per "sostanza" intendiamo l'identico che permane nel
*sotto* gli occhi nel senso che non si vede nel mutare delle sue
proprieta' fenomeniche, ma che e' *posta* come quella necessita'
cognitiva che ci permette di parlare di qualcosa che muta. E' questo
quel famoso "noumeno",
Noumeno istantaneo, non noumeno in senso assoluto/permanente, che non
può esistere.
Post by Loris Dalla Rosa
che ancor prima di essere pre-supposto, dalla
nostra passivita' ricettiva di fronte agli input che ci provengono
dall'esterno, e' *posto* come necessita' cognitiva che ci permette di
parlare in generale delle cose, e di quello stesso "noumeno", nella
massimizzazione olistica del suo concetto, che chiamiamo "universo". La
questione e' antica quanto i frammenti dell'oscuro Eraclito, cui anche
fa riferimento Rovelli, nella sua scorribanda nei territori della
filosofia(*), pensando che sia di sostegno alla sua teoria delle
relazioni senza sostanza, e che secondo il mio modesto parere puo' dar
luogo solo a discorsi... senza sostanza.
La domanda sarebbe quindi: sono le relazioni a farci parlare di
sostanza? Certamente sì, perché le relazioni rendono evidente ciò che
in quell'istante è definito proprio da esse, delimitato e dotato di
qualche forma nel suo contesto. Che non è, se non come conseguenza, solo
una funzione cognitiva come dici qui sotto.

Omega
Post by Loris Dalla Rosa
Vedo che, rispondendo a te, ho detto cose che mi riservavo di dire in
una risposta a "pcf ansiagorod". Vorra' dire che lo rimandero' a questa,
perche' la logica del mio commento sulla "sostanza" dell'universo e' del
tutto analoga a quella sulla "sostanza" del fotone, dove "sostanza" ha
quel senso di funzione cognitiva di cui ho detto, e in cui risiede la
possibilita' (forse l'unica) di salvare dall'idealismo assoluto un
realismo critico.
Cari saluti,
Loris
(*) <<Nella storia della filosofia occidentale, la critica alla nozione
di «entità» presa come fondamento della realtà è ricorrente. La si
ritrova nelle tradizioni filosofiche più disparate:dal «tutto scorre» di
Eraclito, fino alla contemporanea metafisica delle relazioni. Solo
nell'ultimo anno sono usciti libri di filosofi come "Un approccio
formale alla metafìsica delle prospettive e lì relativismo dei punti di
vista: un nuovo approccio epistemologico basato sul concetto di punto di
vista.">>. Rimanda appunto a questo: "A.E. Hautamàki,  Viewpoint
Relativism: A New Approach to Epistemological Relativism based on the
Concept of Points of View", Springer, Berlin, 2020.
Va bene, vedro' se riesco a procurarmelo, forse imparero' qualcosa di nuovo.
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