Post by Loris Dalla RosaGrazie mille della tua premura, ho apprezzato. Premetto che mi limito
a mettere sul tavolo qualche mia perplessità e non intendo criticare
il prof. Balducci. E' evidente che conosce l'argomento ma temo che le
fonti di cui si è servito non fossero esaustive del panorama. A sua
ulteriore 'discolpa' il fatto che per lungo tempo sono mancate
traduzioni e diversi testi fondamentali sopravvivono solo in
traduzioni tibetane e cinesi.
Ovviamente so di usare in modo improprio o almeno troppo generale i
termini della nostra filosofia, spero di capirci qualcosa di più col
tempo che ancora ho davanti a me. Non sono stati i miei studi quindi
chiedo venia.
<<8-21 Le scuole buddiste: il nichilismo di Nagarjuna e
l'idealismo dì Asanga. [...]
Nagarjuna nega decisamente qualsiasi forma di nichilismo. E' ovvio
che si può usare il termine se se ne è conordato portata e
significato ma lo trovo pericolosamente appesantito dalla tradizione
filosofica europea. E' vero che i proponenti delle scuole filosofiche
indiane possono ben essere denominati sunyavadin ma vuoto significa
solo l'assenza di certi modi di esistenza dei fenomeni e della mente,
senza assolutamente negare il reale. Tanto è vero che la scuola di
Nagarjuna è più correttamente denominata Madhyamaka ovvero 'via di
mezzo'. E la denominazione deriva dal fatto che viene respinto sia il
nichilismo (che gli indiani conoscevano benissimo, con elaborazioni
di pensiero non tanto lontane dalle nostre) sia appunto la sostanza,
che nel lessico tibetano va sotto il nome di 'eternalismo' o almeno
viene resa in inglese così e quindi anche in italiano.
In grandissima sintesi mente e fenomeni esistono, nel senso che
possono produrre effetti; ma non esistono nel modo che si è
normalmente portati a credere se pure è incastrato nel nostro
'hardware'-mente.
In questo modo vengono evitati i due estremi di eternalismo e
nichilismo. La realtà viene affermata e riconosciuta esistere, ma la
mente, se non allenata, crede che i fenomeni abbiano una sostanza.
Nagarjuna dice (credo!) che dall'interdipendenza tra le
componenti-parti del fenomeno, la nostra mente imputa l'etichetta che
dà il nome al fenomeno. Insostanziale ma perfettamente reale.
Esempio banale, un istante di tempo. Se sottoposto all'analisi della
Madhyamaka si 'scopre' che ha senso solo rispetto a un istante
precedente e uno successivo, la coscienza che lo sperimenta e così
via. Sulla base dell'interdipendenza tra le parti, alla mente appare
quel certo ente o fenomeno. Ma appare come se fosse in un certo senso
isolato, in quanto dotato di sostanza. Scopo di tutta la filosofia
buddhista è smontare questo assenso inconscio a modi di esistere che
in realtà non esistono. Ma solo i modi di esistere, non le cose.
nell'estremo oriente. Essi han dato vita alla scuola dei Nichilisti
(sunyavadins = da sunya, vuoto) che in qualche modo ripercorre la
stessa via battuta dai Sautrantika (7.27) ma con risultati
metafisici ben diversi. Per i Sautrantika, tra la non esistenza
dell'oggetto e la non esistenza del soggetto stava la serie dei
fenomeni, che almeno essa era dotata d'esistenza, sia pure ridotta
all'istante in cui la serie fenomenica via via si condensa per
subito scomparire.
1) Per fugare dubbi sulla identificazione vuoto <-> nichilismo basta
cercare con google 'misconceptions about buddhist emptiness', ci sono
molti riferimenti. Uno è questo: A. Berzin è uno dei traduttori del
Dalai Lama e la tradizione esegetica tibetana è quella rimasta più
fedele al pensiero indiano, ma anche nei testi cinesi non si si
allontana dal concetto.
https://studybuddhism.com/en/tibetan-buddhism/about-buddhism/misconceptions-about-buddhism/common-misunderstandings-about-buddhism
Un altro testo interessante, a mia conoscenza tra i pochissimi a
gettare un ponte su dati concreti è quello di Jan Westerhoff,
'Nagarjuna's Madhyamaka: A Philosophical Introduction'. Mi è arrivato
qualche settimana fa e mi pare un capolavoro. Ho parecchia roba su
queste cose viste dall'interno ma è la prima volta che leggo una
trattazione sintetica fatta da un filosofo occidentale che mi pare
non tradire il senso.
Non sto ovviamente confutando la tua fonte, dico solo che gli studi
sono andati avanti e ora si ha un panorama forse più completo.
2) Il modo in cui è esposta la scuola Sautrantika è interessante. In
sostanza, come tutte le quattro scuole di cui quella di Nagarjuna è
la più elevata, tratta molto a fondo la negazione della sostanza. In
questo caso la sostanza (per come ho compreso la Sautrantika) è
qualcosa di simile all'idea platonica anche se con differenze
notevoli. L'errore da cui siamo affetti in modo innato è che alla
coscienza appare l'idea dell'oggetto, per esempio il concetto-idea di
tavolo, ma non notiamo che quel particolare tavolo che abbiamo
davanti cambia continuamente. Lo sappiamo dalla chimica e dalla
fisica ma non costituisce percezione diretta mentale. Mi fermo qui
perché è un ramo collaterale della discussione. L'ho accennato solo
per evidenziare che una volta conosciuto il contesto le parole del
professore hanno un senso, ma se non lo si conosce sono sicuro che si
va a pensare a cose del tutto diverse.
E ora Rovelli. La mia perplessità sulla sua ricezione di Nagarjuna è
che mi pare radicalizzi l'importanza delle relazioni di
interdipendenza attribuendola indirettamente o implicitamente a
Nagarjuna. Ma per la scuola Madhyamaka deve esserci 'qualcosa' che fa
da base di designazione per il fenomeno. Basta cercare con google
'settuplice ragionamento chandrakirti carro' (es.
https://archive.org/details/7-fold-reasoning-analysis-of-the-chariot)
per capire cosa intendo. Nel caso della sua misura sulle particelle,
non credo nemmeno abbia senso invocare la filosofia. A quella scala
dimensionale non abbiamo alcuna rappresentazione dell'ente, che di
fatto 'è' la sua descrizione matematica. Nello spirito di Nagarjuna
potrei forse dire che la particella viene a esistere perché dipende
da altro, altre particelle, la sua descrizione matematica dato che
possiamo conoscerla solo tramite questa, le misure etc. Pur tutte
queste cose prive di esistenza indipendente (per dirla con i loro
termini), nondimento esistono. Esistono solo interdipendentemente ma
esistono.
Addirittura la Madhyamaka è divisa dai commentatori tibetani in due
sottoscuole. La meno radicale ammette che il fenomeno deve avere una
specie di 'input' oggettivo per la coscienza, e questo 'input' è di
fatto una sostanza. Viene però specificato che esiste inseparabile
dal fenomeno quindi essendo impermanente non è una sostanza vera e
propria come suppongo la materia del demiurgo del pensiero greco. Ma
anche la suddivisione superiore riconosce che per potersi parlare di
interazioni deve esserci qualcosa che ne faccia da base. Per questo
(cito a memoria) scrivere che grazie a Nagarjuna ci si può
concentrare solo sulle relazioni, a me desta qualche perplessità.
Ciao "pcf ansiagorod". Ho letto, al tuo primo link, dei falsi
stereotipi circa il buddismo. Non potendo mettere in dubbio
l'autorevolezza dell'autore (non ho fatto ricerche approfondite su
argomenti cosi' lontani dai miei interessi intellettuali; mi bastano
ed avanzano le problematiche del pensiero occidentale:-)), mi sono
chiesto tuttavia di quale buddhismo si sta parlando, avvertendone
un'interpretazione venata quasi da un certo "edonismo", difficile da
trovare almeno in quello originario riferibile direttamente alle
parole di Gotamo Siddharta sulle "Quattro auguste verita'", tenuto a
Benares(*). Vero e' che Buddha non ha scritto nulla e la sua vita ci
e' stata tramandata dai discepoli (che nel corso del tempo hanno dato
origine a varie "correnti"), in racconti agiografici in cui e'
difficile discernere i dati sicuramente storici. Cosi' e' anche il
discorso che ho riportato in nota, ma che dagli studiosi e' giudicato
di massima verosimiglianza.
Comunque io mi tengo la perplessita' dell'incompetente e possiamo
mettere tutto questo tra parentesi, per tornare piu' al tema specifico
del tuo post, che riguarda piu' in particolare che cosa il fisico
Rovelli ha recepito della filosofia indiana, in funzione della sua
soluzione "relazionale" degli enigmi posti dalla meccanica
quantistica. Hai detto di non possedere il suo "Helgoland"?(**). Ne ho
copia digitale, per cui mi e' facile cercare le citazioni che possono
interessarti e che vado a riportare. Le numero, per meglio
distinguerle da qualche mio eventuale breve commento.
1)<<All'ennesima volta che mi sono sentito chiedere: «Hai letto
Nagarjuna?», ho deciso di leggerlo. È un testo poco noto in Occidente
ma non è un testo minore: è uno dei capisaldi della filosofia indiana,
ed è solo per la mia penosa ignoranza del pensiero asiatico,
caratteristica di un occidentale, che non lo conoscevo. Si intitola
con una di queste impossibili parole indiane: Mùlamadhyamakakàiikà,
tradotta in molti modi, per esempio Le stanze del cammino di mezzo.
Uno letto in una traduzione commentata di un filosofo analitico
americano."3 Mi ha lasciato un'impressione profonda.
Nàgàrjuna è vissuto nel II secolo. Sul suo testo esistono innumerevoli
commenti e si sono stratificate interpretazioni ed esegesi, ^interesse
dei testi così antichi è proprio la stratificazione di letture che ce
li consegna arricchiti di livelli di significato. Quello che ci
interessa davvero dei testi antichi non è cosa volesse inizialmente
dire l'autore: è quello che il testo può suggerire oggi a noi.
La tesi centrale del libro di Nàgàrjuna è semplicemente che non ci
sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro. La
risonanza con la meccanica quantistica è immediata. Ovviamente
Nàgàrjuna non sapeva e non poteva sapere nulla di quanti, non è questo
il punto. Il punto è che i filosofi ci offrono modi originali di
pensare il mondo, e noi possiamo servircene se ci risultano utili. La
prospettiva che offre Nàgàrjuna ci rende forse un po' più facile
pensare il mondo dei quanti.
2)<<Il fascino del pensiero di Nagarjuna va al di là del le questioni
della fisica moderna. La sua prospettiva ha qualcosa di vertiginoso.
Risuona con il meglio di tanta filosofia occidentale, classica e
recente. Con lo scetticismo radicale di Hume, con lo smascheramento
delle domande mal poste che ci permette il pensiero di Wittgenstein.
Ma Nagarjuna mi sembra non cadere nella trappola in cui si impiglia
tanta filosofia postulando punti di partenza che finiscono sempre per
rivelarsi poco convincenti a lungo andare. Parla della realtà, della
sua complessità e della sua comprensibilità, ma ci difende dalla
trappola concettuale di volerne trovare un fondamento ultimo.>>
3)<<Io non sono un filosofo, sono un fisico: un vile meccanico. A
questo vile meccanico, che si occupa di quanti, Nagarjuna insegna che
posso pensare le manifestazioni degli oggetti fisici senza dovermi
chiedere cosa sia l'oggetto fisico indipendentemente dalle sue
manifestazioni.
Ma la vacuità di Nagarjuna nutre anche un atteggiamento etico
profondamente rasserenante: comprendere che non esistiamo come entità
autonome ci aiuta a liberarci dall'attaccamento e dalla sofferenza.
Proprio per la sua impermanenza, per l'assenza di ogni Assoluto, la
vita ha senso ed è preziosa.>> [Questa l'hai in parte riportata tu]
Questi sono i piu' diretti riferimenti al pensiero di Nagarjuna. Ma
cio' che piu' importa e' la funzione che essi hanno, che e' quella che
hai presente e cui ho anch'io accennato: la sua interpretazione
*relazionale* dei fenomeni quantistici, e che nel suo nucleo piu'
logico-teoretico ha il suo perno nel concetto di "vuoto", inteso come
vuoto *di sostanza*, cioe' della sostanza come oggettivita' ontologica
della realta'. Non e' il caso che mi dilunghi con citazioni anche su
questo, che dal punto di vista della fisica dei quanti saprai meglio
di me. Piuttosto: tu ritieni che Rovelli abbia estremizzato questa
impostazione relazionale. Non solo, a mio avviso, e' andato
"filosoficamente" oltre dovuto, ma ha anche fatto sua questa
4)<<Di solito poi osserviamo il mondo a grandi scale, quindi non ne
vediamo la granularità. Vediamo valori mediati fra tantissime piccole
variabili. Non vediamo singole molecole: vediamo l'intero gatto.
Quando ci sono tantissime variabili, le fluttuazioni diventano
irrilevanti, la probabilità si avvicina alla certezza.7* I miliardi di
variabili discontinue e punteggiate dell'agitato e fluttuante mondo
dei quanti si riducono alle poche variabili continue e ben definite
della nostra esperienza quotidiana. Alla nostra scala il mondo è come
un oceano agitato dalle onde osservato dalla luna: una piatta
superficie di una biglia immobile.
La nostra esperienza quotidiana quindi è compatibile con il mondo
quantlstico: la teoria dei quanti comprende la meccanica classica, e
comprende la nostra usuale visione del mondo, come approssimazioni. Le
comprende come un uomo che vede bene può comprendere l'esperienza di
un miope che non vede il ribollire in una pentola sul fuoco. Ma alla
scala delle molecole, il netto spigolo di un coltello d'acciaio è
fluttuante e impreciso come il bordo di un oceano in tempesta che si
sfrangia su una spiaggia di sabbia bianca.
La solidità della visione classica del mondo non è che nostra miopia.
Le certezze della fisica classica sono solo probabilità. L’immagine
del mondo nitida e solida della vecchia fisica è un'illusione.>>
5)<<Al di là della fisica, il pensiero relazionale lo si ritrova in
tutte le scienze. In biologia le caratteristiche dei sistemi viventi
sono comprensibili in relazione all'ambiente, formato da altri esseri
viventi. In chimica le proprietà degli elementi sono il modo in cui
questi interagiscono con altri elementi. In economia si parla di
relazioni economiche. In psicologia la personalità individuale esiste
in un contesto relazionale. In questi e tanti altri casi capiamo le
cose (vita biologica, vita psichica, composti chimici...) nel loro
essere in relazione ad altre cose.
Nella storia della filosofia occidentale, la critica alla nozione di
«entità» presa come fondamento della realtà è ricorrente. La si
ritrova nelle tradizioni filosofiche più disparate, dal «tutto scorre»
di Gradito, fino alla contemporanea metafisica delle relazioni. Solo
nell'ultimo anno sono usciti libri di filosofi come "Un approccio
fondale alla metafisica delle prospettive" e "Il relativismo dei punti
di vista: un nuovo approccio epistemologico basato sul concetto di
punto di vista". Nella filosofia analitica, il "realismo strutturale"
è basato sull'idea che le relazioni vengano prima degli oggetti: per
Ladyman, ad esempio, il modo migliore di comprendere il mondo è
pensarlo come un insieme di relazioni senza oggetti che siano in
relazione. In una prospettiva neokantiana Michel Bitbol ha scritto
"Dall'interno del mondo: per una filosofia e una scienza delle
relazioni". In Italia, Laura Candiotto ha pubblicato con Giacomo
Pezzano un libro intitolato Filosofia delle relazioni.>>
Non mi dilungo in una critica delle posizioni filosofiche che qui
Rovelli cita, che sarebbe troppo specialistica. Mi accontento solo di
accennare al fatto che l'estremizzazione del concetto di "vuoto di
sostanza" logicamente porta, per un procedimento all'infinito,
all'idealismo assoluto; e da poco esperto di meccanica quantistica mi
permetto di preferirgli la prundenza e la saggezza tutta occidentale
<<Non ho fatto mistero della mia convinzione che la soluzione dei
rompicapo della teoria quantistica si potrà avere soltanto quando
avremo trovato una teoria migliorata [...]. Sappiamo che, al livello
submicroscopico, dominano incontrastate le leggi quantistiche, ma al
livello delle palle da tennis vale la fisica classica. Fra questi due
li¬velli abbiamo bisogno secondo me di capire la nuova legge, per
ve¬dere in che modo il mondo quantistico si fonda con quello classico.
Io credo, inoltre, che avremo bisogno di questa legge se dovremo mai
capire la mente!>> (Penrose, "I vestiti nuovi dell'imperatore")
Scusate la lunghezza.
Cosa dovrei dire io?:-)
Un saluto,
Loris
(*) <<Questa, o monaci, è l'augusta verità circa il dolore: nascita è
dolore, vecchiezza è dolore, malattia è dolore; dolore è l'unione con
ciò che dispiace, dolore è la separazione da ciò che piace, non
ottenere ciò che si desidera è dolore; in breve, i cinque diversi
aggregati che determinano l'attaccamento all'esistenza sono dolore.
Questa, o monaci, è l'augusta verità circa l'origine del dolore: è la
sete che conduce di rinascita in rinascita, che si associa con la
gioia e il desiderio e trova qua e là il suo appagamento, cioè la sete
di piaceri sessuali, la sete di rinascita, la sete di annichilimento.
l’eliminazione di questa sete mediante il totale annientamento della
passione; abbandonarla, privarsi di lei, sciogliersi da lei, non
concederle alcun luogo.
Questa, o monaci, è l'augusta verità circa la via che conduce
all'estinzione del dolore; è questa la santa via composta di otto
parti. Essa ha questi nomi: retto modo di pensare, retta decisione,
retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto ricordo,
retta concentrazione.>>
(**) Breve saggio divulgativo, piacevole da leggere, non disdegna di
scendere nell'aneddotico (la famiglia molto "allargata" del brillante
Heisenberg, le amanti di Schroedinger, l' "arrogante" Pauli, le
vicissitudini del comunista Bohm...), ma contiene anche numerose note
e riferimenti impegnativi, per "addetti ai lavori".
istante.
fisiche apposite. Per una semplice ragione: ovunque si posi
l'attenzione, nel micro o nel macro, questa è semplicemente l'evidenza.
meccanicamente gestibile ciò che non può esserlo: ciò che è reale.