Discussione:
Il panpsichismo: la soluzione più immediata al problema della coscienza
(troppo vecchio per rispondere)
LordBeotian
2008-04-07 07:46:15 UTC
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Nota preliminare: per "coscienza" nel seguito intendo l' esperienza
soggettiva vista dall'interno del soggetto. Non va confusa con
l'autocoscienza (la coscienza di sè) ed è qualcosa di comune a uomini e
animali.

La coscienza pone un problema alla nostra conoscenza del mondo, un problema
apparentemente al di fuori del dominio della scienza.

Noi sperimentiamo la coscienza in noi e inferiamo l'esistenza di una
coscienza nelle altre persone e negli animali a noi più simili sulla base di
analogie fisiche. Sulla base delle nostre conoscenze sappiamo che la
coscienza che sperimentiamo è collegata con il cervello.

Sappiamo anche che il mondo è governato da leggi fisiche deterministiche e
(al livello subatomico) probabilistiche e presumiamo che queste leggi
(integrate tra loro) siano sufficienti a rendere conto di tutto ciò che
vediamo nel mondo. Queste leggi tuttavia non parlano mai di "coscienze",
descrivono in termini matematici quelli che sono i comportamenti che ci
aspettiamo di vedere con i nostri sensi, e i nostri sensi non vedono le
coscienze.

Ci ritroviamo quindi con due possibili descrizioni del cervello: una
dall'interno (la coscienza, ciò che "prova") ed una dall'esterno (le leggi
fisiche che determinano quel particolare comportamento). All'interno c'è un
soggetto che prova senzazioni ed emozioni e prende decisioni di muovere
questa o quella parte del corpo nel modo che presume lo faccia stare meglio.
All'esterno c'è una rete di comunicazioni elettriche che ricevono segnali in
input e producono movimenti corporei in output. Il risultato è comunque lo
stesso: il corpo si comporta in modo da preservare un certo stato di attività
e di riprodursi.

Ora uno si può domandare: a che serve che ci sia un "interno", che ci sia
qualcuno che sperimenta sensazioni se tanto le leggi fisiche bastano e
avanzano?

La risposta che voglio esaminare qui è la seguente:
la proprietà fondamentale della materia è la coscienza e le leggi fisiche
sono solamente proprietà emergenti dal comportamento statistico di tanti
comportamenti prodotti da tante coscienze "elementari"

Più precisamente l'ipotesi che faccio è la seguente:
1) esistono "unità elementari" di materia che ricevono sensazioni e prendono
decisioni esattamente come facciamo noi: le sensazioni sono prodotte dalla
materia circostante e le decisioni portano ad un mutamento fisico nello
"stato" dell'unità elementare
2) questo comportamento su larga scala da' luogo a dinamiche "di gruppo" da
cui emergono le leggi fisiche deterministiche a noi note
3) "noi" siamo unità elementari di materia che riceviamo sensazioni molto
sofisticate grazie all'interazione con un sistema molto complesso di unità di
materia, le nostre "decisioni" di mutare il nostro "stato fisico" inoltre
innescano una catena di reazioni che hanno come risultato finale quello di
farci muovere, richiamare ricordi, fare calcoli.

Qui però sorgono alcuni problemi:

1) Cosa costituisce una "unità elementare di materia" nel senso suddetto? Una
particella elementare? Un sistema quantistico "entangled"? Dobbiamo dunque
assumere che la meccanica quantistica sia rilevante nel funzionamento del
cervello (vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Quantum_mind)? Oppure dobbiamo
accettare l'ipotesi del "cervello olografico" in cui ogni parte condivide
l'informazione del tutto (vedi
http://en.wikipedia.org/wiki/Holonomic_brain_theory)?

2) I principali motori della mente sembrano essere la "piacevolezza" o la
"spiacevolezza" delle sensazioni. Alla domanda "perchè la natura non si
limita a far muovere un organismo in modo utile in accordo con le leggi
fisiche ma gli fa provare delle sensazioni piacevoli o spiacevoli?" la
risposta può essere che è esattamente questo il modo in cui le leggi fisiche
producono il movimento, cioè tramite sensazioni piacevoli e spiacevoli. Ma la
faccenda posta così non è del tutto chiara: noi uomini siamo dotati di
memoria ed elaborazione per cui possiamo "calcolare" il comportamento che è
più appropriato per stare meglio e decidere cosa fare su tale base. Ma una
unità di materia - che non può disporre di una rete di connessioni che
elabori un tale calcolo - come si presume che dovrebbe reagire a sensazioni
piacevoli e spiacevoli? In che modo dovrebbe mutare o no il proprio "stato"?

3) Quali meccanismi fisici dovrebbero essere alla base della piacevolezza o
spiacevolezza di una sensazione? Perdita/guadagno di energia? Presenza di
campi di forze? C'è una differenza sostanziale tra i meccanismi fisici che
producono sensazioni piacevoli o spiacevoli nell'uomo che possa essere
generalizzata anche ad altri casi?

Che ne pensate?
jesko
2008-04-07 11:51:05 UTC
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On 7 Apr, 09:46, "LordBeotian" <***@yahoo.it> wrote:

Penso che non si deve confondere quelli che sono i processi
psichici con quelle che sono le dinamiche del mondo naturale.
Inoltre la coscienza non è altro dall'autocoscienza, tanto da poter
stabilire
una differenza tra l'uomo e gli animali che non sarebbero dotati di
auto-coscienza.
Inoltre voler ridurre la coscienza alla composizione di singole unità
di materia cosciente
non aiuta a comprendere la coscienza che è proprio l'unione di una
tale totalità di individui.
Lo stesso discorso vale per il rapporto tra leggi fisiche e coscienza.
Le leggi fisiche non fanno altro che trovare le costanti che occorrono
tra sistemi di corpi
e in generale si accontentano di considerare i corpi come unità
matematiche puntiformi.
Il problema della coscienza è invece quello di stabilire in che
rapporto la Mente sta con se stessa,
se la Mente da sola è sufficiente o serve qualcosa d'altro.

Ciao
La zanzara 76
2008-04-08 15:25:16 UTC
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Post by LordBeotian
1) esistono "unità elementari" di materia che ricevono sensazioni e prendono
decisioni esattamente come facciamo noi: le sensazioni sono prodotte dalla
materia circostante e le decisioni portano ad un mutamento fisico nello
"stato" dell'unità elementare
Se l'unità elementare di materia, ricevendo sensazioni dall'esterno,
muta di stato, allora è un sistema complesso: quindi non è più una
unità elementare, perciò avrebbe delle parti in se stessa, le quali
potrebbero avere anch'esse coscienza, e così si dividerebbe la materia
all'infinito.
Post by LordBeotian
2) questo comportamento su larga scala da' luogo a dinamiche "di gruppo" da
cui emergono le leggi fisiche deterministiche a noi note
Se tali unità di materia sono capaci di prendere decisioni, allora non
potrebbero conseguire delle leggi deterministiche, ovvero sarebbe più
probabile il caos, perché ogni unità reagirebbe alle sensazioni
esterne in modo indipendente e diversificato.
Post by LordBeotian
3) "noi" siamo unità elementari di materia che riceviamo sensazioni molto
sofisticate grazie all'interazione con un sistema molto complesso di unità di
materia, le nostre "decisioni" di mutare il nostro "stato fisico" inoltre
innescano una catena di reazioni che hanno come risultato finale quello di
farci muovere, richiamare ricordi, fare calcoli.
Qualora le cose stessero così, il problema sarebbe quello di spiegare
perché l'unità elementare che costituisce la nostra coscienza sia
capace di dominare tutte le altre che costituiscono il nostro corpo, o
come sia capace di avere una coscienza unitaria se è in rapporto con
tante unità coscienti.
Post by LordBeotian
2) I principali motori della mente sembrano essere la "piacevolezza" o la
"spiacevolezza" delle sensazioni. Alla domanda "perchè la natura non si
limita a far muovere un organismo in modo utile in accordo con le leggi
fisiche ma gli fa provare delle sensazioni piacevoli o spiacevoli?" la
risposta può essere che è esattamente questo il modo in cui le leggi fisiche
producono il movimento, cioè tramite sensazioni piacevoli e spiacevoli. Ma la
faccenda posta così non è del tutto chiara: noi uomini siamo dotati di
memoria ed elaborazione per cui possiamo "calcolare" il comportamento che è
più appropriato per stare meglio e decidere cosa fare su tale base. Ma una
unità di materia - che non può disporre di una rete di connessioni che
elabori un tale calcolo - come si presume che dovrebbe reagire a sensazioni
piacevoli e spiacevoli? In che modo dovrebbe mutare o no il proprio "stato"?
Credo che le sensazioni di piacevolezza e spiacevolezza derivino da
fattori evolutivi: ovvero esse si sono formate proprio per guidare
istintivamente il nostro comportamento nelle varie situazioni della
vita, senza dover ogni volta fare calcoli complessi. Ma non penso che
si possano attribuire a tali unità di materia, perché manca il fattore
evolutivo.

---
Saluti.
LordBeotian
2008-04-08 19:13:26 UTC
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Post by La zanzara 76
Post by LordBeotian
1) esistono "unità elementari" di materia che ricevono sensazioni e prendono
decisioni esattamente come facciamo noi: le sensazioni sono prodotte dalla
materia circostante e le decisioni portano ad un mutamento fisico nello
"stato" dell'unità elementare
Se l'unità elementare di materia, ricevendo sensazioni dall'esterno,
muta di stato, allora è un sistema complesso: quindi non è più una
unità elementare, perciò avrebbe delle parti in se stessa, le quali
potrebbero avere anch'esse coscienza, e così si dividerebbe la materia
all'infinito.
Perchè dici che è un sistema complesso?
Puoi considerare ad esempio un fotone (un sistema semplice) e ipotizzare che
quando questo muta il suo stato nello spazio egli abbia ricevuto una
"sensazione" e abbia risposto "decidendo" di cambiare stato.
Post by La zanzara 76
Post by LordBeotian
2) questo comportamento su larga scala da' luogo a dinamiche "di gruppo" da
cui emergono le leggi fisiche deterministiche a noi note
Se tali unità di materia sono capaci di prendere decisioni, allora non
potrebbero conseguire delle leggi deterministiche, ovvero sarebbe più
probabile il caos, perché ogni unità reagirebbe alle sensazioni
esterne in modo indipendente e diversificato.
Ma sappiamo che le leggi deterministiche della fisica classica emergono dalle
leggi non deterministiche della meccanica quantistica.
Post by La zanzara 76
Post by LordBeotian
3) "noi" siamo unità elementari di materia che riceviamo sensazioni molto
sofisticate grazie all'interazione con un sistema molto complesso di unità di
materia, le nostre "decisioni" di mutare il nostro "stato fisico" inoltre
innescano una catena di reazioni che hanno come risultato finale quello di
farci muovere, richiamare ricordi, fare calcoli.
Qualora le cose stessero così, il problema sarebbe quello di spiegare
perché l'unità elementare che costituisce la nostra coscienza sia
capace di dominare tutte le altre che costituiscono il nostro corpo, o
come sia capace di avere una coscienza unitaria se è in rapporto con
tante unità coscienti.
Non ha nessun "dominio" di fatto: lei si limita a ricevere sensazioni e
reagire di conseguenza esattamente come tutte le altre unità.
Quanto alla coscienza unitaria: possiamo immaginare che vi siano in realtà
molte coscienze, ma non tutte hanno lo steso "ruolo", alcune ad esempio hanno
solo il ruolo di portare alla coscienza "decisionale" delle informazioni
provenienti dagli organi di senso.
Post by La zanzara 76
Post by LordBeotian
2) I principali motori della mente sembrano essere la "piacevolezza" o la
"spiacevolezza" delle sensazioni. Alla domanda "perchè la natura non si
limita a far muovere un organismo in modo utile in accordo con le leggi
fisiche ma gli fa provare delle sensazioni piacevoli o spiacevoli?" la
risposta può essere che è esattamente questo il modo in cui le leggi fisiche
producono il movimento, cioè tramite sensazioni piacevoli e spiacevoli. Ma la
faccenda posta così non è del tutto chiara: noi uomini siamo dotati di
memoria ed elaborazione per cui possiamo "calcolare" il comportamento che è
più appropriato per stare meglio e decidere cosa fare su tale base. Ma una
unità di materia - che non può disporre di una rete di connessioni che
elabori un tale calcolo - come si presume che dovrebbe reagire a sensazioni
piacevoli e spiacevoli? In che modo dovrebbe mutare o no il proprio "stato"?
Credo che le sensazioni di piacevolezza e spiacevolezza derivino da
fattori evolutivi: ovvero esse si sono formate proprio per guidare
istintivamente il nostro comportamento nelle varie situazioni della
vita, senza dover ogni volta fare calcoli complessi. Ma non penso che
si possano attribuire a tali unità di materia, perché manca il fattore
evolutivo.
E' ragionevole quello che dici, tuttavia la selezione naturale può sia
"elaborare cose sofisticate" che torino utili sia sfruttare cose semplici già
presenti che comunque sono utili... nel caso specifico non è chiaro quale
delle due ipotesi sia quella valida. Da un lato non si capisce come sia
possibile produrre la "piacevolezza" sommando sensazioni elementari che siano
"neutre", dall'altro non si capisce quale ruolo dovrebbe giocare la
"piacevolezza" nel comportamento di una particella che non può elaborare
informazione in modo complesso.

Per una particella fisica è ragionevole assumere che si muova in modo da
minimizzare un certo potenziale ma quello che conta è solo la differenza di
potenziale tra due punti, non il valore. In qualche modo questo è vero anche
per un uomo: uno stesso comportamento può essere prodotto sulla base di una
differenza di piacevolezza tra lo stato attuale e un traguardo futuro, a
prescindere dal valore assoluto del piacere, per esempio si può correre a
tutta velocità per andare incontro alla persona che amiamo oppure per
scappare da un pericolo. Il risultato è lo stesso. Però noi etichetteremmo il
primo episodio come piacevole e il secondo come spiacevole... E queste
etichette hanno un ruolo importante nella nostra memoria per il nostro
comportamento futuro (ma non l'episodio specifico). Quindi sembra che per
l'uomo abbia importanza anche l'informazione sul "valore assoluto" della
piacevolezza delle situazioni mentre sembra del tutto arbitrario dover
assegnare una piacevolezza positiva o negativa per una particella che
comunque non ha memoria.

Ciao!!
La zanzara 76
2008-04-09 16:27:19 UTC
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Post by LordBeotian
Post by La zanzara 76
Credo che le sensazioni di piacevolezza e spiacevolezza derivino da
fattori evolutivi: ovvero esse si sono formate proprio per guidare
istintivamente il nostro comportamento nelle varie situazioni della
vita, senza dover ogni volta fare calcoli complessi. Ma non penso che
si possano attribuire a tali unità di materia, perché manca il fattore
evolutivo.
E' ragionevole quello che dici, tuttavia la selezione naturale può sia
"elaborare cose sofisticate" che torino utili sia sfruttare cose semplici già
presenti che comunque sono utili... nel caso specifico non è chiaro quale
delle due ipotesi sia quella valida. Da un lato non si capisce come sia
possibile produrre la "piacevolezza" sommando sensazioni elementari che siano
"neutre", dall'altro non si capisce quale ruolo dovrebbe giocare la
"piacevolezza" nel comportamento di una particella che non può elaborare
informazione in modo complesso.
Penso che un passo avanti, verso la soluzione del problema della
sensazione di piacevolezza, sperimentata dalla nostra coscienza,
consista nell'ipotizzare che la coscienza abbia la capacità di
interpretare le informazioni che provengono dall'esterno. Quindi, è
come se possedesse un "codice interpretativo" con cui "traduce" le
sensazioni neutre in piacevolezza o spiacevolezza.

Questo implicherebbe che la coscienza sia autocoscienza: infatti se la
coscienza recepisce le sensazioni esterne e le "interpreta"
assegnandone un senso (piacevole o spiacevole), allora deve esserci un
altro momento della coscienza che sperimenta immediatamente
piacevolezza o spiacevolezza e decide in base a queste
"interpretazioni".

Ne consegue che la coscienza ha almeno due momenti: la ricezione di
sensazioni e la loro interpretazione, e la presa di coscienza di tali
interpretazioni e la decisione in base ad esse. Quindi non sarebbe più
un entità semplice, anche se non è composta di parti fisiche.

Inoltre, il codice interpretativo utilizzato deve pur provenire da
qualche parte: quindi o si ipotizza una divinità che ha creato la
coscienza con tutto il suo codice, o si ipotizza che lo abbia appreso
con l'evoluzione.

In conclusione direi che la coscienza umana per provare tali
sensazioni di piacevolezza o di spiacevolezza deve avere una struttura
così complessa che non potrebbe mai essere paragonabile con la
coscienza di cui sarebbero dotate le particelle elementari. Forse
potremmo dire che le particelle elementari siano più degli elaboratori
di informazioni, come dei computer, ma non sarebbero paragonabili a
delle coscienza mancando il momento interpretativo interiore che
traduce le informazioni in piacevolezza. Infatti le particelle
reagirebbero come automi, senza dover necessariamente vivere delle
sensazioni di piacevolezza. In tal modo non si avrebbe un panpsichismo
perché la struttura della coscienza umana non sarebbe attribuibile a
particelle elementari.

---
Saluti.
Davide Pioggia
2008-04-09 17:01:41 UTC
Permalink
[...]
Se prendi una botta in testa e stai sei mesi in coma profondo, durante il
coma la tua attività cerebrale si riduce ai minimi termini, scompaiono le
onde che caratterizzano solitamente lo stato di veglia, e quando ti risvegli
non ricordi assolutamente nulla di ciò che è avvenuto attorno a te durante
quei sei mesi, né ricordi di aver pensato e di essere stato cosciente.

Dunque i casi sono due:

1) o ammetti che il pensiero cosciente è una proprietà che possiede solo
un cervello integro nel pieno delle sue funzioni (le quali sono talmente
sofisticate e dispendiose che nesssun cervello è in grado di mantenerle per
più di un giorno o due senza piombare in fasi di sonno profondo, nelle quali
la coscienza viene a mancare);

2) oppure ammetti che anche il cervello che dorme di sonno profondo o che
è addirittura danneggiato (fino al limite di un cervello mangiato dai vermi
o magari già ridotto alle sue molecole costituenti, e così pure qualunque
altra porzione di materia), che anche questo cervello - dicevo - implementi
una forma di pensiero cosciente, anche se questo pensiero cosciente non
riesce a "comunicare" in alcun modo con il pensiero cosciente dello stesso
cervello "da sveglio".

L'ipotesi panpsichista è ovviamente la seconda.

A te forse sembrerà di aver risolto i problemi concettuali legati alla
"emergenza del pensiero", ma in realtà hai solo spostato il problema
giocando con le parole. Ora non abbiamo più un "cervello addormentato
che non pensa" e un "cervello sveglio che pensa", ma abbiamo un cervello
che può pensare in due forme diverse:

1) una forma di pensiero che è presente quando il cervello è in coma,
o fortemente danneggiato, o addirittura già magiato dai vermi;

2) una seconda forma di pensiero che invece sarebbe quella caratteristica
di un cervello integro, nel pieno delle sue funzioni, e "sveglio".

Due forme di pensiero tali che la prima non è accessibile in alcun modo
alla seconda. Come se fosse un ipotetico regno dei morti dal quale nessuno
è mai tornato per venircelo a raccontare.

Ma il problema resta: come fai a spiegare l'esistenza di due forme di
coscienza, e perché in certe condizioni (pienezza delle funzioni del
cervello eccetera) la prima forma di pensiero dovrebbe istantaneamente
cedere il passo alla seconda? Pensa a quando ti risvegli: se è buio pesto
non sai nemmeno quanto tempo è passato, però magari ricordi benissimo
l'ultima cosa che hai visto e pensato prima di addormentarti. Che cos'è
quella "scintilla" che accende la seconda forma di pensiero?

Non solo non risolvi nulla, ma sei costretto a ipotizzare che "si prova
qualcosa" ad essere persino un neurone, o una molecola, o un sasso.
Dài, tu davvero credi che "si prova qualcosa" ad essere un cadavere
mangiato dai vermi?

A me sembra che questa toppa sia molto peggio del buco.
--
Saluti.
D.
LordBeotian
2008-04-09 17:39:40 UTC
Permalink
Post by Davide Pioggia
Se prendi una botta in testa e stai sei mesi in coma profondo, durante il
coma la tua attività cerebrale si riduce ai minimi termini, scompaiono le
onde che caratterizzano solitamente lo stato di veglia, e quando ti risvegli
non ricordi assolutamente nulla di ciò che è avvenuto attorno a te durante
quei sei mesi, né ricordi di aver pensato e di essere stato cosciente.
Uè ciao, giusto te aspettavo :)

L' ipotesi è che quando stai in coma tu (che in realtà sei una unità
elementare di materia) percepisci "qualcosa" e "fai" anche qualcosa ma
comunque non cose "umane" e non cose che tu possa memorizzare perchè sei
sprovvisto della cooperazione dell'usuale attività cerebrale. Poi quando ti
risvegli hai ovviamente a disposizione solo le informazioni che sono state
immagazzinate nella memoria.
Post by Davide Pioggia
1) o ammetti che il pensiero cosciente è una proprietà che possiede solo
un cervello integro nel pieno delle sue funzioni (le quali sono talmente
sofisticate e dispendiose che nesssun cervello è in grado di mantenerle per
più di un giorno o due senza piombare in fasi di sonno profondo, nelle quali
la coscienza viene a mancare);
2) oppure ammetti che anche il cervello che dorme di sonno profondo o che
è addirittura danneggiato (fino al limite di un cervello mangiato dai vermi
o magari già ridotto alle sue molecole costituenti, e così pure qualunque
altra porzione di materia), che anche questo cervello - dicevo - implementi
una forma di pensiero cosciente, anche se questo pensiero cosciente non
riesce a "comunicare" in alcun modo con il pensiero cosciente dello stesso
cervello "da sveglio".
Non comunicano perchè non ci sono connessioni "mnemoniche" tra le due fasi.
Post by Davide Pioggia
L'ipotesi panpsichista è ovviamente la seconda.
A te forse sembrerà di aver risolto i problemi concettuali legati alla
"emergenza del pensiero", ma in realtà hai solo spostato il problema
giocando con le parole. Ora non abbiamo più un "cervello addormentato
che non pensa" e un "cervello sveglio che pensa", ma abbiamo un cervello
1) una forma di pensiero che è presente quando il cervello è in coma,
o fortemente danneggiato, o addirittura già magiato dai vermi;
2) una seconda forma di pensiero che invece sarebbe quella caratteristica
di un cervello integro, nel pieno delle sue funzioni, e "sveglio".
Due forme di pensiero tali che la prima non è accessibile in alcun modo
alla seconda. Come se fosse un ipotetico regno dei morti dal quale nessuno
è mai tornato per venircelo a raccontare.
Io non parlerei di "due forme" di pensiero: l'unica distinzione tra le due
fasi è che in una è attiva una "registrazione" e nell'altra no.
Post by Davide Pioggia
Ma il problema resta: come fai a spiegare l'esistenza di due forme di
coscienza, e perché in certe condizioni (pienezza delle funzioni del
cervello eccetera) la prima forma di pensiero dovrebbe istantaneamente
cedere il passo alla seconda?
Perchè entra in scena la "memorizzazione".
Post by Davide Pioggia
Pensa a quando ti risvegli: se è buio pesto
non sai nemmeno quanto tempo è passato, però magari ricordi benissimo
l'ultima cosa che hai visto e pensato prima di addormentarti. Che cos'è
quella "scintilla" che accende la seconda forma di pensiero?
Quella scintilla sono le altre particelle che hanno ripreso a collaborare
memorizzando e rendendo disponibile la memoria che prima non era disponibile.
Post by Davide Pioggia
Non solo non risolvi nulla, ma sei costretto a ipotizzare che "si prova
qualcosa" ad essere persino un neurone, o una molecola, o un sasso.
Dài, tu davvero credi che "si prova qualcosa" ad essere un cadavere
mangiato dai vermi?
A me sembra che questa toppa sia molto peggio del buco.
No no, io non dico che un intero corpo provi qualcosa, le esperienze
appartengono alle unità elementari di materia. Un sasso non prova niente ma i
pezzi di materia che lo compongono sì, e il sasso si mantiene strutturalmente
stabile grazie alle loro "decisioni".

Tra l'altro non ho l'esclusiva su questa idea: sembra che possa essere
ricondotta a Liebniz, e che recentemente sia vista con un certo interesse tra
gli accademici. Vedi questo articolo:
http://www.nytimes.com/2007/11/18/magazine/18wwln-lede-t.html per una
presentazione "panoramica".

Ciao!!
Davide Pioggia
2008-04-10 07:50:32 UTC
Permalink
Post by LordBeotian
L' ipotesi è che quando stai in coma tu (che in realtà sei una unità
elementare di materia) percepisci "qualcosa" e "fai" anche qualcosa ma
comunque non cose "umane" e non cose che tu possa memorizzare perchè sei
sprovvisto della cooperazione dell'usuale attività cerebrale. Poi quando
ti risvegli hai ovviamente a disposizione solo le informazioni che sono
state immagazzinate nella memoria.
'Sta cosa non mi è chiara.

Tanto per cominciare "io" sono la mia memoria. Se in questo momento fosse
possibile modificare le connessioni sinaptiche del mio cervello in modo tale
da sostituire tutti i miei ricordi con i tuoi, allora "io" diventerei "te".

Se questa posizione ti sembra eccessiva, e se ritieni che "io" sia qualcosa
di più della mia memoria, spero che tu sia disposto a riconoscere che la mia
memoria è un elemento fondamentale e imprescindibile della mia identità, per
cui se venisse a mancare totalmente la mia memoria "io" non sarei più "io".
D'altra parte se ti dicono che "tu" dopo la tua morte ti reincarnerai in
un'altra forma di vita perdendo ogni ricordo delle tue vite precedenti, non
credo che la cosa per "te" faccia una gran differenza rispetto al pensiero
che "tu" dopo la tua morte non ci sarai più.

Dunque c'è questa cosa, "io", che c'è quando il cervello è "sveglio" (o
comunque in una fase di sonno non troppo profondo, ma su questo ci sarebbe
da discutere), e che non c'è nel coma e nel sonno profondo. Qual è allora
quella "scintilla" che nel cervello "sveglio" fa sorgere il fenomeno della
"memoria" e fa comparire l'"io"?

In secondo luogo anche io, come altri che ti hanno risposto, non ho capito
in base a quale criterio attribuisci una "psiche" a certe unità di materia e
non ad altre. Una particella ha una psiche? E quale particella? Un protone?
E se salta fuori una teoria secondo la quale un protone è costituito da
quark improvvisamente dobbiamo smettere di pensare che il protone abbia
una psiche e che siano i quark ad averla? Oppure?

Inoltre questa cosa che dice "io" è una qualche porzione di materia dentro
al cervello? Quale? Un qualche particolare neurone? Un qualche circuito
neuronale? E perché questa porzione di materia in certi momenti accumula
"memoria" e in altri momenti no? Oppure è l'intero cervello a dire "io"?
E perché il cervello sì e il corpo no? E perché un sasso no? E un albero?

Guarda che i singoli neuroni e i singoli circuiti non sono mai
"addormentati". È il cervello ad essere "addormentato". Parimenti un singolo
atomo non ha una "temperatura", e non si può dire che sia "freddo"
o "caldo" o che si trovi allo stato solido, liquido o gassoso. È il sistema
macroscopico, descritto dal punto di vista termodinamico, ad avere una
temperatura ed a trovarsi nello stato solido, liquido o gassoso. Come
dicevo, il fatto di essere "addormentato" o "sveglio" o "in coma" è una
proprietà globale del cervello, non una proprietà locale. Anche quando il
cervello è "addormentato" i singoli neuroni continuano a funzionare nel
solito modo: quando ricevono una quantità di stimoli sufficienti, scaricano.
Un atomo posto in un reticolo cristallino o in gas è sempre lo stesso atomo,
e segue le stesse leggi fisiche: se sta nel reticolo è perché gli atomi che
lo circondano lo mantengono in una certa posizione, ma l'atomo continua
ad interagire con gli atomi che lo circondano nello stesso modo in cui
interagisce quando si trova in un gas. Cambiano le proprietà dello stato
collettivo, non quelle dei singoli elementi.

A tutte le domande che ti ho fatto fin qui, e che ti hanno fatto altri, si
può rispondere in un colpo solo ipotizzando che i "sistemi complessi"
(come è certamente il cervello) abbiano delle "proprietà emergenti"
e possano trovarsi in varie "fasi". Allora si capisce perché il cervello sì
e il neurone no, e il sasso no, e la montagna no. E si capisce anche perché
il cervello può essere sveglio e addormentato.

Certo, resta molto da fare per capire che cosa sia esattamente una
"proprietà emergente", come la si debba concepire per non incorrere in
delle difficoltà concettuali o in dei veri e propri paradossi, ma la strada
è quella. Anche Newton e Leibniz inizialmente diedero dei "differenziali"
delle definizioni concettualmente insoddisfacenti, di cui si fece ampiamente
beffe il vescovo Berkeley per cercare di dimostrare che il misticismo era
ben più ragionevole della matematica. Però già allora chiunque non avesse in
atto delle difese psicologiche su quello specifico problema si rendeva conto
benissimo che era nato il calcolo differenziale, e che c'erano semplicemente
delle difficoltà concettuali da superare. Tant'è che tutti impararono ben
presto a fare i conti, e quando secoli dopo quelle difficoltà concettuali
furono superate generazioni e generazioni di studenti di matematica e di
fisica avevano usato con profitto il calcolo differenziale, e magari qualche
ingegnere lo aveva anche usato per calcolare la statica di ponti che se ne
stavano in piedi nonostante le obiezioni filosofiche di Berkeley.

Qualunque scienziato che abbia un po' di occhio e intuito scientifico ha
oggi gli strumenti per rendersi conto che la coscienza è una proprietà
emergente di quel sistema complesso che è il cervello. E se lo sviluppo
scientifico e tecnologico non verrà prima arrestato da un collasso economico
o da un guerra mondiale termonucleare, un giorno si capirà quali sono le
proprietà minime che un sistema complesso deve possedere affinché da esso
possa emergere una coscienza. A quel punto ci troveremo nelle solite
condizioni: gli scienziati saranno capaci di fare una cosa sulla quale i
filosofi potranno sparare a raffica, tirando fuori un putiferio di paradossi
e contraddizioni, fin quasi a mostrare che ciò che è non può essere.

In tali condizioni non bisogna perdere la testa. Da una parte bisogna
continuare ad usare il proprio intuito scientifico per far procedere il know
how, dando poca importanza a quelle che Feynman definiva le «osservazioni
stupide» dei filosofi. Allo stesso tempo però può essere utile ascoltare ciò
che hanno da dire i filosofi, perché prendere coscienza di un problema
concettuale in seguito può rivelarsi determinante per elaborare nuovi
concetti che possono rivelarsi preziosi per lo sviluppo del know how nei
momenti di stallo. Pensa ad esempio ai famosi "paradossi" di Zenone sulla
impossibilità del moto eccetera. Se gli scienziati avessero dato troppa
importanza ai filosofi e si fossero fatti convincere fin da allora a
considerare il moto un fenomeno illusorio, oggi forse non esisterebbe la
meccanica. D'altra parte proprio dei problemi come quelli messi in evidenza
da Zenone hanno portato al concetto di "serie convergente", sicché noi oggi
siamo capaci di pensare una somma finita di infiniti termini positivi, cosa
che per gli scienziati di qualche secolo fa era inconcepibile.

Dunque bisogna prendere atto delle obiezioni dei filosofi, e metterle da
parte come problemi concettuali da risolvere prima o poi, magari più poi che
prima, anche perché a volte alcuni problemi concettuali si risolvono da sé
mentre procede lo sviluppo del know how. Ad esempio se si troverà il modo
di far emergere una coscienza da un sistema fisico, poi si potranno fare
degli esperimenti, da questi esperimenti si potranno trarre delle nuove
forme di consapevolezza, si potranno osservare stati di coscienza magari
prima sconosciuti, il modo di concepire la coscienza verrà profondamente
modificato, e magari un giorno ci si renderà conto che quello che fu un
grande problema concettuale non è più un problema.

Tu invece ti sei fatto talmente prendere dalle obiezioni dei filosofi al
concetto di proprietà emergente dei sistemi complessi da sprofondare nella
disperazione: anziché dare tempo al tempo ti sei ridotto a dare credito ad
una ipotesi che pone più problemi di quanti ne risolva, e - sopratutto - non
è di alcuna utilità per rispondere alla domanda che ci interessa più di ogni
altra: come si fa a realizzare un sistema che "pensa"? È questo che non
sappiamo fare, e quando lo sapremo fare le obiezioni dei filosofi avranno i
giorni contati. Prima facciamolo, poi magari discuteremo con calma su come
sia stato possibile fare ciò che i filosofi avevano dismostrato essere
necessariamente impossibile fare :-)
Post by LordBeotian
Tra l'altro non ho l'esclusiva su questa idea: sembra che possa essere
ricondotta a Liebniz, e che recentemente sia vista con un certo interesse
http://www.nytimes.com/2007/11/18/magazine/18wwln-lede-t.html
per una presentazione "panoramica".
Tutto il ragionamento alla fine si basa su 'sta roba qua:

«Now, Nagel reasoned, the properties of a complex system like the brain
don't just pop into existence from nowhere; they must derive from the
properties of that system's ultimate constituents.»

È la solita plurimillenaria asserzione dei filosofi metafisici eternauti.

Tu sei un matematico, sai bene che da un numero enorme (teoricamente
infinito, ma in pratica basta che sia molto grande) di equazioni reversibili
nelle quali compaiono delle variabili microscopiche può saltare fuori una
equazione irreversibile nella quale compaiono delle variabili macroscopiche.
Da dove "salta fuori" la irreversibilità?

E la temperatura? Come fa un gas di particelle ad essere "caldo" se per
nessuna di quelle particelle si può dire altrettanto? Da dove "salta fuori"
la temperatura?
--
Saluti.
D.
LordBeotian
2008-04-10 16:49:52 UTC
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Post by Davide Pioggia
Post by LordBeotian
L' ipotesi è che quando stai in coma tu (che in realtà sei una unità
elementare di materia) percepisci "qualcosa" e "fai" anche qualcosa ma
comunque non cose "umane" e non cose che tu possa memorizzare perchè sei
sprovvisto della cooperazione dell'usuale attività cerebrale. Poi quando
ti risvegli hai ovviamente a disposizione solo le informazioni che sono
state immagazzinate nella memoria.
'Sta cosa non mi è chiara.
Tanto per cominciare "io" sono la mia memoria. Se in questo momento fosse
possibile modificare le connessioni sinaptiche del mio cervello in modo tale
da sostituire tutti i miei ricordi con i tuoi, allora "io" diventerei "te".
Beh mica tanto: tu diventeresti una mia copia. Ma io continuerei a pensare
con il mio cervello e tu con il tuo, saremmo due soggetti separati. Come
reagiresti se qualcuno creasse una tua copia e pensasse di poterti uccidere
senza remore perchè essendo "tu" la tua memoria tale eliminazione non
ucciderebbe "te"?
Post by Davide Pioggia
Se questa posizione ti sembra eccessiva, e se ritieni che "io" sia qualcosa
di più della mia memoria, spero che tu sia disposto a riconoscere che la mia
memoria è un elemento fondamentale e imprescindibile della mia identità, per
cui se venisse a mancare totalmente la mia memoria "io" non sarei più "io".
Beh insomma... la tua identità "sociale" non va confusa con la tua identità
"soggettiva". Gli individui possono essere distinti sia sulla base dei loro
"ricordi" sia sulla base della loro "continuità fisica". Se tu perdessi la
memoria potrebbe capitare che ad un certo punto la riacquisti, e allora che
dovremmo dire che prima quella persona eri "tu", poi era un altro e poi
ancora un altro? Non è più facile assuemre che si tratti smpre dello stesso
soggetto con bruschi cambiamenti mnemonici?
Post by Davide Pioggia
D'altra parte se ti dicono che "tu" dopo la tua morte ti reincarnerai in
un'altra forma di vita perdendo ogni ricordo delle tue vite precedenti, non
credo che la cosa per "te" faccia una gran differenza rispetto al pensiero
che "tu" dopo la tua morte non ci sarai più.
Questo è discutibile... se ti offrissero queste opzioni:
a) prendi una pasticca che ti farà perdere la memoria e al tuo risveglio ti
sarà offerto una posizione economica prestigiosa per una vita piena di agi
b) prendi una pasticca che ti farà perdere la memoria e al tuo risveglio ti
sarà offerta una posizione economico-sociale miserissima
Ebbene rimarresti neutrale rispetto alle due possibilità (supponendo che tu
normalmente preferisca la ricchezza alla miseria)? Cambierebbe veramente così
tanto il fatto che dopo non ricorderai nulla del tu passato rispetto a questa
decisione?
Post by Davide Pioggia
Dunque c'è questa cosa, "io", che c'è quando il cervello è "sveglio" (o
comunque in una fase di sonno non troppo profondo, ma su questo ci sarebbe
da discutere), e che non c'è nel coma e nel sonno profondo. Qual è allora
quella "scintilla" che nel cervello "sveglio" fa sorgere il fenomeno della
"memoria" e fa comparire l'"io"?
Mmmmm... ok prendo per buono il tuo uso della parola "io", ma in tal caso la
posizione panpsichista afferma che c'è un "soggetto" ed una "esperienza"
anche quando manca questo "io" che c'è quando si è svegli.
Post by Davide Pioggia
In secondo luogo anche io, come altri che ti hanno risposto, non ho capito
in base a quale criterio attribuisci una "psiche" a certe unità di materia e
non ad altre. Una particella ha una psiche? E quale particella? Un protone?
E se salta fuori una teoria secondo la quale un protone è costituito da
quark improvvisamente dobbiamo smettere di pensare che il protone abbia
una psiche e che siano i quark ad averla? Oppure?
L'idea è semplice: tutto ciò che si muove in natura si può ricondurre al
movimento di "unità fondamentali" (se vogliamo essere "atomisti"). Queste
unità fondamentali - quali che siano - si muovono sulla base di uno scambio
di informazioni con le altre. Possiamo supporre che questo scambio di
informazioni si manifesti attraverso "esperienze" e "decisioni" come
sperimentiamo in noi, ma ad un livello molto più elementare qualora il
sistema sia meno complesso del nostro.
Post by Davide Pioggia
Inoltre questa cosa che dice "io" è una qualche porzione di materia dentro
al cervello? Quale? Un qualche particolare neurone? Un qualche circuito
neuronale? E perché questa porzione di materia in certi momenti accumula
"memoria" e in altri momenti no? Oppure è l'intero cervello a dire "io"?
E perché il cervello sì e il corpo no? E perché un sasso no? E un albero?
Questo è un problema che avevo evidenziato nel post originale. Alcune
possibili scappatoie ipotizzo che possano essere la teoria della mente
quantistica (cioè molte particelle formano una unica unità in uno stato
"entangled") oppure la teoria del cervello "olografico" (cioè le parti hanno
l'informazione del tutto).
Post by Davide Pioggia
Guarda che i singoli neuroni e i singoli circuiti non sono mai
"addormentati". È il cervello ad essere "addormentato". Parimenti un singolo
atomo non ha una "temperatura", e non si può dire che sia "freddo"
o "caldo" o che si trovi allo stato solido, liquido o gassoso. È il sistema
macroscopico, descritto dal punto di vista termodinamico, ad avere una
temperatura ed a trovarsi nello stato solido, liquido o gassoso. Come
dicevo, il fatto di essere "addormentato" o "sveglio" o "in coma" è una
proprietà globale del cervello, non una proprietà locale. Anche quando il
cervello è "addormentato" i singoli neuroni continuano a funzionare nel
solito modo: quando ricevono una quantità di stimoli sufficienti, scaricano.
Infatti io non voglio attribuire proprietà complesse come "veglia" e "sonno"
alle particelle. Io voglio solo attribuire loro una "esperienza" ed una
capacità decisionale che dipendono dal contesto fisico in cui si trovano.
Post by Davide Pioggia
Un atomo posto in un reticolo cristallino o in gas è sempre lo stesso atomo,
e segue le stesse leggi fisiche: se sta nel reticolo è perché gli atomi che
lo circondano lo mantengono in una certa posizione, ma l'atomo continua
ad interagire con gli atomi che lo circondano nello stesso modo in cui
interagisce quando si trova in un gas. Cambiano le proprietà dello stato
collettivo, non quelle dei singoli elementi.
Ma lo stato collettivo può, in generale, influire sul comportamento del
singolo. Nello scenario panpsichista le condizioni collettive contribuiscono
a dare all' "atomo" un "tipo" particolare di esperienza e stimolare un tipo
particolare di "risposta".
Post by Davide Pioggia
A tutte le domande che ti ho fatto fin qui, e che ti hanno fatto altri, si
può rispondere in un colpo solo ipotizzando che i "sistemi complessi"
(come è certamente il cervello) abbiano delle "proprietà emergenti"
e possano trovarsi in varie "fasi". Allora si capisce perché il cervello sì
e il neurone no, e il sasso no, e la montagna no. E si capisce anche perché
il cervello può essere sveglio e addormentato.
EQuesto non mi convince affatto: con questo discorso puoi spiegare
l'esistenza di proprietà *definibili nella cornice teorica della fisica*. Non
certo proprietà che sono del tutto al di fuori di tale cornice teorica come
il fatto di avere un soggetto che ha una certa una esperienza. Puoi spiegare
perchè il sistema fisico "uomo" si comporta in un certo modo ma questo non di
dice nulla su che cosa sta provando, a meno di non dare ulteriori
interpretazioni ai dati fisici che però esulano dal dominio della fisica.
Post by Davide Pioggia
Qualunque scienziato che abbia un po' di occhio e intuito scientifico ha
oggi gli strumenti per rendersi conto che la coscienza è una proprietà
emergente di quel sistema complesso che è il cervello.
La coscienza non è una proprietà "fisicamente sperimentabile" nè definibile
con l'apparato concettuale della fisica, quindi non è possibile su di essa
essa fare il discorso delle "proprietà emergenti" come puoi fare per la
temperatura. Un paragone che puoi fare è quello con il concetto di "vita" ma
tale paragone mostrerebbe solo che non esiste alcuna reale distinzione
fisicamnte significativa tra ciò che è vivo e ciò che non lo è, e il
confronto dovrebbe suggerire che non esiste una distinzione "fisicamente
significativa" neppure tra ciò che è cosciente e ciò che non lo è... le
conclusioni possibili in questo caso sono l'eliminativismo e il panpsichismo.
Il primo mi sembrerebbe da scartare sulla base del fatto che noi la coscienza
la "sperimentamo", checchè ne dica la fisica.
Post by Davide Pioggia
E se lo sviluppo
scientifico e tecnologico non verrà prima arrestato da un collasso economico
o da un guerra mondiale termonucleare, un giorno si capirà quali sono le
proprietà minime che un sistema complesso deve possedere affinché da esso
possa emergere una coscienza. A quel punto ci troveremo nelle solite
condizioni: gli scienziati saranno capaci di fare una cosa sulla quale i
filosofi potranno sparare a raffica, tirando fuori un putiferio di paradossi
e contraddizioni, fin quasi a mostrare che ciò che è non può essere.
C'è anche un'altra possibilità che mi sembra più verosimile: non esiste alcun
"minimo", cioè c'è un "continuum" di situazioni che vanno dalla particella
elementare isolata e arrivano ai sistemi complessi come il cervello senza che
sia possibile mettere alcuna linea di demarcazione. Esattamente come succede
per la "vita".
Post by Davide Pioggia
Tu invece ti sei fatto talmente prendere dalle obiezioni dei filosofi al
concetto di proprietà emergente dei sistemi complessi da sprofondare nella
disperazione: anziché dare tempo al tempo ti sei ridotto a dare credito ad
una ipotesi che pone più problemi di quanti ne risolva, e - sopratutto - non
è di alcuna utilità per rispondere alla domanda che ci interessa più di ogni
altra: come si fa a realizzare un sistema che "pensa"? È questo che non
sappiamo fare, e quando lo sapremo fare le obiezioni dei filosofi avranno i
giorni contati. Prima facciamolo, poi magari discuteremo con calma su come
sia stato possibile fare ciò che i filosofi avevano dismostrato essere
necessariamente impossibile fare :-)
Ma io non vedo una battaglia tra filosofi e scienziati: la scienza (la
scienza fisica almeno) non ha una posizione sulla materia e non potrebbe
averne alcuna! Secondo me non ha senso chiedere di "aspettare" perchè sapendo
soltanto come funziona la fisica e di che cosa si occupa possiamo subito
dedurre che quel problema non la tocca affatto, non le appartiene...
Post by Davide Pioggia
Post by LordBeotian
Tra l'altro non ho l'esclusiva su questa idea: sembra che possa essere
ricondotta a Liebniz, e che recentemente sia vista con un certo interesse
http://www.nytimes.com/2007/11/18/magazine/18wwln-lede-t.html
per una presentazione "panoramica".
«Now, Nagel reasoned, the properties of a complex system like the brain
don't just pop into existence from nowhere; they must derive from the
properties of that system's ultimate constituents.»
È la solita plurimillenaria asserzione dei filosofi metafisici eternauti.
Tu sei un matematico, sai bene che da un numero enorme (teoricamente
infinito, ma in pratica basta che sia molto grande) di equazioni reversibili
nelle quali compaiono delle variabili microscopiche può saltare fuori una
equazione irreversibile nella quale compaiono delle variabili
macroscopiche.
Da dove "salta fuori" la irreversibilità?
E la temperatura? Come fa un gas di particelle ad essere "caldo" se per
nessuna di quelle particelle si può dire altrettanto? Da dove "salta fuori"
la temperatura?
I paragoni con gli altri casi di "proprietà emergenti" sono a mio avviso del
tutto inappropriati. Le ragioni le ho spiegate anche in passato e si basano
sul fatto che tutto ciò che la fisica può sperare di spiegare è nella
migliore delle ipotesi l'esistenza di "Zombie che si comportano come un
uomo", ma non potrà mai inferire nulla su presunti "soggetti" all'interno
degli Zombie. Il collegamento tra l'informazione fisica e l' esperienza
interiore lo dovremmo fare noi *al di fuori* della fisica. Per questo dico
che il problema della coscienza non è un problema che appartiene al dominio
della fisica (intesa come scienza che studia il comportamento *esteriore*
della materia).

Le uniche scelte coerenti a me sembrano solo due: eliminativismo o una
qualche forma di panspichismo che attribuisca una qualche "vita interiore"
alla materia dalla quale possano emergere le proprietà mentali più complesse.

Ciao!!
Davide Pioggia
2008-04-11 01:37:40 UTC
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[...]
Provo ad affrontare il problema da un'altra angolazione.

Per prima cosa devo cercare di comunicarti il senso di una certa
affermazione. Non ti chiedo subito di dirmi se accetti o meno questa
affermazione: ti chiedo solo di lasciare che nella tua mente si delinei il
senso preciso di questa affermazione, dopodiché puoi tranquillamente
negarla.

C'è un modo piuttosto immediato di comunicare tale affermazione, anche se
purtroppo questo modo è concettualmente un po' debole. A me però non
interessa essere a prova di filosofo, e per ora mi interessa solo che tu
capisca cosa intendo. D'altra parte quando ti dissi, tempo fa, che la
"coscienza fenomenica" dell'oggetto O è "ciò che si prova ad essere O",
tu avresti potuto avanzarmi una miriade di obiezioni (la prima delle quali è
che se non siamo O non potremo mai sapere che cosa si prova ad essere O,
senza considerare che non è chiaro cosa si deve intendere per "provare")
eppure mi sembra che ci siamo capiti.

Ebbene, il modo immediato (e concettualmente debole) di fare questa
affermazione è il seguente:

due cervelli che si trovano (o si trovassero) nel medesimo
stato fisico starebbero pensando la stessa cosa.

A me sembra che, al di là delle possibili obiezioni, si capisca cosa voglio
dire, e se hai seguito il thread su "determinismo e libero arbitrio" nel ng
non moderato forse la cosa ti sarà ancora più chiara.

Un altro modo di dire questa cosa potrebbe essere questo:

dato uno stato fisico del cervello, ciò che quel cervello sta
pensando resta determinato in modo univoco dallo stato fisico.

Certo, si potrebbe anche discutere sulla equivalenza di queste due
affermazioni, ma eventualmente prendine una e scarta quella che ti crea
maggiori difficoltà.

Ora, tempo fa avevo dedicato alcuni thread a cercare di rispondere
a questa domanda: quali sono le circostanze nelle quali noi arriviamo a
"credere" una certa cosa, anche se non possiamo avere la certezza assoluta
che quella cosa sia vera? Come forse ricorderai avevo tentato di rispondere
che la certezza è sempre prodotta da un "limite della immaginazione":
http://snipurl.com/242wz
Tu, se ben ricordo, non eri d'accordo, per cui non ti chiedo di accettare
nemmeno questa cosa. Mi limito, se vuoi, a portarla come una mia
caratteristica personale, nel senso che io mi convinco di qualche cosa se
proprio non riesco ad immaginare come potrebbe essere diversamente.
Nel momento in cui qualcuno o qualcosa mi sblocca l'immaginazione, dalla
condizione della certezza passo a quella del dubbio, sebbene già da prima
fossi consapevole che non potevo dimostrare ciò di cui ero certo.

Ebbene, questo discorso si applica anche alla affermazione che ho cercato
di illustrarti all'inizio: quando io penso al rapporto fra la mente e il
cervello non riesco proprio a immaginare come le cose potrebbero stare
diversamente da ciò che afferma quella affermazione. Certo, lo so che
c'è chi la pensa diversamente. Ad esempio c'è chi ritiene il cervello una
interfaccia fra la sostanza materiale e quella spirituale; c'è chi - come
stai facendo tu - sostiene un panpsichismo della materia; c'è chi pensa di
poter trovare la soluzione nella meccanica quantistica eccetera eccetera.
Tuttavia quando io cerco di immaginarmi come le cose potrebbero essere se
fossero in quel modo, non riesco ad immaginarmi nulla, o quanto meno la mia
immaginazione si arresta in qualche punto cruciale. Per questa ragione a me
è sempre sembrato assolutamente chiaro ed evidente che le cose non potevano
stare che nel modo illustrato dalla affermazione che ho fatto all'inizio:

dato un certo stato fisico del cervello, bisogna che il cervello stia
pensando qualche cosa che è univocamente determinato da quello
stato fisico.

Ovviamente la funzione che ad ogni stato fisico del cervello associa ciò che
sta pensando il cervello può essere spaventosamente complicata, ma quella
funzione esiste, e in linea di principio può essere conosciuta. Così quando
ho letto questi articoli:
http://snipurl.com/23vro
http://www.guardian.co.uk/science/2008/mar/06/medicalresearch
non ho fatto una piega e non mi sono sorpreso più di tanto, visto che
partendo da ciò che a me appare "evidente" è altrettanto "evidente" che
prima o poi si potranno costruire delle macchine che facendo una semplice
"fotografia" dello stato fisico di un cervello ci consentiranno di dire che
cosa sta pensando quel cervello. Chiaramente siamo ancora nella preistoria
di questa disciplina: lo scannere utilizzato può scattare solo tre o quattro
immagini del cervello al secondo, e suppongo che la risoluzione spaziale sia
piuttosto grossolana. Tuttavia già in questa fase così preistorica si riesce
ad indovinare che cosa sta pensando il cervello nove volte su dieci, il che
ci costringe con un buon margine di certezza ad escludere che si tratti di
una serie di eventi fortuiti: siamo di fronte ad un risultato positivo.

Ebbene, mentre dal punto di vista delle mie convinzioni e delle mie evidenze
la possibilità di realizzare una macchina come quella non solo non
sorprende, ma è immediamente previdibile, sarei proprio curioso di sapere
come fai tu, dal tuo punto di vista, a spiegare la possibilità di realizzare
quella macchina.

Infatti quando tu "fotografi" il cervello, stai osservando il suo stato
fisico globale. Ed è lo stato fisico globale del cervello a determinare in
modo univoco ciò che il cervello sta pensando, mentre nessun circuito
neuronale, da solo, contiene quella informazione. E d'altra parte ciò che
fotografiamo non è certo lo "stato quantistico entangled" del cervello
inteso come un unico quanto, perché secondo i santoni della interpretazione
di Copenhagen l'osservazione di quello stato dovrebbe farlo "collassare"
(aspetta che rido) in uno "stato classico". E infatti noi siamo di fronte ad
una bella "fotografia" del cervello, la quale descrive uno stato "classico"
che più "classico" non si può, ed è da quella "fotografia" che noi sappiamo
ricavare ciò che sta pensando il cervello.

Come te la spieghi tu questa faccenda, che a me appare del tutto "evidente"?
--
Saluti.
D.
Marco V.
2008-04-11 16:26:03 UTC
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Post by Davide Pioggia
Ebbene, il modo immediato (e concettualmente debole) di fare questa
due cervelli che si trovano (o si trovassero) nel medesimo
stato fisico starebbero pensando la stessa cosa.
[...]
E infatti noi siamo di fronte ad
una bella "fotografia" del cervello, la quale descrive uno stato "classico"
che più "classico" non si può, ed è da quella "fotografia" che noi sappiamo
ricavare ciò che sta pensando il cervello.
Come te la spieghi tu questa faccenda, che a me appare del tutto "evidente"?
Come dico anche in un post che ho appena inviato su ICF nel thread sul
determinismo, se "descrivere da dentro" significasse "avere attualmente la
rappresentazione", allora la tua tesi sulla equivalenza tra le descrizioni
del<<lo stesso fenomeno>> implicherebbe logicamente (sia nella logica
analitica che in quella continentale:-)) la negazione della alterità
presupposta tra osservatore ed osservato, cioè tra gli orizzonti di
esperienza.
E allora vorrei cercare di capire che cosa significa esattamente per te
"sapere dire che cosa sta rappresentando [pensando etc.] un cervello". Ad
esempio: ammesso che (a) l'espressione "che cosa si prova ad avere una
esperienza" abbia per te un significato, e fermo rimanendo che (b)
l'esistenza di un qualcosa che si prova ad avere una esperienza non implica
di per sé che la conoscenza di questo qualcosa richieda l'*avere quella
esperienza* (questa implicazione è proprio ciò che andrebbe dimostrato),
"sapere dire che cosa un cervello sta rappresentando" significa per te
"conoscere che cosa si prova ad avere quella rappresentazione"? Faccio
questa domanda per due ragioni:

1. Su ICF hai detto che il tuo presupposto è che _stato fisico_ e _stato
mentale_ sono due descrizioni dello stesso fenomeno. Ma allora la
possibilità - secondo te implicata dalla equivalenza tra le due descrizioni
(in quanto descrizioni dello stesso fenomeno) - di passare da una
descrizione all'altra significa forse che conoscere la descrizione a livello
neurobiologico (cioè fisico) è *avere quello stato mentale*? Siamo sempre
lì: il problema logico è il medesimo, ed è un problema di identità.

2. Ci parli di quello scanner cerebrale (che per adesso necessita di essere
"tarato" sul soggetto osservato: occorre cioè che si precostituisca il dato
della corrispondenza di certe immagini osservate dal soggetto alle
configurazioni cerebrali registrate dalla macchina). Il senso è questo:
dalla configurazione cerebrale si va al contenuto mentale. Ora, la
configurazione cerebrale è un dato fisico, osservabile mediante certi
strumenti (in questo caso, lo scanner). Anche quella certa piega delle
labbra, quel certo atteggiamento del volto etc. è un dato fisico. E da
questo dato il soggetto interpretante ricava che la persona di fronte, che è
altra da lui, "è felice", "è triste" e così via. Mi dirai che ricavare da un
dato fisico la felicità della persona non è certo ricavare il contenuto
mentale determinato. Ma in ogni caso non c'è nessuna differenza di
principio.
I veri "filosofi":-)) conoscono già i domini e gli ambiti della vallata in
cui gli scienziati dilagheranno, e - per godersi meglio lo spettacolo - si
sono installati in cima alla vetta. E
in cima alla vetta c'è l'esser dato del dato, la sua datità, ovvero il
costituirsi del dato come tale, e questa è la cosa che la scienza non potrà
mai "spiegare" - perché ogni "spiegazione" scientifica esigerà dei dati da
cui partire. Non c'è, su questa cosa, da costruire una mistica da esaltati
(anche perché poi so che tu temi che gli esaltati, che si erano installati
in cima, possano tornare a valle per "educare" gli uomini della vallata alla
Verità della vetta- una Verità, guardacaso, spendibile politicamente). C'è
solo da dire che è logicamente contraddittorio che la scienza possa
"spiegarla". E questa contraddittorietà si fonda sullo stesso principio cui
mi sono riferito più sopra: non avere una esperienza non è avere una
esperienza. (questo rimane valido anche per il materialismo eliminativista
di Dennett - ed anzi sarebbe interessante mostrarlo analiticamente
discutendo il modo in cui il filosofo americano risponde all'esperimento
mentale del "robot Mary").

Un saluto,

Marco
Bernard Bernoulli
2008-04-11 19:34:25 UTC
Permalink
Post by Marco V.
1. Su ICF hai detto che il tuo presupposto è che _stato fisico_ e _stato
mentale_ sono due descrizioni dello stesso fenomeno. Ma allora la
possibilità - secondo te implicata dalla equivalenza tra le due descrizioni
(in quanto descrizioni dello stesso fenomeno) - di passare da una
descrizione all'altra significa forse che conoscere la descrizione a livello
neurobiologico (cioè fisico) è *avere quello stato mentale*? Siamo sempre
lì: il problema logico è il medesimo, ed è un problema di identità.
No, è un falso problema logico perché stai confondendo banalmente due piani:
quello epistemico e quello ontologico (leggi Paul Churchland, riguardo del
paradosso di Jackson).
Sapere *come* l'occhio distingue le onde elettromagnetiche dello spettro
visibile, non è sapere *cosa* vede l'occhio. Per sapere *cosa* vede
l'occhio, dobbiamo avere un occhio. Per sapere *come* l'occhio distingue i
colori, dobbiamo avere un linguaggio
La prima è una credenza della rappresentazione, la seconda è una
rappresentazione di un evento fisico k. La prima aggiorna una particolare
area del nostro sistema neurale - per assunto diciamo la memoria
dichiarativa-semantica - la seconda aggiorna un'altra area, la memoria
iconico-visiva. Sono *due vie neurali* ben distinte.
Ma il fatto che si tratti di due piani diversi, non implica che il piano
ontologica ("il cosa" si vede) non sia fisicamente riducibile, ovvero non
sia riducibile a processi fisici.

La logica è utilissima, l'importante è non perdersi in bicchier d'acqua.
Post by Marco V.
2. [....]
I veri "filosofi":-)) conoscono già i domini e gli ambiti della vallata in
cui gli scienziati dilagheranno, e - per godersi meglio lo spettacolo - si
sono installati in cima alla vetta. E
in cima alla vetta c'è l'esser dato del dato, la sua datità, ovvero il
costituirsi del dato come tale, e questa è la cosa che la scienza non potrà
mai "spiegare" - perché ogni "spiegazione" scientifica esigerà dei dati da
cui partire.
A parte il linguaggio piuttosto oscuro "l'esser dato del dato, la sua
datità, ovvero il costituirsi del dato come tale" - mi sembra un indovinello
stile Sfinge, più che un postulato filosofico - comunque non hai posto bene
la questione.
A parte, ancora, la tua dichiarazione disfattista non affatto argomentata -
nel senso che se la scienza non riesce a spiegare il dato, non significa che
in futuro non lo farà: la tua è una semplice convinzione priva di fondamento
logico e scientifico.

Non solo la scienza non parte da dati esperienziali diretti, ciò che uno dei
veri "filosofi", cioè Rudolf Carnap, definiva "gli elementi semplici
dell'esperienza", ma anche il singolo soggetto non percepisce mai dati
*puri*. I dati infatti non sono percepiti mica da un'entità sovrannaturale,
bensì da un cervello in carne ed ossa. Non solo. Parlare di *dato* è
piuttosto fuorviante, perché non esiste un dato bensì informazioni elaborate
dal sistema percettivo su base neurale, vale a dire mediante un'elaborazione
parallela distribuita.


BB
Marco V.
2008-04-11 22:09:46 UTC
Permalink
Post by Bernard Bernoulli
No, è un falso problema logico perché stai confondendo banalmente due
piani: quello epistemico e quello ontologico (leggi Paul Churchland,
riguardo del paradosso di Jackson).
Ti ringrazio per il riferimento bibliografico, che già conoscevo mediante
Dennett. Incidentalmente, l'esperimento mentale di Jackson non è un
paradosso; lo diviene solo se riteniamo di dover mantenere ferma, al
contempo, quella tesi fisicalista che per Jackson va
invece, in base al suo esperimento mentale, rigettata. Passando al nostro
problema...
Post by Bernard Bernoulli
Sapere *come* l'occhio distingue le onde elettromagnetiche dello spettro
visibile, non è sapere *cosa* vede l'occhio.
Per sapere *cosa* vede
Post by Bernard Bernoulli
l'occhio, dobbiamo avere un occhio. Per sapere *come* l'occhio distingue i
colori, dobbiamo avere un linguaggio
...tu dicevi, in un'altra discussione e sempre citando Churchland:
<<la descrizione del funzionamento di un sistema
neurale non implica il sapere cosa si sente ad essere quel sistema>>. Ora,
nel post al quale hai risposto, io *domandavo* (e non asserivo) proprio se
il sapere descrivere implica o significa la conoscenza di ciò che si prova
ad avere quella certa esperienza. E dico di più: sono finanche disposto a
stabilire in via ipotetica che "sapere che cosa si prova ad avere una certa
esperienza" non implica "avere quella certa esperienza". E questo lo dico
per una ragione essenziale: l'eliminativismo di Dennett, e precisamente il
modo in cui esso deve specificarsi a proposito dell'esperimento mentale di
Jackson, regge solo sul fondamento di quella non-implicazione. Infatti se
quella implicazione, invece, ci fosse allora Dennett, per il quale possedere
la conoscenza fisica completa della visione cromatica *é* conoscere che cosa
si prova ad avere la visione cromatica, starebbe dicendo che Mary, che non
sta avendo la visione cromatica, sta avendo la visione cromatica.

L'*eventuale* (proprio tale eventualità, volevo sondare nelle sue
condizioni) caduta della alterità - cioè la negazione della non-identità -
tra il descrivente lo stato fisico e l'avente quel certo stato mentale ha un
fondamento esclusivamente logico, così come la eventuale necessità di
affermazione di quella non-identità.
Post by Bernard Bernoulli
La logica è utilissima, l'importante è non perdersi in bicchier d'acqua.
Verissimo, ma a volte quelli che sembrano bicchieri di acqua sono dei veri e
propri pozzi - e viceversa, naturalmente.
Ed il pensiero non conosce che un pozzo: la contraddizione.
Post by Bernard Bernoulli
[...]
A parte, ancora, la tua dichiarazione disfattista non affatto
argomentata -
Perché disfattista? Mi ero appositamente espresso, per una questione tra me
e Davide, in quel linguaggio un po' "aulico":-). Ma la cosa che ho detto è
bella e precisa. La
scienza non può spiegare il dato in quanto tale. Tra un attimo ritorno su
questa faccenda (poi lo so che certi non appena sentono "in quanto tale"
avvertono puzza di metafisica).
Intanto aggiungo che il mio non è disfattismo. La scienza
esiste e prolifica solo laddove vi sono aspettative deludibili, ipotesi
falsificabili etc. Se qualcosa funziona o è il prodotto di un funzionamento
etc., allora questo qualcosa può, e deve poter, smettere di funzionare. Per
la scienza la coscienza è il prodotto di un funzionamento. Io invece dico
che l'origine del dato è sottratta al discorso scientifico - cioè, è
sottratta al discorso che prolifica solo laddove vi sono aspettative
deludibili, ipotesi falsificabili e così via. Al più è disfattista la
scienza - per la quale l'apparire del mondo (perché questo e non altro è la
coscienza) è il prodotto del "lavoro" di miliardi di entità sub-cerebrali
precluse all'apparire -, non io, visto che per me non c'è nessun "lavoro"
che produce e può produrre l'apparire del mondo.
Post by Bernard Bernoulli
Non solo la scienza non parte da dati esperienziali diretti, ciò che uno
dei veri "filosofi", cioè Rudolf Carnap, definiva "gli elementi semplici
dell'esperienza", ma anche il singolo soggetto non percepisce mai dati
*puri*.
Certo, la questione delle "proposizioni protocollari". E sì, è vero che da
tempo il pensiero filosofico tende a ritenere che quella del puro dato di
esperienza sia una mitologia positivistica, cioè una forma di metafisica.
Questioni, queste, che entrambe rimandano al requisito della
intersoggettività.
Tuttavia, tanto per fare un esempio, noi diciamo "qui c'è un cervello"
oppure "tizio dice che sta avendo una esperienza di rosso". Ed è questo, ad
esempio, cui mi riferivo sostanzialmente, quando parlavo dei <<dati da cui
partire>>, di cui qualunque teoria scientifica deve disporre.
Post by Bernard Bernoulli
I dati infatti non sono percepiti mica da un'entità sovrannaturale,
bensì da un cervello in carne ed ossa. Non solo. Parlare di *dato* è
piuttosto fuorviante, perché non esiste un dato bensì informazioni
elaborate dal sistema percettivo su base neurale, vale a dire mediante
un'elaborazione parallela distribuita.
A proposito di <<convinzioni prive di fondamento
logico e scientifico>>, tu ritiene che una affermazione quale "il cervello
percepisce il dato" e le varie teorie elaborate dalle scienze
neurobiologiche per spiegare come il cosiddetto "dato" (ad esempio, l'esser
bianco di questo monitor) giunga a costituirsi a partire dalle
<<informazioni elaborate dal sistema percettivo su base neurale>>, abbiano
un fondamento logico evidente? Per me già l'espressione "è il cervello a
percepire..." è, tanto per cambiare, altamente problematica. E se la vedo
problematica, vuol dire che, per lo meno, non vedo contraddizioni evidenti
nel negarla.

Un saluto,

Marco
Marco V.
2008-04-12 09:27:14 UTC
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Post by Marco V.
Per me già l'espressione "è il cervello a
percepire..." è, tanto per cambiare, altamente problematica.
Per intenderci. La proposizione analitica, esprimente il soggetto del
percepire, sarebbe "è il percepiente a percepire". Solo questa proposizione,
è dotata di fondamento logico evidente - cioè, è tale che la sua negazione
sia immediatamente autocontraddittoria. Dico ovviamente delle ovvietà - ma,
altrettanto ovviamente, sono quelle ovvietà che devono dirsi ogni volta che
si parla di "fondamento logico".

Una cosa meno ovvia sarebbe che, se accettiamo che le tesi filosofiche
fondate in qualche modo sulle scienze neurologiche debbano poter essere
discusse, ed anche in modo radicale, allora dobbiamo riconoscere che
stabilire "è il cervello a percepire i dati" come premessa o orizzonte della
discussione, significherebbe pregiudicare gravemente quest'ultima.
E ciò può essere dimostrato anche in questo modo. E' ovvio che *se*
assumiamo che l'origine del dato debba poter essere spiegata in termini di
informazioni elaborate su base neurale etc., allora quella proposizione che
stabilisce il cervello come "soggetto" del percepire comincia a divenire
difficile da negare. Ma, appunto, *se* assumiamo quella tesi naturalistica
sulla origine neurologica del dato.
E, incidentalmente, voler discutere il naturalismo *non* significa
necessariamente voler portare argomenti filosofici a favore di una origine
soprannaturale della coscienza oppure a favore di un dualismo delle sostanze
di tipo cartesiano etc.

Marco.
Davide Pioggia
2008-04-12 13:55:48 UTC
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Post by Marco V.
E allora vorrei cercare di capire che cosa significa esattamente per te
"sapere dire che cosa sta rappresentando [pensando etc.] un cervello".
Ad esempio: ammesso che (a) l'espressione "che cosa si prova ad avere
una esperienza" abbia per te un significato, e fermo rimanendo che (b)
l'esistenza di un qualcosa che si prova ad avere una esperienza non
implica di per sé che la conoscenza di questo qualcosa richieda l'*avere
quella esperienza* (questa implicazione è proprio ciò che andrebbe
dimostrato), "sapere dire che cosa un cervello sta rappresentando"
significa per te "conoscere che cosa si prova ad avere quella
rappresentazione"?
No, questo è ovviamente impossibile. Tu che mi leggi da tempo sai bene
che sono io il primo a dire ed a ripetere che il pensiero non è
oggettivabile. Cioè, non possiamo puntare il dito verso l'oggetto pensiero,
invitando il nostro interlocutore a guardarlo. Il pensiero è una cosa che
"non si vede". Anzi, per quel che ne sappiamo tutti gli altri esseri umani
potrebbero essere delle macchine che si comportano in modo simile a noi,
ma che non hanno alcuna coscienza. L'unica coscienza che possiamo
conoscere è la nostra.

Se, come proponevo di fare in un precedente post, definiamo la coscienza
fenomenica dell'oggetto O come "ciò che si prova ad *essere* O" allora è
chiaro che quella conoscenza ci è preclusa in modo radicale. Non basta
indicare l'oggetto O con il dito per mostrarlo a qualcuno, perché per sapere
che cosa si prova ad *essere* O bisogna *essere* O. Dovremmo diventare
ciò che non siamo, e questo ovviamente è impossibile.

Allora cosa intendo dire quando dico che lo stato fisico del cervello
definisce in modo univoco ciò che quel cervello sta pensando? Supponiamo
di voler fare delle "fotografie" del cervello e stabilire una relazione
che ad ogni possibile stato fisico del cervello associa ciò che il cervello
sta pensando. Avremo una fase preliminare in cui faremo degli esperimenti
esplorativi. In questa fase non sapremo ancora associare un pensiero ad uno
stato fisico, per cui dovremo limitarci a fare una serie di fotografie e
scrivere accanto ad ogni fotografia ciò che il cervello stava pensando
quando è stata scattata. Già, ma come facciamo a sapere che cosa stava
pensando il cervello nel momento in cui la fotografia è stata scattata?
Abbiamo appena detto che non possiamo entrare in un altro pensiero,
che esso ci è precluso in modo radicale, e che non è oggettivabile.
Ma allora, come si fa a sapere che cosa sta pensando un cervello?
Beh, è semplice: glielo chiediamo :-)

Il problema poi si ripropone tempo dopo, quando avremo esaurito il
nostro studio preliminare, saremo convinti di aver trovato la funzione che
ad ogni stato fisico del cervello associa ciò che il cervello sta pensando,
e vorremo valutare l'affidabilità della funzione che abbiamo trovato.
In questo caso faremo delle foto, dalle foto cercheremo di indovinare che
cosa stava pensando il cervello al momento della foto, e poi andremo a
vedere se effettivamente abbiamo indovinato. Ma anche qui, come si fa a
sapere se abbiamo indovinato? Semplice: glielo chiediamo di nuovo :-)

Tutto ciò può sembrare catastrofico per l'impresa scientifica
"riduzionista", ma non bisogna sottovalutare la scienza, che è una
brutta bestia che sa risorgere dalle sue ceneri.

Per andare avanti bisogna usare ciò che abbiamo detto fino a qui per fare
un po' di chiarezza in quel ginepraio che si suole indicare col nome di
"filosofia della mente". Infatti tutte le volte che si fanno queste
discussioni salta fuori qualcuno a dire che se uno sta chiuso tutta
la vita in una stanza in bianco e nero e prende una laurea in fisica
specializzandosi sulle onde elettromagnetiche ciò non gli basterà per sapere
che cosa si prova a vedere il colore rosso. Ebbene, questa "obiezione" è in
realtà una falsa obiezione, perché il problema che essa evoca è talmente
grosso da essere universale e onnipresente, al di là del fatto che stiamo
cercando di comprendere il funzionamento del cervello e della mente.

Provo a spiegarmi con degli esempi. Io ho alcuni amici che credono che non
si provi nulla ad essere un sasso, ma che si provi qualcosa ad essere un
albero. Io invece credo che non si provi nulla né ad essere un sasso né ad
essere un albero, e che per provare qualcosa bisogna essere un sistema
dotato di un cervello o qualcosa di equivalente ad esso per complessità.
Già, ma coloro che credono che non si provi nulla ad essere un sasso, come
fanno ad esserne certi? Non lo potranno mai sapere. Potrebbero avere ragione
i panpsichisti, per i quali si prova qualcosa ad essere qualunque cosa.
E all'estremo opposto ci sono i solipsisti, i quali dubitano che si provi
qualcosa ad essere qualcosa di diverso da loro stessi. Tutte verifiche
che niente e nessuno potrà mai fare, perché noi gli oggetti li possiamo
descrivere in tutti i loro particolari, ma non possiamo *essere* (o
*diventare*) quegli oggetti, per cui ciò che si prova ad essere quegli
oggetti non lo possiamo sapere. Non solo, ma anche se fosse vero che ad
essere un sasso non si prova nulla, cioè anche se io avessi la certezza che
le cose stanno veramente così, non potrei sapere lo stesso che cosa si prova
ad essere un sasso, perché per me "provare" è sempre "provare qualcosa" e
non so veramente cosa significhi "provare nulla".

Come vedi questo problema è talmente "devastante" da metterci in ginocchio
già nel momento in cui lo applichiamo ad un sasso. Figuriamoci se non salta
fuori quando ci mettiamo a discettare di modelli della mente. È un problema
irriducibile, universale, talmente grosso da occupare tutto l'orizzonte del
problema gnoseologico. Ma un problema che occupa tutto l'orizzonte per
certi versi è un problema che scompare. Al limite se proprio si vuole tenere
presente in ogni momento la sua immane presenza, diventiamo pure tutti
idealisti e diciamo che la realtà è il pensiero, o altre cose così. Ma per
favore, una volta che abbiamo preso atto di essere sotto la cappa perenne
di quel problema, poi mettiamolo sullo sfondo e non tiriamolo fuori ogni
tanto, quando ci torna in mente, perché non ce ne saremmo mai dovuti
dimenticare.

Qualcuno a questo punto starà ancora pensando che nel caso in cui si stia
parlando di modelli della mente sia più pertinente tirare fuori quel
problema. Ma non lo è; o meglio lo è solo per chi nel frattempo quel
problema se lo era dimenticato. Per me, che non me lo dimentico mai,
tirarmelo fuori mentre discutiamo di filosofia della mente è come
interrompermi mentre parlo della cioccolata per ricordarmi che sì, però il
nostro è il terzo pianeta del sistema solare. Cazzo c'entra? Lo so che siamo
sul terzo pianeta, non me lo ero mica dimenticato. È sempre vero che siamo
sul terzo pianeta, e siccome è sempre vero, non c'entra un cazzo con la
cioccolata, per quanto se non fossimo sul terzo pianeta probabilmente non ci
sarebbe nemmeno la cioccolata.

Così se io sono lì che mi sto scervellando (ecco, appunto) per cercare di
capire qual è quel cazzo di "rientro critico" che fa scoccare la scintilla
della coscienza in uno "stupido" ammasso di neuroni, uno non può venirsene
fuori a dirmi che sì, però non potrò mai essere sicuro che una macchina
"pensa davvero". Figuriamoci, se è per questo non potrò mai essere nemmeno
sicuro che *lui* sta "pensando davvero", ma nonostante questo continuo
tranquillamente la discussione, senza interromperlo ogni dieci secondi per
dirgli che sì, lui parla parla, ma io non posso essere sicuro che quelle
parole siano il prodotto di un coscienza come la mia, e non l'output di una
macchina priva di coscienza. È vero, è certamente vero, è sempre vero, ma
proprio perché è sempre vero, nella stragrande maggioranza dei casi in cui
viene tirata fuori quella faccenda non c'entra un accidente, o per lo meno è
scontata.

Tutta questa discussione ci serve per porre la premessa ovvia che non
potremo mai sapere che si "prova veramente" ad essere ciò che non siamo, il
che è come dire che non potremo mai sapere che cosa sta "pensando veramente"
una mente che non sia la nostra. Il fatto stesso che esistano altre menti
oltre alla nostra è destinato a restare eternamente una congettura.

C'è dunque un abisso infinito e insuperabile fra le menti, ammesso che
ne esista più di una? No, perché - come dicevo più su - "basta chiedere".
Si può comunicare qualcosa tramite il linguaggio, cioè tramite la produzione
di oggetti che per chi li produce e li osserva hanno un valore simbolico,
nel senso che rimandano a dei "significati", i quali sono contenuti mentali
delle menti che cercano di comunicare per mezzo di quegli oggetti.

Tempo fa mi ero posto la seguente domanda: come fa un bambino piccolo
ad "imparare a parlare", cioè ad imparare il significato delle parole che
usa la mamma, visto che quel significato se ne sta nella mente della mamma,
e il bambino non può far altro che ascoltare dei suoni che all'inizio per
lui non hanno alcun significato? La risposta ho tentato di darla in vari
articoli, fra cui questo:
http://snipurl.com/247jh [groups_google_it]
nel quale fra l'altro dicevo:
«In queste condizioni l'unica cosa che possiamo fare è rinunciare a priori
alla possibilità di "definire" uno stato o un fenomeno mentale (perché per
farlo dovremmo dare per scontata la conoscenza e la condivisione di altri
concetti analoghi) e limitarci a riferire il proprio vissuto "parlando a
ruota libera", nella speranza che chi ci ascolta possa trovare il modo di
eliminare la sottoderminazione e creare una corrispondenza univoca fra
il nostro vissuto e il suo vissuto, attraverso le espressioni verbali che
mediano la comunicazione di quel vissuto.»

In quell'articolo io davo per scontato che si avessero due coscienze che
tentano di comunicare, e che il bambino percepisse già la mamma come un
"soggetto", un essere dotato di una coscienza simile alla sua, una coscienza
con la quale diventa necessario comunicare per sopravvivere, visto che il
bambino ha assolutamente bisogno di cibo e di affetti. Tuttavia secondo
molti psicologi questo avviene in una fase già avanzata del rapporto fra il
bambino e la madre. Da certi comportamenti dei neonati si trae infatti
l'impressione che il neonato sia chiuso in una concezione solipsistica del
mondo, nel senso che per lui l'unico "io" è lui, che si muove in un mondo
di oggetti, fra i quali c'è anche il corpo caldo e nutriente (in tutti i
sensi) della madre. Solo in seguito, quando il corpo della madre si sottrae
alla onnipotenza allucinata del bambino, il bambino si rende conto che quel
corpo può reagire con dei "no" e con dei "sì", e allora comincia a
"proiettare" sulla madre una mente simile alla sua. Sarà questa proiezione a
permettergli di capire il significato della parola "io" quando verrà
utilizzato dalla madre, sicché la madre continuerà a dire "io" riferendosi a
sé stessa e "tu" riferendosi al bambino, ma il bambino non comincerà a
chiamare sé stesso "tu" e la madre "io", bensì invertirà la prospettiva,
chiamando "io" sé stesso e "tu" la madre.

Dunque nel processo che porta il bambino piccolo ad "imparare a parlare"
c'è il momento essenziale in cui il bambino proietta sulla madre una mente
simile alla propria. Per tutta la vita non potrà mai essere certo che
esistano veramente altre menti, tuttavia con ognuna di queste ipotetiche
menti egli sarà in grado di stabilire un rapporto per mezzo del linguaggio,
costruendo una rappresentazione di sé e degli altri (una vera e propria
"teoria") la quale inizialmente verrà "falsificata" spesso, ma ad un certo
punto si stabilizzerà resistendo per anni e magari per tutta la vita senza
incorrere in "falsificazioni".

Se io non sapessi nulla dell'inglese e degli inglesi e venissi catapultato
in qualche palazzo nobiliare di Londra alle cinque del pomeriggio,
inizialmente magari potrei chiedermi se quei corpi che mescolano il tè in
modo così ingessato e si passano il latte e lo zucchero in modo così
meccanico e ripetendo sempre gli stessi suoni, se quei corpi, dicevo, siano
animati da una vera e propria mente o se siano solo degli automi ben
programmati. Se però il giorno dopo li seguissi alla caccia alla volpe,
allora vedendo comparire sui loro volti l'eccitazione sadica del cacciatore
comincerei a sospettare di essere di fronte a dei veri e propri esseri
umani, e di conseguenza avanzerei l'ipotesi che quei suoni che essi emettono
(tipo «Thank you, Sir, may I have another?» quando si passano le zollette di
zucchero) siano delle "parole" ed abbiano un "significato". Ecco, da quel
momento in poi le cose proseguirebbero più o meno come per il bambino che
impara a parlare ascoltando la madre che parla a ruota libera (e le madri
sono speciali per parlare a ruota libera).

Come vedi qui abbiamo affrontato problemi colossali: il linguaggio,
il suo valore simbolico, il significato, l'esistenza delle altre menti,
l'impossibilità di oggettivare il pensiero, eccetera eccetera. Ma proprio
perché sono problemi colossali, essi sono onnipresenti. Io non posso nemmeno
essere certo che "tu" abbia una mente e che i segni che "tu" produci abbiano
un "significato". Eppure siamo qui a discutere. Così il povero fisico che
sta lì a scervellarsi su come si faccia a produrre un sistema complesso
dotato di una mente, non può accettare di essere continuamente molestato
con questo tormentone, solo perché ai filosofi viene voglia di mettergli i
bastoni fra le ruote. Il fisico sa bene che c'è il tormentone sullo sfondo,
ma in quel momento ha ben altri problemi per la testa. In quel momento
il fisico sta cercando di farsi una scopata e non ha tempo per le seghe.
Anzi, se si fa la sega poi non ce la fa più a farsi la scopata, almeno per
un po'. Le seghe - come è noto - sono robe da filosofi :-) A me sta
benissimo farmi le seghe mentali, ma solo sulle cose per le quali la scienza
ha già acquisito il know how. Cioè se io già sto scopando e il filosofo che
mi osserva un po' rancoroso mi chiede se esiste veramente la passera, a me
sta benissimo (mentre sto scopando) rispondergli: «Eh, sì, effettivamente è
proprio un bel problema. Vediamo un po', come potremmo fare a dimostrarlo?».
Ma se io sto cercando di farmela dare da una e arriva il filosofo a mettersi
in mezzo distraendomi dal mio intento per chiedermi se esiste veramente la
passera, io magari mi innervosisco e lo mando a quel paese. Le seghe magari
me le sono fatte prima, o me le rifarò dopo, ma in quel momento ho altro da
fare :-) C'è da spostare in avanti la frontiera del know how, e se aspetto
che lo facciano i filosofi sto fresco.

Quanto al tormentone, se lo si affronta va affrontato anch'esso in modo
"scientifico". Ad esempio siamo sicuri che "basta chiedere" per sapere
che cosa sta "veramente pensando" una mente? No, non ne siamo sicuri.
Anzi, affrontando in profondità questo problema ci si rende conto che
"il linguaggio serve per mentire". E allora salta fuori la faccenda della
"esegesi del testo", che sarebbe poi la psicanalisi :-) Così, come dicevo
nei giorni scorsi, quando tu e i tuoi colleghi scrivete "Spirito Assoluto"
io ci leggo "Testa/Grembo del Padre/Madre", in tutte le molteplici forme
che questo archetipo ha assunto nella storia della umanità, eccetera.
Ma questa è un'altra storia.
--
Saluti.
D.
Marco V.
2008-04-12 17:44:02 UTC
Permalink
Post by Davide Pioggia
[...]
Sebbene è possibile che ti appaia come un "filosofo rancoroso":-) che mentre
stai lì lì per far tua la biondona ti tira fuori un...ammosciante "ma sei
proprio certo che la passera esiste?", sono sempre
stato d'accordo con te sul fatto che un problema che invade la totalità di
un orizzonte concettuale sia *in un certo senso* un non-problema.
In quale senso? Nel senso, per essere precisi, che tale problema può essere
rappresentato come la frontiera stessa dell'orizzonte concettuale. Proprio
perché il problema invade la totalità dell'orizzonte, il problema lascia
libero tutto lo spazio. Potremmo infatti rappresentarci un problema
"totale", relativamente ad un orizzonte concettuale, nello stesso modo in
cui ci rappresentiamo il rapporto, all'interno del campo proposizionale, tra
la proposizione e la tautologia: la tautologia è tale da essere implicata da
ogni proposizione; allo stesso modo, il problema "totale" è tale che
qualunque proposizione appartenente a quell'orizzonte concettuale è in grado
di suscitarlo. E come, per dirla con Wittegenstein, la tautologia è (assieme
alla contraddizione) il "limite" del campo proposizionale, così il problema
"totale" lo è di un certo orizzonte concettuale. Di qui, ad esempio, è
evidente perché una certa tradizione filosofica considera o ha considerato
la "questione dell'essere" il problema "totale" dei problemi "totali":
qualunque cosa si intenzioni, quello sarà un essere, e sarà dunque ponibile
la domanda "ma che cosa è [l'essere] [essere un essere]?" etc.

Charita la ragione di questo mio accordo, vengo alla ragione di un possibile
disaccordo. Se il problema "totale" delimita, essendola, la frontiera di un
orizzonte concettuale (lasciando così "tutto" lo spazio libero), nessun
avanzamento del know-how sarà in grado di risolverlo, perché risolverlo in
questo modo significherebbe sciogliere l'orizzonte concettuale stesso dal
vincolo con la sua frontiera. Tu invece a volte, pur riconoscendo un (altro)
fatto sul quale siamo *sempre* stati d'accordo - cioè, che una "macchina
pensante" sarebbe comunque interna a quella interpretazione che intenziona
certi "corpi" come esprimenti l'esistenza di una coscienza altra dalla
coscienza attuale, cioè dalla "mia" coscienza - mi fai l'impressione di
concepire un simile
artefatto come quella cosa capace di piazzare la "botta" in grado di gettare
nel ridicolo tutte le chiacchiere filosofiche sulle "impossibilità
concettuali". Molto probabilmente, una simile concezione poggia sul fatto
che un artefatto, in quanto è un "oggetto", possiede il predicato della
oggettività: sta lì davanti ai nostri occhi - proprio quegli occhi che si
affaticano a leggere tesi filosofiche, ciascuna tragicamente differente
dall'altra, su "che cosa" sia la mente etc. -, a dirci: "cari filosofi, io
sto qui, e adesso sono cavoli vostre e delle vostre teorie sulla mente".

Questa impressione in me resta ferma, anche quando provo a neutralizzarla
tramite il tuo "relativismo semantico" (=le questioni filosofiche non stanno
ferme, ma il loro significato varia con il variare dei sempre varianti
contesti di senso; ad esempio, perché ad un certo punto ci troveremmo a non
aver ragioni per non applicare la parola "pensante" ad un oggetto cui non
abbiamo ragioni per non applicare la parola "macchina") - un relativismo che
per certi versi ho sempre condiviso.
Post by Davide Pioggia
Se, come proponevo di fare in un precedente post, definiamo la coscienza
fenomenica dell'oggetto O come "ciò che si prova ad *essere* O" allora è
chiaro che quella conoscenza ci è preclusa in modo radicale. Non basta
indicare l'oggetto O con il dito per mostrarlo a qualcuno, perché per sapere
che cosa si prova ad *essere* O bisogna *essere* O. Dovremmo diventare
ciò che non siamo, e questo ovviamente è impossibile.
Abbiamo in mano queste espressioni:

[1] "sapere che cosa si prova ad essere un certo essere".
[2] "sapere che cosa si prova ad avere una certa rappresentazione [o anche:
una certa esperienza]".
[3] "saper descrivere uno stato fisico del cervello".

Ora, tra la [1] e la [2] sussiste un nesso ben preciso. Infatti, avere una
certa rappresentazione significa essere un
essere-che-ha-quella-certa-rappresentazione (mi perdonerai i trattini che
fanno tanto "continentale":-)) - sì che, dal punto di vista logico, la [2] è
una individuazione specifica della [1], alla quale dunque inerisce una più
ampia generalità.
Perciò, la tesi [1.1.] in base alla quale per "sapere che cosa si prova ad
essere un certo essere" è necessario essere quel certo essere, implica che
[2.1] per "sapere che cosa si prova ad avere una rappresentazione" è
necessario avere quella certa rappresentazione. Possiamo perciò
generalizzare così la tesi:

per "sapere che cosa si prova ad essere x" è necessario essere x.

Dunque, poiché per te vale la tesi [1.1], allora per te vale anche la tesi
[2.1]. Inoltre, per te *non* vale l'implicazione [3]=>[2]. Ricapitoliamo la
tua posizione (che chiamo DP, come le tue iniziali):
(DP.i) *vale* la tesi [1.1] e dunque *vale* anche la tesi [2.1].
(DP.ii) *non vale* l'implicazione [3]=>[2].

L'eliminativista Dennett, invece, discutendo l'esperimento mentale di
Jackson, sostiene che una mente che, da una stanza dove tutto è b/n esplora
il mondo tramite un televisore b/n e possiede la conoscenza fisica completa
del fenomeno della visione cromatica, conosce perfettamente che cosa si
prova ad avere la visione cromatica, e dunque, una volta messa in rapporto
con i colori, non imparerà nulla. Ciò - come mostravo banalmente in un'altra
risposta - significa che per Dennett per "sapere che cosa si prova ad avere
una certa esperienza" non è necessario avere quella certa esperienza,
altrimenti Mary sarebbe contraddittoria.

Per l'eliminativismo di Dennett (posizione che chiamo DD, come le sue
iniziali), dunque:
(DD.i) *non vale* la tesi [2.1]
(DD.ii) *vale* l'implicazione [3]=>[2]

Domanda. Ho formalizzato bene il significato essenziale della tua posizione,
in quanto differente da quella di Dennett? Se scelgo Dennett, non è solo
perché è il filosofo della mente che conosco meglio (un pochino anche
Searle) - ma è proprio perché la radicalità del suo materialismo mi serve
come sfondo per dare una adeguata collocazione al tuo materialismo. Più
sotto, continuerò a sfruttare Dennett per questo scopo.
Post by Davide Pioggia
Beh, è semplice: glielo chiediamo :-)
[...]
Semplice: glielo chiediamo di nuovo :-)
[...]
Ad esempio siamo sicuri che "basta chiedere" per sapere
che cosa sta "veramente pensando" una mente? No, non ne siamo sicuri.
Ed ecco l'altro tormentone, quello del linguaggio:-). Ciò di cui siamo
sicuri, è che ascoltando X dire che sta pensando una certa cosa, noi - in
quanto orizzonte attuale in cui si costituiscono i dati - veniamo a
conoscere che cosa X dice di stare pensando. Il dato che si costituisce (e
nemmeno in modo "puro"), è questo dire.
Ma tornando in breve sul linguaggio. Proprio perché Dennett asserisce
l'implicazione [3]=>[2] - proprio cioè perché per lui la conoscenza completa
dello stato fisico implica la conoscenza di ciò che si prova ad avere quella
certa esperienza -, Dennett deve sostenere questa concezione del rapporto
tra linguaggio ed esperienza:
<<[...] siamo davvero così sicuri che ciò che si prova a vedere il rosso o
il blu non possa essere descritto, in qualche milione o miliardo di parole,
a chi non ha mai visto i colori? Che cosa vi è nel fare esperienza del
rosso, o del blu, che rende questo compito impossibile?(Non basta dire: sono
_ineffabilità_)>>.
Le due domande contenute in questo brano sono retoriche. Dal punto di vista
del suo materialismo, la risposta alla prima domanda è: no; quella alla
seconda domanda è: nulla. Se infatti ciò che si prova a vedere i colori non
potesse essere descritto - fosse cioè ineffabile -, allora la tesi di
Dennett risulterebbe immediatamente falsificata.
Ma allora qui - se la mia deduzione non è scorretta (se qualcuno che conosce
meglio di me Dennett ritiene che invece lo sia, è pregato di intervenire) -
possiamo comprendere anche un'altra cosa. Per Dennett per avere la
conoscenza completa dello stato fisico non è necessario trovarsi in quello
stato fisico. Altrimenti - di nuovo - visto che per lui trovarsi in quello
stato fisico *è* avere quella certa esperienza, si avrebbe che la conoscenza
completa dello stato fisico coinciderebbe con l'avere quella certa
esperienza (e di nuovo la scienziata Mary diventerebbe qualcosa di
contraddittorio, visto che stiamo assumendo che lei non ha mai avuto
esperienza della visione cromatica).

Perciò possiamo prolungare così la posizione DD sostenuta da Dennett:

(DD.iii) ciò che si prova ad avere una esperienza *può* essere descritto dal
linguaggio (ad abundantiam: comunicato ad una mente che non ha mai avuto
quella esperienza).
(DD.iv) per avere la conoscenza completa di uno stato fisico *non è
necessario* trovarsi in quello stato fisico.

Provo a prolungare la tua posizione DD così:
(DP.iii) ciò che si prova ad avere una esperienza *non può* essere descritto
dal linguaggio (nè, dunque, comunicato ad un'altra mente)
(DP.iv) per avere la conoscenza completa di uno stato fisico *non è
necessario* trovarsi in quello stato fisico.

Dico dunque che tu sul punto (iv) sostieni la stessa posizione che ho
assegnato a Dennett: non c'è quella necessità (anzi, potremmo dire che c'è
una impossibilità, a meno che non sia possibile autodescriversi). Infatti
per te se due cervelli si trovano in uno stesso stato fisico, allora
necessariamente stanno pensando la stessa cosa - e allora, se ci fosse
quella necessità, si avrebbe che il cervello C1 che conosce lo stato fisico
del cervello C2 si troverebbe nello stato mentale in cui si trova C2; ma
allora (se i cervelli sono due; e proprio questo è il punto:-)) si avrebbe
che la conoscenza dello stato fisico rende possibile la conoscenza di che
cosa si prova ad avere un certo stato mentale, *se* (discutibile?) è vero
che tale conoscenza è sempre connessa all'avere uno stato mentale (=non
posso avere una certa esperienza senza sapere al contempo che cosa si prova
ad avere quella esperienza che sto avendo).

Ci sarebbe molto altro da dire, ma mi fermo qui. Riponendo la domanda: ho
esposto correttamente la tua posizione circa il rapporto stato
cerebrale-esperienza-linguaggio, differenziandola, allo scopo che t'ho
detto, da quella di Dennett?
Post by Davide Pioggia
Così, come dicevo
nei giorni scorsi, quando tu e i tuoi colleghi scrivete >"Spirito
Assoluto"
Non l'ho poi scritto mica tante volte: http://snipurl.com/247wm
E allora già devi dire "ma è 'come se' l'avessi fatto":-).

Un saluto,

Marco
Marco V.
2008-04-12 17:49:23 UTC
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Post by Marco V.
per "sapere che cosa si prova ad essere x" è necessario essere x.
Potremmo ovviamente osservare che la generalizzazione della tesi è fallace,
perché l'implicazione significata da "è necessario che" potrebbe essere vera
per certi valori di x e falsa per altra.
Ad esempio, vera quando x ha il valore di una "sostanza seconda" (ad
esempio: uomo, pipistrello, sasso etc.) - e falsa, o non necessariamente
vera, quando x ha il valore di una determinazione che inerisce agli esseri
del tipo espresso dalla "sostanza seconda" (ad esempio:
aventi-la-esperienza-del-rosso, emettenti-e-percepienti-ultrasuoni,
essere-usati-come-proiettili-di-una-fionda etc.).
Ad esempio, potremmo dire che se è vero che non si può sapere che cosa si
prova ad essere un pipistrello senza essere un pipistrello, si può invece
sapere, senza averla, che cosa si prova ad avere una certa esperienza, a
patto di essere degli esseri fatti in un certo modoetc.

Questa differenziazione - che implica la non-validità di quella
generalizzazione, e che esprime proprio quella differenza tra piano
ontologico e piano epistemico cui si era richiamato Bernoulli - credo però
possa essere trascurata nell'ambito di un primo chiarimento della tua
posizione.

Marco.
Davide Pioggia
2008-04-13 15:39:22 UTC
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Post by Marco V.
Perciò, la tesi [1.1.] in base alla quale per "sapere che cosa si prova ad
essere un certo essere" è necessario essere quel certo essere, implica che
[2.1] per "sapere che cosa si prova ad avere una rappresentazione" è
necessario avere quella certa rappresentazione. Possiamo perciò
per "sapere che cosa si prova ad essere x" è necessario essere x.
Dunque, poiché per te vale la tesi [1.1], allora per te vale anche la tesi
[2.1]. Inoltre, per te *non* vale l'implicazione [3]=>[2]. Ricapitoliamo
(DP.i) *vale* la tesi [1.1] e dunque *vale* anche la tesi [2.1].
(DP.ii) *non vale* l'implicazione [3]=>[2].
Mi riconosco abbastanza in questa descrizione, salvo una riserva che ti
esporrò fra poco al momento di rispondere alla domanda che mi poni.
Post by Marco V.
L'eliminativista Dennett, invece, discutendo l'esperimento mentale di
Jackson, sostiene che una mente che, da una stanza dove tutto è b/n
esplora il mondo tramite un televisore b/n e possiede la conoscenza fisica
completa del fenomeno della visione cromatica, conosce perfettamente che
cosa si prova ad avere la visione cromatica, e dunque, una volta messa in
rapporto con i colori, non imparerà nulla. Ciò - come mostravo banalmente
in un'altra risposta - significa che per Dennett per "sapere che cosa si
prova ad avere una certa esperienza" non è necessario avere quella certa
esperienza, altrimenti Mary sarebbe contraddittoria.
Per l'eliminativismo di Dennett (posizione che chiamo DD, come le sue
(DD.i) *non vale* la tesi [2.1]
(DD.ii) *vale* l'implicazione [3]=>[2]
Domanda. Ho formalizzato bene il significato essenziale della tua
posizione, in quanto differente da quella di Dennett?
Nì :-)

Innanzi tutto non mi sembra che Dennett dica che Mary «conosce perfettamente
che cosa si prova ad avere la visione cromatica», ma sostiene che uscendo
dalla stanza in b/n Mary "non impara nulla di nuovo". Non so se siano
esattamente queste le parole di Dennett (tu hai l'articolo orginale in cui
egli replica a Jackson?), ma è così che l'ho memorizzato io.

Ebbene, la riserva che ho avanzato sopra sul modo in cui tu hai esposto il
mio pensiero mi sembra abbastanza ampia da rendere sovrapponibile la mia
posizione al modo in cui ho riformulato la posizione di Dennett, ed ora
provo a spiegarti perché.

Quando si discute con certi filosofi di modelli della mente eccetera,
dopo un po' quelli aggrottano la fronte, sollevano il sopracciglio, si fanno
pensierosi, e dicono: «Sì, ma manca ancora qualcosa». Se si chiede loro
che cosa è quel qualcosa che manca quelli si infilano in un ginepraio di
concetti indefiniti fra cui spiccano i "qualia" e altre cose così. Allora il
povero scienziato, per cercare di rendere possibile il dialogo, è costretto
a fare qualche passo in direzione del filosofo, cercando al contempo di
mantenere la "chiarezza operativa" dei concetti. È una impresa disperata e
praticamente impossibile, ma qualcosa si può fare. Uno stratagemma che
io ed altri usiamo spesso è proprio quello della "coscienza fenomenica".
Si tratta di porre al filosofo la seguente domanda:

«Senti, stai forse cercando di dire che per quanto io possa studiare un
cervello se non ho mai provato la sensazione di vedere il rosso non potrò
mai "sapere" che cosa si prova a vedere il rosso? Vuoi dire, ad esempio,
che se arrivassero sulla Terra degli extraterresti evolutissimi che non
usano le onde elettromagnetiche visibili per osservare il mondo (potrebbero
usare i campi magnetici, o quelli gravitazionali) costoro, anche quando
studiassero il cervello umano in ogni minimo dettaglio e diventassero
persino capaci di prevedere la sua reazione ad ogni possibile stimolo,
non potrebbero mai "sapere" che cosa si prova a vedere il rosso?
È questo che stai cercando di dire? Vuoi dire, in definitiva, che io
studiando un essere dotato di "coscienza" non potrò mai sapere che
cosa si prova ad *essere quell'essere* (scusa il gioco di parole)?»

La reazione del filosofo di fronte a questa domanda è imprevedibile :-)
Alcuni dicono che sì, è proprio quello che intendevano quando hanno
tirato fuori i "qualia" (o magari gli "homuncoli"). Se il filosofo accetta
di riconoscersi in questa esposizione, allora per lo scienziato le cose si
semplificano un po'. Infatti ora è chiaro quale è (anzi, quale *sarebbe*) il
modo "operativo" di ottenere "ciò che manca". Bisognerebbe infatti *essere
ciò che non si è*. Ciò che "si dovrebbe fare" per ottenere quel "qualcosa
che manca" è una cosa è non solo è impossibile da farsi, ma a ben vedere è
addirittura assurda, inconcepibile.

Che cosa ho ottenuto in questo modo? Ho trasformato il senso di
insoddisfazione del filosofo in qualcosa di "operativo" per fagli vedere
che ciò che "si dovrebbe fare" per soddisfarlo è assurdo e inconcepibile.
In quanto tale quel "qualcosa che manca" non è un vero e proprio "sapere".
Non è qualcosa che prima non si sa e poi osservando e analizzando il mondo
si può "imparare". Noi parliamo di "sapere" e di "imparare" rimanendo
centrati nel nostro essere soggetti che osservano degli oggetti. In questa
operazione di conoscenza/apprendimento non è concepibile l'atto di
"diventare l'oggetto".

Così dal mio punto di vista quando Dennett dice che Mary ucendo finalmente
dalla stanza "non impara nulla" non vuole dire che il fatto di poter vedere
i colori sia un "nulla", ma vuol dire che non è una cosa che possa essere
"imparata" e dunque "conosciuta". Il fatto di aver visto il rosso non è un
"apprendimento", tant'è che anche dopo aver visto il rosso Mary non potrebbe
mai e poi mai "spiegare" a qualcuno che cosa si prova ad *essere* uno
(o una) che vede il rosso. Diciamo allora che "quella cosa che manca"
è una cosa su cui "non c'è niente da dire". Se vuoi questo discorso potrebbe
essere ricollegato a quell'altro, quello che tenta di rivolvere i "paradossi
dell'essere" affermando che "l'esistenza non è un predicato". Ecco, ora
potremmo dire che "essere qualcosa non è una conoscenza".

È alla luce di queste considerazioni che credo di poter dire che la mia
posizione è sovrapponibile a quella di Dennett, tant'è che entrambe le
posizioni arrivano a considerare del tutto insensati e irrilevanti i
discorsi sui "qualia".
--
Saluti.
D.
Marco V.
2008-04-15 10:51:06 UTC
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Post by Davide Pioggia
Nì :-)
Innanzi tutto non mi sembra che Dennett dica che Mary «conosce perfettamente
che cosa si prova ad avere la visione cromatica», ma sostiene che uscendo
dalla stanza in b/n Mary "non impara nulla di nuovo". Non so se siano
esattamente queste le parole di Dennett (tu hai l'articolo orginale in cui
egli replica a Jackson?), ma è così che l'ho memorizzato io.
Ebbene, la riserva che ho avanzato sopra sul modo in cui tu hai esposto il
mio pensiero mi sembra abbastanza ampia da rendere sovrapponibile la mia
posizione al modo in cui ho riformulato la posizione di Dennett, ed ora
provo a spiegarti perché.
In effetti, da un punto di vista logico, la affermazione che Mary (la
scienziata del colore) non imparerà nulla di nuovo non equivale
necessariamente alla affermazione che Mary conosce che cosa si prova ad
avere la visione cromatica. Infatti noi potremmo, senza contraddizione
immediata, da un lato affermare che Mary uscendo dalla stanza in b/n, non
imparerà nulla di nuovo, e dall'altro continuare a negare che Mary sapeva,
stando nella stanza, che cosa si prova ad avere la visione cromatica - e
potremmo farlo sulla base della assunzione (che utilizzi più sotto per
argomentare la sovrapponibilità della tua posizione a quella di Dennett) che
la cosa che si prova ad avere la visione cromatica non sia un qualcosa che
può essere imparato.

Passando a Dennett. Ho sottomano la traduzione italiana del suo "Sweet
dreams. Philosophical obstacles to a science of consciousness" (2005; trad.
it. di A.Cilluffo, ed. Raffaello Cortina 2006). Dennett
espose le sue obiezioni all'argomento originale di Jackson (che,
ricordiamolo, concludeva con la falsificazione della tesi fisicalista) in
"Consciousness Explained", un lavoro del 1991. In questo lavoro Dennett
faceva uso, per confutare Jackson, dell'argomento della "banana blu". In
sostanza: quando Mary, la scienziata del colore, esce dalla stanza in b/n,
la sua prima esperienza cromatica consiste nella visione di una banana che
qualcuno ha pitturato di blu. Che cosa accade? Dennett cita il brano
relativo nel suo lavoro del 2005:
<<Appena Mary la vide disse: "Ehi! Cercavate di prendermi in giro! Le banane
sono gialle, ma questa è blu!>>. Come ha fatto a capirlo? Così:
<<[...] prima che mi faceste vedere la banana, naturalmente sapevo già, in
tutti i minimi dettagli, quali impressioni fisiche esatte un oggetto giallo
o un oggetto blu (o uno verde ecc.) avrebbe provocato sul mio sistema
nervoso. Così sapevo già quali _pensieri_ avrei avuto (perché, dopotutto, la
"mera disposizione" a pensare su questo o quello non è uno dei vostri famosi
qualia?). Non sono stata minimamente sorpresa dalla mia esperienza del
blu>>.

Ora, commentando, nel suo lavoro del 2005, questo suo argomento del 1991,
Dennett scrive:
<<Che cosa volevo dire? Volevo dire che Mary aveva _esattamente _immaginato,
usando la sua vasta competenza della scienza del colore, _cosa avrebbe
provato nel vedere_ qualcosa di rosso, qualcosa di giallo, o qualcosa di
blu, prima di avere quelle esperienze. Lo asserivo senza mezzi termini -
_alla faccia vostra_, per così dire [...]>>.
E in una nota, per rispondere all'obiezione (legittima) di un certo
Robinson, in base alla quale egli non avrebbe rispettato la <<distinzione
che [...] esiste tra conoscenza di _cosa uno direbbe e come reagirebbe_ e
conoscenza di _cosa si prova_, Dennett aggiunge:
<<Se tale distinzione esiste, non è stata ancora formulata e difesa[...].
Anche se Mary sapesse _ogni cosa_ su cosa direbbe e come reagirebbe, questo
è lontano dal chiarire che non saprebbe cosa si prova nel vedere>>.

Direi perciò che:
1. pare proprio che per Dennett la conoscenza fisica completa garantisce la
conoscenza del che-cosa-si-prova ad avere una certa esperienza. A me sembra
che la tesi di Dennett abbia la seguente implicazione(ma sono sempre pronto
ad essere corretto da chi conosce Dennett meglio di me), che Dennett assume
esplicitamente:
è possibile conoscere che-cosa-si-prova ad avere una esperienza, _prima di
avere_ (e dunque senza avere) questa esperienza.

2. per sostenere questa tesi, Dennette deve fare due cose. Deve (i)
determinare il rapporto tra linguaggio e che-cosa-si-prova-ad avere una
certa esperienza, in modo tale che questa cosa sia suscettibile di una
descrizione linguistica; e deve (ii) negare che il sapere che-cosa-si-prova
ad avere una certa esperienza, sia necessariamente co-attuale all'avere
l'esperienza stessa.

A me pare, invece, che la tua posizione si trovi in disaccordo con questi
due punti fondamentali. Potremmo sicuramente notare che "immaginare" non
significa "conoscere" - e che dunque "immaginare che-cosa-si-prova" non
significa immediatamente "conoscer che-cosa-si-prova". Tuttavia non mi pare
che Dennett sfrutti questa differenza - e laddove la menziona (vedi più
sotto), lo fa senza concludere che, in virtù di quella differenza, si deve
dire che Mary non può conosce che-cosa-si-prova ad esperire i colori in
assenza di tale esperienza.

3.Noi abbiamo una collezione di espressioni - "sapere che cosa si prova ad
avere l'esperienza x", "imparare qualcosa di nuovo su y", "sapere che cosa
si prova ad essere z" etc. Ciascuna di queste espressione salta in genere
fuori quando approfondiamo l'analisi del problema della relazione tra stato
mentale e stato cerebrale. Ma il campo entro cui sono contenute queste
espressioni, e l'uso che di esse può essere fatto, rimane quello delimitato
dalla contrapposizione originaria tra l'*avere l'esperienza* e il *non avere
l'esperienza*: non è possibile alcuna teoria del rapporto fisico-mentale,
che trasformi il non avere una esperienza in un avere l'esperienza.
Tanto per fare un esempio. Dennett tira fuori l'espressione "_immaginare_
cosa avrebbe provato a...". Ma, come lui stesso riconoscere, se è vero che
non possiamo immediatamente escludere che la condizione "Mary si è sempre
trovata in una stanza in b/n" sia in grado di garantirci logicamente che
Mary non possa aver _immaginato_ l'esperienza cromatica ed il suo correlato
fenomenico - se questa cosa è vera (e dunque l'esperimento mentale di
Jackson comincia a divenire più complicato di quanto non sembrerebbe alla
nostra intuizione), è anche vero che se non si riuscisse a *distinguere*
l'immaginazione dell'esperienza cromatica e del suo correlato fenomenico
dall'esperienza cromatica stessa, allora la tesi antifisicalista di Jackson
uscirebbe confermata. Infatti, se immaginare l'esperienza cromatica fosse
non distinguibile dall'avere l'esperienza, allora Mary, immaginando di
esperire il rosso, *starebbe esperendo* il rosso, ed è sul fondamento della
esperienza del rosso, che Mary conoscerebbe che-cosa-si-prova ad avere
esperienza del rosso.

4. Ribadire la contrapposizione originaria ed inoltrepassabile tra avere una
esperienza e non avere una esperienza può sembrare una di quelle solite
strategie culturali attraverso le quali il filosofo, cioè il bambino,
inanellando tautologie, cerca di di dire agli scienziati, cioè agli adulti:
"qualunque cosa escogiterete, non riuscirete mai a smontarmi questo: A=A e A
non è non-A" e così via.
E invece le cose non stanno esattamente così. Quella contrapposizione non
solo è il punto di riferimento, più o meno esplicito, di tutte le
argomentazioni che si possono costruire sulla teoria del rapporto
fisico-mentale - ma ha anche strettamente a che fare con la questione della
*identità* dell'esperiente; questione, questa, che non casualmente esce
fuori, quando proviamo a dire che due cervelli nello stesso stato fisico,
necessariamente stanno pensando la stessa cosa.
Marco V.
2008-04-15 12:18:28 UTC
Permalink
[...]
Ops, ho dimenticato i saluti di rito.

Un saluto,

Marco
Davide Pioggia
2008-04-16 14:11:23 UTC
Permalink
Post by Marco V.
Passando a Dennett.
[...]
«Appena Mary la vide disse: "Ehi! Cercavate di prendermi in giro! Le
«[...] prima che mi faceste vedere la banana, naturalmente sapevo già, in
tutti i minimi dettagli, quali impressioni fisiche esatte un oggetto
giallo o un oggetto blu (o uno verde ecc.) avrebbe provocato sul mio
sistema nervoso. Così sapevo già quali _pensieri_ avrei avuto (perché,
dopotutto, la "mera disposizione" a pensare su questo o quello non è uno
dei vostri famosi qualia?). Non sono stata minimamente sorpresa dalla mia
esperienza del blu».
Ora, commentando, nel suo lavoro del 2005, questo suo argomento del 1991,
«Che cosa volevo dire? Volevo dire che Mary aveva _esattamente
_immaginato, usando la sua vasta competenza della scienza del colore,
_cosa avrebbe provato nel vedere_ qualcosa di rosso, qualcosa di giallo, o
qualcosa di blu, prima di avere quelle esperienze. Lo asserivo senza mezzi
termini - _alla faccia vostra_, per così dire [...]».
E in una nota, per rispondere all'obiezione (legittima) di un certo
Robinson, in base alla quale egli non avrebbe rispettato la <<distinzione
che [...] esiste tra conoscenza di _cosa uno direbbe e come reagirebbe_ e
«Se tale distinzione esiste, non è stata ancora formulata e difesa[...].
Anche se Mary sapesse _ogni cosa_ su cosa direbbe e come reagirebbe,
questo è lontano dal chiarire che non saprebbe cosa si prova nel vedere».
Se questa è la posizione di Dennett, per certi versi faccio molta fatica a
riconoscermi in essa, perché la trovo fortemente riduttiva, e per altri
versi mi verrebbe da dire che lo capisco e arrivo quasi a condividere le sue
parole.

Ci sono due aspetti del discorso di Dennett che me lo fanno apprezzare:

1) è un discorso dettato da una profonda insofferenza nei confronti dei
"qualia" e di altri armamentari del genere, una insofferenza che ti spinge a
scrollarteli di dosso a volte in modo anche brusco, della serie:
«non se ne può più dei "qualia"»;

2) come dicevo nel post precedente, "ciò che manca" a Mary che vive nella
stanza in b/n non si lascia definire come una vera e propria "conoscenza",
come qualcosa che "si sa"; sembra quasi che quella cosa sia una cosa di cui
"non c'è nulla da dire".

Ecco, premesso che questa è più o meno la mia posizione, e che esprimendola
in questo modo mi sento vicino a Dennett, io non direi - come fa Dennett -
che
*siccome*
«prima che mi faceste vedere la banana, naturalmente sapevo già, in tutti i
minimi dettagli, quali impressioni fisiche esatte un oggetto giallo o un
oggetto blu (o uno verde ecc.) avrebbe provocato sul mio sistema nervoso»
*allora*
«sapevo già quali _pensieri_ avrei avuto».

No, questo non lo direi.

Se noi scoprissimo una specie extraterrestre il cui sistema nervoso ha
dei sensori che percepiscono, che so, l'intensità e la variazione dei campi
gravitazionali, sicché essi possono ascoltare, per così dire, "la musica
delle stelle", noi forse saremmo in grado di analizzare in ogni minimo
dettaglio la reazione di quel sistema nervoso al campo gravitazionale, ma
non potremmo mai rispondere ad uno di quegli extraterrestri quando ci
dicesse: «Senti che bella questa sinfonia galattica!». E d'altra parte,
senza ricorrere alla fantascienza, non si può negare che quando Mary esce
dalla stanza "qualcosa accade", e il mondo interiore di Mary si arricchisce
di "qualcosa".

Dunque se Dennett vuole ridurre quel "qualcosa" a nulla, e me non sta bene.
Tuttavia capisco benissimo Dennett quando si rifiuta di definirlo qualcosa
che si possa "sapere". Io stesso mi trovo fortemente a disagio nell'usare
quel verbo, tant'è che nel definire la "coscienza fenomenica" parlo di
qualcosa che "si prova" non che "si sa". Così per me la "coscienza
fenomenica di Marco" è ciò che "si prova" ad essere Marco.
Ma è forse qualcosa che "si sa"?

Qui, per altro, si vede chiaramente che il mio è uno "statagemma" per
ridurre quelle "obiezioni" a qualcosa di assurdo e insensato. Infatti quando
parlo do ciò che "si prova" ad essere Marco sto usando uno stratagemma
puramente grammaticale, che è la costruzione impersonale. Nella realtà,
però, non esistono i fatti e gli atti impersonali. Se "si prova", c'è
*qualcuno* che "prova". Ebbene, *chi* potrebbe essere a provare ciò che si
prova ad essere Marco? Proviamo ad eliminare la costruzione impersonale:
dovrei dire che *io* per "conoscere" la "coscienza di Marco" dovrei "sapere"
che cosa "si prova" ad *essere Marco*. Non è chiaramente assurdo e insensato
tutto ciò? Di cosa stiamo parlando, che cosa stiamo dicendo? Tanto per
cominciare, è inconcepibile che io, che sono io, possa essere Marco.
Ma a parte questo, ripeto che non mi pare sensato usare il verbo "conoscere"
per descrivere l'"esperienza di essere" (che in generale è l'esperienza di
esser-ci e in questo caso sarebbe l'esperienza di essere, per così dire, nei
panni di Marco).

Qui siamo oltre i limiti del linguaggio. Il linguaggio è fatto per
descrivere le esperienze di un soggetto che osserva degli oggetti restando
centrato sul suo essere soggetto e sul suo essere sé stesso. Se tentiamo di
andare oltre allora il linguaggio - e dunque anche il pensiero - non ci
seguono più, si rivelano inadeguati.

Tuttavia io tremo nel dire che il linguaggio e il pensiero si rivelano
inadeguati per andare oltre un certo punto, perché ci sono i mistici
perennemente in agguato che orecchiano ogni possibile discorso (capendone
spesso la minima parte) e aspettano solo che uno professi i limiti del
linguaggio e del pensiero per poter dire: «Ecco, tutta la tua scienza e la
tua ragione possono spingersi fino a lì, e oltre quel limite invalicabile
c'è...». Segue quindi tutta una produzione mitologica e fantastica che al
confronto gli sceneggiatori di Hollywood sembrano degli impiegati del
catasto. Ma come, abbiamo detto che quelli sono i limiti invalicabili del
linguaggio e del pensiero e tu pretendi di *descrivere* che cosa c'è oltre
quel limite? I casi sono due:
a) o tu sei d'accordo con me che quelli sono i limiti del linguaggio e del
pensiero, e allora se proprio vuoi fondare su di essi una mistica ti
accontenti di una purissima "teologia negativa";
b) oppure non sei d'accordo con me su quei limiti, e allora mi spieghi per
benino perché e percome non sei d'accordo.

In mezzo a tutte queste insensatezze e assurdità appare saggia la posizione
riduttiva di Dennett, il quale per certi versi sta dicendo che su "quella
cosa" non c'è niente da dire, e tanto meno la si può considerare una
"conoscenza". Ma allora, se non è una conoscenza, dobbiamo anche ammettere
che *tutto ciò che c'è da sapere Mary lo sapeva già*. Lo so che detta così
sembra riduttiva in modo inaccettabile, ed io stesso esito a usare questi
modi e questi toni per chiudere il discorso, ma l'esperienza di trovarsi a
discutere con uno che ti tira fuori i "qualia" è molto frustrante, e ti
rende piuttosto insofferente.
Post by Marco V.
4. Ribadire la contrapposizione originaria ed inoltrepassabile tra avere
una esperienza e non avere una esperienza può sembrare una di quelle
solite strategie culturali attraverso le quali il filosofo...
Sì, è vero che in questo punto ci troviamo di fronte a qualcosa di
"trascendentale", ma non me la sento di consegnare questo aggettivo
nelle mani dei mistici e neanche in quelle dei... mistici mancati.
Come dicevo sopra, da quell'aggettivo, al limite, si può ricavare solo una
purissima "teologia negativa". Invece viene puntualmente usato per
dimostrare che tizio o caio sono i nemici della Vera Fede o del Bene Comune,
o per dimostrare che la Prussia (o il Duce, o quel che è) incarna lo Spirito
della Storia, o altre cose così.

No, non me la sento. Se proprio devo scegliere alla fine sto con Dennett.
--
Saluti.
D.
Marco V.
2008-04-18 16:36:04 UTC
Permalink
Post by Davide Pioggia
[...]
1) è un discorso dettato da una profonda insofferenza nei confronti dei
"qualia" e di altri armamentari del genere, una insofferenza che ti spinge a
«non se ne può più dei "qualia"»;
2) come dicevo nel post precedente, "ciò che manca" a Mary che vive nella
stanza in b/n non si lascia definire come una vera e propria "conoscenza",
come qualcosa che "si sa"; sembra quasi che quella cosa sia una cosa di cui
"non c'è nulla da dire".
Circa il punto 2), che è quello teoreticamente fondamentale. Quel "nulla" è
tale, per Dennett (per come cioè stiamo ricostruendo, aiutati dai testi, la
sua posizione filosofica in merito), da annullare la distanza tra "ciò che
si prova" ed il linguaggio. Dennett infatti, sempre in quel lavoro del 2005
che sto utilizzando, pone provocatoriamente questa domanda:
<<Quale fatto o principio sto contraddicendo quando ipotizzo uno scenario in
cui Mary è in grado di dedurre come le apparirebbero i colori sulla base di
quello che sa a proposito di essi?>>
Ecco la risposta che egli stesso mette sulla bocca di un suo ipotetico
avversario dialettico:
<<Ma questo è banalmente ovvio! _Non puoi dedurre come ti apparirà un colore
se non l'hai mai visto!_>>.
La risposta di Dennett non si fa attendere:
<<Devo ammettere che si tratta di un interessante teorema del senso comune.
Eccone un'altro: se rurri, starnuti e scoreggi nello stesso istante, muori.
Mi sembra plausibile. Ma esiste una qualche evidenza scientifica per
entrambi?>>.

Ora, o questa differenza tra la tua posizione e quella di Dennett è
riducibile o addirittura abolibile dalla condivisione della diffidenza verso
l'immissione dell'argomento dei qualia nel dibattito filosofico sul rapporto
mente-cervello. Oppure tale differenza ha un irriducibile fondamento
teoretico. Nel primo caso, però - se cioè ad essere centrale è quella
diffidenza condivisa - tu e/o Dennett dovete fare attenzione a prendere la
massima distanza possibile dalla famigerata fallacia "ad consequentiam".
Non è - come ovviamente mi riconoscerai - che solo perché la affermazione di
un "qualcosa" di non spiegabile dal materialismo fisicalista lascia in
qualche modo la porta aperta al misticismo, allora quella affermazione deve
essere cancellata.

Ma prendiamo in esame la seconda possibilità.
Post by Davide Pioggia
[...]
E d'altra parte,
senza ricorrere alla fantascienza, non si può negare che quando Mary esce
dalla stanza "qualcosa accade", e il mondo interiore di Mary si arricchisce
di "qualcosa".
Dunque se Dennett vuole ridurre quel "qualcosa" a nulla, e me non sta bene.
Ecco, qui c'è il punto fondamentale. Grosso modo, e senza entrare nei
dettagli tecnici, la tesi del fisicalismo è che le verità fisiche (quelle
verità espresse nel linguaggio della fisica), sono in grado di "ridurre a
sé" (entrare nei dettagli tecnici significherebbe determinare il senso di
questa espressione) le verità fenomeniche (quelle verità espresse "in prima
persona" nel linguaggio della soggettività dell'esperienza). Perciò se tu
condividi il fisicalismo, devi condividere - ed infatti è proprio ciò che
condividi, quando dici che stato mentale e stato cerebrale sono due
descrizioni equivalenti di un medesimo fenomeno etc. - questa tesi.

Ora, Dennett riconosce *certamente* che, quando Mary esce per la prima volta
dalla stanza in b/n, allora qualcosa accade (ed accade per la prima volta).
Il suo fisicalismo, infatti, non può in alcun modo oltrepassare la
contrapposizione tra avere una esperienza e non avere una esperienza. Ciò
che accade è proprio che Mary ha (per la prima volta) una esperienza della
visione cromatica.
Per Dennett, però, *tutto* ciò che si può *sapere* della visione cromatica,
è *anticipato* da Mary (in quanto lei dispone di una conoscenza fisica
completa del fenomeno della visione completa). E ciò vale anche per te,
visto che per te: (1) in generale, ciò che si prova ad avere una esperienza
non è un qualcosa che possa essere "saputo".
(2) dunque, la conoscenza fisica completa del fenomeno della visione
cromatica non può consentire a Mary di sapere ciò che si prova ad avere la
visione cromatica.
(3) ma tutto ciò che può essere saputo circa l'esperienza della visione
cromatica, è già saputo da Mary, in quanto lei dispone della conoscenza
fisica completa del fenomeno della visione cromatica.

L'accordo tra te e Dennett sul punto (3) cela un disaccordo sui punti (1) e
(2). Guarda un po' che cosa dice Dennett. Egli accetta che il carattere
fenomenico (il cosa-si-prova-a-essere) sia in tutto e per tutto identico al
<<contenuto intenzionale, non concettuale, astratto e in grado di provocare
certe risposte cognitive>> (e questa è la famosa teoria PANIC, che è
l'acronimo inglese dib questa espressione, che Tye ha elaborato per la
fenomenicità dell'esperienza). Ora, Mary sa tutto delle proprietà PANIC, che
sono delle proprietà *disposizionali*. Perciò la domanda è: conoscere le
proprietà disposizionali esaurisce la conoscenza? Per Dennett non esiste
alcuna conoscenza diretta di tali proprietà - quella conoscenza, cioè, che
si avrebbe quando uno ha *effettivamente* l'esperienza in questione. Proprio
questa conoscenza diretta fornirebbe quella <<ricchezza>> sconosciuta alla
Mary che, sapendo tutto delle proprietà disposizionali dell'esperienza del
colore, se ne sta al chiuso di una stanza in b/n. Dice Dennett:
<<[...] la ricchezza che apprezziamo, quella a cui ci affidiamo per ancorare
i nostri atti di ostensione interna e di riconoscimento, è _composta di e
spiegata da_ quell'insieme complesso di proprietà disposizionali che Tye ha
chiamato proprietà PANIC>>. E poi parla dell'<<errore di assumere che, in
aggiunta a tutto questo, esista un livello di "conoscenza diretta" delle
"proprietà fenomeniche">>.

Proviamo a fare il punto, allora.

(a) La differenza tra avere una esperienza e non avere una esperienza è
inoltrepassabile ed innegabile. Per definizione, Mary, standosene nella
stanza in b/n, *non ha* l'esperienza del colore - e perciò, in *qualunque*
modo il materialismo fisicalismo volesse spiegare l'esperienza del colore,
esso deve mantenere ferma, ed essere in grado di mantenere ferma, quella
differenza.

(b) Ogni volta che i negatori della tesi fisicalista vogliono fare
riferimento a quel "qualcosa" che manca nella conoscenza fisica completa di
cui Mary dispone, essi devono parlare di una certa X (i "qualia", il
"carattere fenomenico", "la conoscenza diretta delle proprietà fenomeniche"
etc.) in grado di spiegare in qualche modo la differenza tra avere una
esperienza e non avere una esperienza, cioè ciò che fa di una esperienza ciò
che essa è: una esperienza. Essi, cioè, per far sì che questa
differenza inoltrepassabile tra avere e non avere una esperienza si rivolti
contro il fisicalismo, non possono limitarsi ad enunciarla, ma devono:

(b.1) dire in che cosa essa consista - e per farlo, devono tirare fuori una
X che dica qualcosa di più rispetto a ciò che rimane detto dalla mera
enunciazione formale della contrapposizione tra avere e non avere una
esperienza - e poi devono:
(b.2) affermare che questa X è ciò che può essere conosciuto solo sulla base
dell'avere effettivamente l'esperienza, e di cui la conoscenza fisica
completa è costitutivamente ed irrimediabilmente manchevole.

(c) Davanti a questa X, la tesi fisicalista ha sostanzimente tre
possibilità:
(c.1) affermare che X è già nella conoscenza fisica completa - e dunque
costringere i suoi negatori ad introdurre una versione X' della X, in modo
che di X' si possa fare la stessa cosa etc.
(c.2) affermare che questa X semplicemente non esiste, non ha senso etc. ed
è per questa ragione, che il fisicalismo non può renderne conto.
(c.3) affermare che questa X non può essere "conosciuta", "saputa" etc. ed è
per questa ragione che il fisicalismo non può renderne conto.

Ora, a me sembra che la tua soluzione coincida con (c.3) - laddove quella di
Dennett fa uso sia di (c.1) sia di (c.2).
Post by Davide Pioggia
Tuttavia capisco benissimo Dennett quando si rifiuta di definirlo qualcosa
che si possa "sapere". Io stesso mi trovo fortemente a disagio nell'usare
quel verbo, tant'è che nel definire la "coscienza fenomenica" parlo di
qualcosa che "si prova" non che "si sa". Così per me la "coscienza
fenomenica di Marco" è ciò che "si prova" ad essere Marco.
Ma è forse qualcosa che "si sa"?
Ovviamente ciò che si prova ad essere x può per definizione essere *provato*
solo essendo x - per cui la questione è se ciò che si prova ad essere x
possa essere "conosciuto", "saputo", "appreso", "colto" etc. Dobbiamo cioè,
affinché la questione non sia logicamente risolta dalla impossibilità che
ciò che si prova ad essere x sia provato non essendo x, fare uso di un verbo
che sia "intenzionale" e che sia diverso da "provare". Altrimenti staremmo
presupponendo che ciò che si prova ad essere x può essere "conosciuto",
"saputo", "appreso", "colto" etc. solo essendo x.

Ora, quest'ultima è proprio la tesi negata da Dennett. Egli - ed è proprio
questo che dovremmo chiarirci - non dice
(per lo meno non lo dice espressamente) che ciò-che-si-prova-ad-essere non
sia definibile nei termini
di qualcosa che possa essere "saputo", "conosciuto" etc. Egli infatti
argomenta direttamente contro la tesi della ineffabilità di ciò che si prova
quando si prova a fare una certa esperienza. Ciò significa che egli ritiene
che la sua tesi fisicalista si trovi logicamente *esposta* alla affermazione
della ineffabilità del ciò-che-si-prova-ad-essere.

Recuperiamo il nostro discorso. Per te il rapporto tra fisico e mentale è
tale che ci sono due descrizioni, chiamiamole D(F) (la descrizione fisica) e
D(M) (la descrizione mentale), che sono due descrizioni equivalenti di uno
stesso fenomeno. Sulla base di questa equivalenza, tu dici che deve essere
possibile passare da D(F) a D(M). Ora, D(F) non potrà
essere altro che una stringa linguistica del tipo "questo cervello ha queste
e queste altre proprietà", e D(M) non potrà essere altro che una stringa
linguistica del tipo "qui c'è una rosa di un colore così e così e con un
profumo così e così". Ora, vorrei capire se la posizione da te sostenuta è
la seguente:

la stringa linguistica D(M) che può essere ricavata (conoscendo la funzione
di "equivalenza") da D(F) è in tutto e per tutto la *stessa* stringa che può
produrre chi sta avendo quella esperienza il cui correlato fisico è
completamente descritto dalla descrizione D(F) - in modo tale, cioè, che la
mente che sta avendo l'esperienza di cui D(F) è il correlato fisico, non può
aggiungere nulla che sia in grado di descrivere l'esperienza e che non sia
già ricavabile dalla stringa D(F).

E' così?
Per te la X che separa la esperienza dalla non esperienza è oltre il
linguisticamente dicibile, ed il mondo interiore di Mary, dopo l'esperienza
dei colori, è più ricco. Ma per Dennett? Per lui (come per te) la differenza
tra avere una esperienza e non avere una esperienza non è ciò - e dunque è
un "nulla" di un siffatto "ciò" - che rende impossibile una spiegazione
completamente materialistica della mente. Ma questo "nulla" non può essere
il nulla che renderebbe nulla la differenza tra avere una esperienza e non
averla. Ma allora ecco che la questione ridiviene subito metafisica. Dennett
nega che esista una "ricchezza" di cui Mary, che *non* ha l'esperienza dei
colori, sia manchevole. Per lui l'eperienza dei colori non aggiunge "nulla".
Ma cosa dobbiamo dedurne? Che la coerenza della spiegazione materialista
della mente si fonda sul fatto che l'esperienza, nel suo differenziarsi
dalla non-esperienza, è un "nulla" di contenuto (e dunque nulla che possa
essere "conosciuto" etc.)? Il "contenuto" può essere *lo stesso*, e tuttavia
la non esperienza può continuare a differenziarsi dalla esperienza?

Un saluto,

Marco
Davide Pioggia
2008-04-20 19:10:00 UTC
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Post by Marco V.
Recuperiamo il nostro discorso. Per te il rapporto tra fisico e mentale è
tale che ci sono due descrizioni, chiamiamole D(F) (la descrizione fisica)
e D(M) (la descrizione mentale), che sono due descrizioni equivalenti di
uno stesso fenomeno. Sulla base di questa equivalenza, tu dici che deve
essere possibile passare da D(F) a D(M). Ora, D(F) non potrà
essere altro che una stringa linguistica del tipo "questo cervello ha
queste e queste altre proprietà", e D(M) non potrà essere altro che una
stringa linguistica del tipo "qui c'è una rosa di un colore così e così e
con un profumo così e così".
Non mi riconosco in questa posizione, e provo a spiegarti perché riprendendo
alcuni esempi che ho discusso nei giorni scorsi.

Immagina di avere un gas raccolto in una ampolla, e che questa ampolla sia
collegata ad un'altra ampolla vuota per mezzo di un tubo chiuso da una
valvola, sicché il gas è tutto contenuto nella prima ampolla. Se ad un certo
punto viene aperta la valvola, in un tempo relativamente brave il gas si
diffonde in modo uniforme in entrambe le ampolle. Per descrivere questo
fenomeno il gas viene considerato come una sostanza fisica, e le sue
proprietà vengono descritte in termini termodinamici, parlando di volume,
pressione, temperatura, entropia, eccetera.

Supponiamo ora che un gas sia effettivamente costituito da un insieme di
particelle in moto che urtano continuamente l'una contro l'altra e contro le
pareti del contenitore che racchiude il gas. Così, disponendo di un
microscopio abbastanza potente noi potremmo fare un ingrandimento fino
ad avere sotto gli occhi una "scena" nella quale - per l'appunto - si vedono
solo alcune particelle che urtano le une contro le altre e contro le pareti
del contenitore. Qualcosa di simile ad un biliardo sul quale le palle
vengano tenute continuamente in movimento.

Ebbene, osservando quella "scena" tu non vedresti altro che l'ingrandimento
di una porzione piccolissima del volume del gas, dunque per certi versi
staresti ancora osservando "la stessa cosa", o comunque una porzione di
essa, eppure in quella "scena" tu non vedresti più né il gas, né la
pressione, né la temperatura, né l'entropia, né altre caratteristiche della
descrizione macroscopica e termdinamica. Come dicevo, lo stesso concetto
di "gas", che a livello macroscopico sembra un oggetto fisico concreto, se
osservato a livello microscopico diventa una astrazione della quale ci si
può chiedere se "esiste veramente". Tu infatti non vedi nessun "gas", non
vedi - cioè - una sostanza che esercita una certa pressione ed occupa un
certo volume, ma vedi solo un volume che viene continuamente attraversato
da particelle la cui traiettoria viene continuamente deviata da urti che
appaiono casuali. In queste condizioni non c'è nessun "luogo" in cui
possiamo puntare il nostro miscopio per vedere una cosa come la
"temperatura" o l'"entropia". A livello macroscopico la temperatura e
l'entropia ci appaiono dannatamente "reali", perché ci appare "reale" il
fatto che il gas possa essere "caldo" o "freddo", così come ci appare
"reale" il fatto che il gas inizialmente sia tutto raccolto in una ampolla e
poi raggiunga uno stato più "disordinato" distribuendosi uniformemente in
entrambe le ampolle. Tutto ciò, però, quando venga osservato con il
microscopio, cessa di essere "reale" e appare come una astrazione. Ecco
dunque, al solito, due descrizioni radicalmente diverse di una "stessa
cosa".

Un altro esempio che ho fatto spesso è quello del computer.

Qui la cosa da tenere sempre presente è che in linea di principio uno
potrebbe laurearsi in informatica e diventare un ottimo programmatore senza
sapere assolutamente nulla di elettronica. Anzi, più in generale egli
potrebbe ignorare qualunque dettaglio sulla tecnologia con cui è realizzata
la macchina. Potrebbe essere una macchina elettronica, positronica,
fotonica, termoionica, a cordicelle, o non so cosa. Anche il programmatore
che programma dei sistemi operativi, cioè i programmi che hanno il compito
di interfacciare con la "macchina" tutti gli altri programmi, ecco, anche
colui che programma "a basso livello", in realtà nell'interagire con la
macchina fa riferimento ad una "macchina virtuale", la quale per molti versi
assomiglia alla descrizione che fece Turing della sua famosa "macchina
universale", descrivendola appunto come una macchina capace di scrivere
sulle caselle di un ipotetico nastro, senza (pre)occuparsi minimamente di
dire come fosse realizzata quella macchina.

Ebbene, proprio perché l'informatico in linea di principio è in grado di
scrivere ogni possibile programma senza sapere nulla della tecnologia con
cui essa è realizzata, noi ci rendiamo conto che quello stesso sistema
fisico ammette due descrizioni diverse: una puramente "informatica" e
l'altra puramente "fisica".

Abbiamo visto, più sopra, che in un "ingrandimento" di un gas scompaiono
tutte le proprietà del gas e persino il gas stesso! Ecco, analogamente se
noi andiamo a vedere le correnti che circolano nei singoli microcircuiti non
troviamo da nessuna parte l'oggetto fisico corrispondente ad una
"istruzione", eppure quella macchina - descritta informaticamente - sta
proprio eseguendo delle istruzioni.

In tutti i casi illustrati noi abbiamo - come continuo a dire da giorni -
delle descrizioni diverse di uno stesso sistema, tali che esiste sempre una
corrispondenza fra le varie descrizioni, sebbene passando da una descrizione
all'altra non solo cambiano le proprietà degli oggetti osservati, ma
cambiano anche gli oggetti ai quali viene attribuita una "esistenza".
Analizzando una piastrina di silicio non ci si imbatte mai in un "menù a
tendina", e questo sembra essere una lontanissima astrazione; invece
interagendo informaticamente con un computer il "menù a tendina" diventa
dannatamente reale, ed è la macchina fisica a diventare, se non astratta,
del tutto irrilevante, in virtù della "portabilità" di ciò che stiamo
facendo a livello informatico.

Cosa c'entra tutto ciò con la domanda che mi ponevi tu?

C'entra, perché da questi esempi si vede bene che nonostante il passaggio da
una descrizione all'altra possa far "emergere" non solo delle "proprietà",
ma persino delle "sostanze" e delle "leggi", nonostante ciò, dicevo, tutto
ciò resta pur sempre una *descrizione*, ovvero il modo in cui un soggetto -
restando centrato su sé stesso - rappresenta il mondo che lo circonda. In
altri termini una descrizione è sempre e comunque "da fuori".

Ne viene che tutto ciò che possiamo pretendere di fare nel caso della mente
è passare da una descrizione "neurologica" N ad una descrizione "mentale" M,
laddove però la descrizione mentale non può che essere "da fuori", come lo
è quella neurologica. Se la descrizione neurologica fa uso dei concetti di
neurone, assone, scarica, eccetera, quella mentale farà uso del concetto
di pensiero, desiderio, volontà, eccetera, o qualcosa del genere, ma sarà
sempre e comunque una descrizione "da fuori", una descrizione nella quale
la mente descritta si pone come oggetto di un soggetto. Se poi il soggetto
è anche esso una mente (e non vedo come potrebbe essere altrimenti) allora
la possibilità di prendere un'altra mente come oggetto potrà anche implicare
una sorta di possibilità di "osservar-si da fuori", nel senso che se io
"osservo da fuori" un'altra mente sono consapevole del fatto che la
descrizione che ottengono di quella mente un'altra mente la potrebbe
applicare (sempre "da fuori"!) a "me". Ma al di là di questa consapevolezza,
"io" continuerei ad avere l'onere e l'onore di potermi osservare "da
dentro".

Qual è allora questa fantomatica descrizione mentale M che dovrebbe essere
in qualche modo equivalente alla descrizione neurologica N? È - ormai lo si
sarà capito - la descrizione propria della *psicologia*, la scienza per
mezzo della quale un soggetto pretende di dire qualcosa di un altro
soggetto, pur *non essendo* quell'altro soggetto. E d'altra parte la
possibilità di gettare un ponte fra la neurologia e la psicologia è il sogno
più ambizioso di tutta l'impresa positivista. Lo stesso Freud all'inizio
pensava di poter portare a termine questo "progetto".

Invece la cosa di cui parli tu (o meglio, di cui pretendi di poter parlare)
è tutto un altro paio di maniche. È l'esperienza di esser-ci, è il provare
ciò che si prova ad essere coscienti di sé e del mondo che ci circonda, è
provare ciò che si prova a vedere un oggetto rosso o giallo. Come vedi non
dico nemmeno più "sapere ciò che si prova", perché - come dicevo - qui il
verbo "sapere" appare inadeguato. Dico invece "provare ciò che si prova",
rifugiandomi in una sorta di tautologia, che in realtà è un gioco di parole
per cercare di dire l'indicibile.

Ne abbiamo già parlato: questo problema è talmente ampio da occupare tutto
l'orizzonte gnoseologico, e la "vetta" di cui parli tu (il fatto che ciò che
è "dato a priori" è il mio "esser-ci") è talmente alta da essere visibile da
qualunque punto del paesaggio. Non è un problema che salta fuori solo quando
si parla della mente. Noi infatti consideriamo scontato - o implicito - che
"si prova qualcosa" ad avere una mente, ma non potremo mai "sapere" se si
prova qualcosa ad essere un sasso, o un albero, o un computer. Che ne
sappiamo che i computer non soffrano anche loro della consapevolezza di
esserci? D'altra parte tutto questo thread è nato proprio dall'essersi posti
questo dubbio.

Ebbene, se dire che cosa è la mente è prima di tutto dire che cosa è la
coscienza, e se dire che cosa è la coscienza è dire che cosa è questa
consapevolezza di esserci, allora qui non c'è "descrizione" che tenga.
Secondo me siamo di fronte ai limiti del pensiero e del linguaggio, e non
si può fare altro che tacere, come già suggerito da Wittgenstein. Tacere
nonostante ciò di cui si deve tacere sia alla fine la cosa più importante,
la premessa implicita (per quanto inesprimibile) di ogni possibile discorso.

D'altra parte proprio mentre dico che di "quella cosa lì" non si può dire
nulla, di fatto ne sto parlando, per cui si sta profilando una sorta di
discorso che vuole dire qualcosa di ciò che va oltre i limiti delle sue
possibilità. Si tratta forse di un discorso "metafisico" che parla del
"trascendentale"? Vabbe', se vogliamo usare queste parole usiamole pure,
anche se so già che i mistici, rimasti in agguato fino a qui magari senza
capire granché di quel che si è detto, balzeranno fuori dall'ombra per
avventarsi su quelle parole così misteriose, così cariche del riconoscimento
dei limiti del linguaggio, così succulente, insomma.

Ora, ripeto che se Dennett vuole dire che questa cosa è "nulla", se Dennett
vuol dire veramente che è un "nulla" il fatto di poter vedere il rosso,
allora non lo seguo. Ma è possibile che un filosofo raffinato e intelligente
come Dennett voglia dire proprio questo? Il fatto di "esserci" è forse
"nulla"? Non sarà forse che Dennett ha deciso di non fare alcuna
"concessione" (e anche io sarei tentato di farlo, a dire il vero)
rifiutandosi di tentare di parlare di ciò di cui bisogna tacere (visto che
questo è l'unico atteggiamento coerente, a ben vedere) onde non lasciare
alcuno spazio a chi pretende di costruire una intera disciplina (la
"metafisica", appunto) avente la pretesa di "parlare delle cose indicibili"?
Se dobbiamo finire con l'istituire delle cattedre universitarie, con tanto
di libri ed esami, dalle quali si insegna a parlare dell'indicibile, e si
pretende di poter alimentare un fiume spremendo una spugna secca, solo
perché qualcuno, ingenuamente, ha detto che di "quella cosa lì" si deve
tacere, dando l'impressione di voler ammettere che quella sia davvero una
"cosa", ecco se è così che deve andare a finire, allora tanto vale fare il
tonto e chiedere - altrettanto ingenuamente - che cosa ci sia mai da
aggiungere a ciò che si è già detto.

Anche perché qui si realizza una situazione paradossale. Infatti coloro che
danno una importanza colossale a questo "esserci", che ripetono ad ogni piè
sospinto che esso è la premessa imprescindibile di ogni possibile discorso,
coloro che, insomma, ci ricordano in ogni momento che c'è una bella
differenza fra essere qui a vedere il rosso e non essere qui a vedere il
rosso, e che a maggior ragione c'è una bella differenza fra l'essere qui in
generale, cioè esserci, e il non esserci, ecco coloro che ci ricordano
continuamente di questa bella differenza, poi dovrebbero essere i primi a
dire che c'è anche una bella differenza fra l'esserci e il non esserci più,
al punto tale che il non esserci più si confonde con il non esserci mai
stati. Giulio Cesare non è meno cadavere degli sconosciuti contadini che lo
vedevano passare alla guida delle sue legioni, ma la cosa ancora più
sconcertante è che per Giulio Cesare il fatto di esserci stato non fa tanta
differenza, e visto che non c'è più se anche non ci fosse mai stato ora
sarebbe uguale, ché il fatto di esserci - come m'insegni - è il presupposto
imprescindibile di ogni possibile senso. Dunque questi dottori dell'Essere e
dell'Esserci dovrebbero essere proprio loro, ben consapevoli della bella
differenza, a farci vedere quanto sia profondo e verginoso il baratro del
nulla. E invece no, si scopre puntualmente che essi piantano tutto questo
casino sulla bella differenza solo per trovare qualche modo di negarla.
Maddài, se almeno stessero zitti. Invece è proprio vero che la gallina che
canta è quella che ha fatto l'uovo :-)
--
Saluti.
D.
qf
2008-04-21 16:27:41 UTC
Permalink
"Davide Pioggia"
Post by Davide Pioggia
Marco
[...]
riprendendo
alcuni esempi che ho discusso nei giorni scorsi.
Immagina di avere un gas raccolto in una ampolla, e che questa ampolla sia
collegata ad un'altra ampolla vuota per mezzo di un tubo chiuso da una
valvola, sicché il gas è tutto contenuto nella prima ampolla. Se ad un certo
punto viene aperta la valvola, in un tempo relativamente brave il gas si
diffonde in modo uniforme in entrambe le ampolle. Per descrivere questo
fenomeno il gas viene considerato come una sostanza fisica, e le sue
proprietà vengono descritte in termini termodinamici, parlando di volume,
pressione, temperatura, entropia, eccetera.
Supponiamo ora che un gas sia effettivamente costituito da un insieme di
particelle in moto che urtano continuamente l'una contro l'altra e contro le
pareti del contenitore che racchiude il gas. Così, disponendo di un
microscopio abbastanza potente noi potremmo fare un ingrandimento fino
ad avere sotto gli occhi una "scena" nella quale - per l'appunto - si vedono
solo alcune particelle che urtano le une contro le altre e contro le pareti
del contenitore. Qualcosa di simile ad un biliardo sul quale le palle
vengano tenute continuamente in movimento.
Ebbene, osservando quella "scena" tu non vedresti altro che
l'ingrandimento
di una porzione piccolissima del volume del gas, dunque per certi versi
staresti ancora osservando "la stessa cosa", o comunque una porzione di
essa, eppure in quella "scena" tu non vedresti più né il gas, né la
pressione, né la temperatura, né l'entropia, né altre caratteristiche della
descrizione macroscopica e termdinamica. Come dicevo, lo stesso concetto
di "gas", che a livello macroscopico sembra un oggetto fisico concreto, se
osservato a livello microscopico diventa una astrazione della quale ci si
può chiedere se "esiste veramente". Tu infatti non vedi nessun "gas", non
vedi - cioè - una sostanza che esercita una certa pressione ed occupa un
certo volume, ma vedi solo un volume che viene continuamente attraversato
da particelle la cui traiettoria viene continuamente deviata da urti che
appaiono casuali. In queste condizioni non c'è nessun "luogo" in cui
possiamo puntare il nostro miscopio per vedere una cosa come la
"temperatura" o l'"entropia". A livello macroscopico la temperatura e
l'entropia ci appaiono dannatamente "reali", perché ci appare "reale" il
fatto che il gas possa essere "caldo" o "freddo", così come ci appare
"reale" il fatto che il gas inizialmente sia tutto raccolto in una ampolla e
poi raggiunga uno stato più "disordinato" distribuendosi uniformemente in
entrambe le ampolle. Tutto ciò, però, quando venga osservato con il
microscopio, cessa di essere "reale" e appare come una astrazione. Ecco
dunque, al solito, due descrizioni radicalmente diverse di una "stessa
cosa".
Come già ti dicevo, quello che scrivi qui sopra non è vero. Tutte le
proprietà macroscopiche si ritrovano puntualmente come proprietà
microscopiche, solo che al livello microscopico mostrano *più
dettagliatamente* e non affatto in modo diverso la loro natura.
Quella che tu chiami "pressione" al livello macro non è altro che
l'integrale degli urti che le singole molecole (o atomi) hanno su una certa
superficie. E lo strumento per misurare la pressione è proprio fatto per
essere sensibile a tali urti: infatti, se è costituito da una membrana, tu
vedi la membrana deformarsi, il che rivela proprio un'azione meccanica media
da parte delle particelle.
E il medesimo discorso vale per la temperatura: l'energia d'urto va in parte
a rendere la distribuzione uniforme nel recipiente, e in parte viene ceduta
allo strumento che misura la temperatura, che è fatto apposta per rilevare
proprio lo stato di agitazione delle particelle (se è un termometro a
conduzione) o per captare i fotoni emessi dalle particelle in agitazione e
collisione se è del tipo a infrarosso.

Fra micro e macro non c'è alcuna differenza: c'è solo un modo
necessariamente diverso per eseguire le misure. Ma questo è ovvio: altro è
eseguire misure puntuali (micro) e altro è eseguire misure medie (macro).
E soprattutto le misure (gli strumenti di misura) sono funzione delle
applicazioni, per cui se ci interessa la temperatura del vapore di una
turbina, non ci cale assolutamente nulla di ciò che avviene al livello
micro; a un anemometro non interessa affatto quanto ossigeno o quanta cacca
di scarico dai velivoli c'è in quota, ma interessa la pressione sulla sua
membrana, che dice la velocità dell'aria rispetto al velivolo (e quindi del
velivolo rispetto all'aria). Cioè le misure macro ( direi "tecnologiche")
sono sempre collegate strettamente alla loro specifica utilizzazione (cioè
al calcolo che ci si può fare a fini concreti e immediati), mentre le misure
fisiche no: le misure fisiche hanno l'ambizione di descrivere il fenomeno al
di là dei possibili utilizzi, quindi per principio sono diverse e
soprattutto più accurate e puntuali. Questa è l'unica differenza. Ma non per
questo "non c'è pressione" al livello micro, oppure "la pressione è
un'astrazione": non lo è affatto, dato che gli aeroplani stanno su proprio
per quell('integrale dell)a pressione sotto le ali che si chiama portanza. E
ti sembra astratta !?

I diversi punti di vista delle misure (macro e micro) non dimostrano affatto
che i fenomeni macro e micro sono in sé cose distinte.
Ossia, non è vero che se nel macro misuriamo la pressione in un certo modo
che non possiamo usare nel micro (non possiamo certo usare un barometro a
membrana!), allora la pressione nel micro "non c'è". C'è eccome! E quella
nel macro ne è solo l'integrale nella definizione più rigorosa del termine.
Post by Davide Pioggia
Un altro esempio che ho fatto spesso è quello del computer.
Qui la cosa da tenere sempre presente è che in linea di principio uno
potrebbe laurearsi in informatica e diventare un ottimo programmatore senza
sapere assolutamente nulla di elettronica.
Questo è ben noto. Il calcolatore di Babbage, e ancor prima la pascalina,
erano meccanici.

Però attenzione a non generalizzare troppo: il linguaggio di programmazione
è in realtà strettissimamente correlato alla macchina.
Se ci sono linguaggi "portabili" è unicamente perché il loro inventore ha
scritto un programma di conversione per ogni specifica macchina.
I linguaggi d'alto livello che vanno per la maggiore sono portabili solo
perché ogni tipo di processore ha un apposito compilatore, ossia un
programma d'interfaccia che trasforma il linguaggio d'alto livello in
linguaggio di basso livello di ***quel*** processore. Proprio ieri con un
ex-allievo si apprezzava il fatto che i nuovi microcontrollori della Texas
sono programmabili in C++ anziché solo nel loro specifico assembly, ma
occorre un software apposito che traduce il tuo programma in C++ in
linguaggio macchina (che è anche più "basso" dell'assembly, e che è
specifico di ogni macchina e spesso il costruttore neppure lo rivela). In
altre parole, non puoi programmare un motorola con lo stesso linguaggio
macchina che usi con un texas o un intel: è escluso. Ed è escluso perché
software e hardware al livello macchina non solo sono totalmente
indistinguibili, ma anche perché tutti questi sistemi sono ricchi di
microistruzioni hardware (il cosiddetto firmware) senza le quali nessun
programma, se non banalissimo, di fatto è possibile.
Tieni anche presente che molta apparecchiatura -- anzi la stragrande
parte -- non funziona con software "volatile" come i PC, ma funziona con un
software che viene "bruciato" nelle memorie della macchina, che dunque
diventano hardware a tutti gli effetti, proprio come i circuiti cablati: per
cambiare programma si cambia il chip o un'intera scheda, o persino la scheda
madre. Cioè in questi casi si vede immediatamente che software e hardware
coincidono, e non potrebbe essere diversamente.
Nelle macchine con software "volatile" (cioè affidato allo HD) è la medesima
cosa, con la differenza che la configurazione della memoria di lavoro o Ram
(che in realtà è hardware, cioè cablaggio, in ogni sua configurazione) è
elettricamente modificabile. Non c'è alcuna differenza: sempre e solo
hardware è.
Se tu stringi una vite, tu cambi la posizione reciproca fra vite e
madrevite, ma hardware è e resta, anche se la posizione reciproca cambia in
continuazione. La stessa cosa è per il software di un computer: il clock che
fa scorrere le istruzioni è concettualmente identico a quel cacciavite, cioè
sciorina una predisposta sequenza di *configurazioni hardware*.
E' stata l'invenzione del neologismo "software" a trarre in inganno e a
farlo ipostatizzare come una realtà a sé.
Non lo è: è solo la notazione di una sequenza (una temporizzazione) di
configurazioni hardware. In tutto identica -- logicamente e in concreto -- a
una procedura di montaggio su una linea di produzione.
Post by Davide Pioggia
Anzi, più in generale egli
potrebbe ignorare qualunque dettaglio sulla tecnologia con cui è
realizzata la macchina.
Se vuoi essere un buon programmatore -- ossia ottimizzare i tempi (velocità)
e i costi (uso di memoria) -- non puoi ignorare la tecnologia, neppure se
usi un linguaggio di alto livello. Stai esprimendo, in questo senso, un
pregiudizio tutto "filosofico" che non risponde affatto a verità.
Un programmatore serio sa con che processore ha a che fare, e sa che *con
quel processore* una routine invece di un'altra per ottenere lo stesso
risultato gli può migliorare la velocità e/o far risparmiare memoria. Se non
studia a fondo le proprietà del processore -- microistruzioni, registri,
struttura del bus ecc. -- non scriverà mai un programma professionalmente
valido (e soprattutto affidabile). In tal caso non è un programmatore.
Post by Davide Pioggia
Potrebbe essere una macchina elettronica, positronica,
fotonica, termoionica, a cordicelle, o non so cosa.
E a ognuna di queste (io ho lavorato anche con macchine fluidiche)
corrisponde uno specifico linguaggio di basso livello che in realtà non è
altro che la lista delle configurazioni hardware possibili.
Post by Davide Pioggia
Anche il programmatore
che programma dei sistemi operativi, cioè i programmi che hanno il compito
di interfacciare con la "macchina" tutti gli altri programmi, ecco, anche
colui che programma "a basso livello", in realtà nell'interagire con la
macchina fa riferimento ad una "macchina virtuale", la quale per molti versi
assomiglia alla descrizione che fece Turing della sua famosa "macchina
universale", descrivendola appunto come una macchina capace di scrivere
sulle caselle di un ipotetico nastro, senza (pre)occuparsi minimamente di
dire come fosse realizzata quella macchina.
No, no, no, no.
Intanto nessuno scrive più i sistemi operativi a un vero basso livello
(linguaggio macchina), per la semplice ragione che il costruttore dei
microprocessori (es. intel) fornisce anche agli utilizzatori primari (come
microsoft) un linguaggio intermedio e non scopre di sicuro le batterie
rivelando la struttura del vero linguaggio macchina (ci mancherebbe, con
tutti i falchi che ci sono in giro). E questo linguaggio non è neppure un
assembly (che è quello che è fornito con il manuale del microprocessore agli
utilizzatori comuni): è un linguaggio molto più vicino al linguaggio
macchina, e proprio perché un sistema operativo in nessun modo può
prescindere dalla struttura della specifica macchina (e anche perché, di
conseguenza, in caso contrario, sarebbe intollerabilmente ingombrante). Poi
è microsoft o chi per lei a costruire gusci sopra gusci per portare il
sistema operativo a portata anche della massaia, ma il vero basso livello è
la macchina stessa (le sue possibili configurazioni hardware, e le modalità
di transizione da una all'altra, che dipendono indissolubilmente dalla
tecnologia).

Ripeto: è decisamente un pregiudizio "filosofico" la separazione fra
hardware e software.
Post by Davide Pioggia
Ebbene, proprio perché l'informatico in linea di principio è in grado di
scrivere ogni possibile programma senza sapere nulla della tecnologia con
cui essa è realizzata, noi ci rendiamo conto che quello stesso sistema
fisico ammette due descrizioni diverse: una puramente "informatica" e
l'altra puramente "fisica".
Ma questo è sempre vero!
Stai dicendo che di un sistema si può dire 1. come è fatto e 2. come
funziona.
Ci mancherebbe che non fosse così.
Quando costruisco un micropricessore io devo dire a chi lavora il silicio
*come* è fatto il microprocessore (e a lui non importa come funziona)).
Invece a chi lo compra devo dire *come funziona*.
Ma il fatto che debbano o possano esistere due o più descrizioni della
realtà (rashomon di kurosawa) non taglia in due o più parti la realtà.
Guardare un sasso da destra e da sinistra non he fa due sassi.
Con le _cose_ è solo logico e comodo trattare l'aspetto fisico e l'aspetto
funzionale con linguaggi diversi, date le rispettive peculiarità e
complessità.
Ma di nuovo, come per i caso del gas, il fatto che esistono più descrizioni
utili per diversi scopi non dice che ciò che c'è ad alto livello non c'è a
basso livello o viceversa. C'è la piena coincidenza, e perciò l'uno
giustifica l'altro.
Post by Davide Pioggia
Analizzando una piastrina di silicio non ci si imbatte mai in un "menù a
tendina", e questo sembra essere una lontanissima astrazione;
Sembra soltanto. Il menu a tendina è solo una configurazione hardware.
Niente altro di più "astratto".
Fa semplicemente parte dell'osservazione funzionale della piastruna di
silicio. Solo che per metterlo alla portata degli occhi serve tutta una
serie di interfacce (sempre configurazioni hardware) fino ai pixel del
monitor (configurazioni hardware a loro volta).
Post by Davide Pioggia
invece
interagendo informaticamente con un computer il "menù a tendina" diventa
dannatamente reale,
Cosa vuol dire "interagire informaticamente"? Vuol dire far passare corrente
nei circuiti e modularla? Vuol dire dare un significato alla sequenza di
configurazioni hardware? Ossia definire una procedura, una sequenza
significativa di configurazioni hardware?
What else? :-))
Guarda che il fatto che *per noi* ragionare in termini informatici è
"astratto", non lo è affatto per la macchina. La macchina conosce solo una
sequenza di configurazioni hardware, a cominciare dalla macchina di Turing.
Il fatto che *noi* diamo certi significati -- più o meno astratti -- a
quelle configurazioni non ci autorizza a obbligare la macchina a essere come
le nostre elucubrazioni. La macchina è semplicemente un caleidoscopio con
virtualmente infinite configurazioni. I significati sono solo affar nostro.
Post by Davide Pioggia
Ne viene che tutto ciò che possiamo pretendere di fare nel caso della mente
è passare da una descrizione "neurologica" N ad una descrizione "mentale" M,
Una descrizione presunta fisica e una presunta funzionale, come riteniamo
ovvio per ogni cosa.
Per la verità, però, non abbiamo né una né l'altra nel caso specifico.
E la ragione è semplice:
1. la "mente" non sappiamo cos'è;
2. comunque la separazione fisico-funzionale non è la separazione
neurologico (che è già funzionale evidentemente!)-mentale (che non sappiamo
cosa significhi per via del punto 1).

Perciò ripeto che le analogie che hai portato non mi sembrano pertinenti.

Per il resto te la vedrai con Marco :-)
Ciao
qf
Marco V.
2008-04-22 10:09:04 UTC
Permalink
Post by qf
Sembra soltanto. Il menu a tendina è solo una configurazione hardware.
Niente altro di più "astratto".
Fa semplicemente parte dell'osservazione funzionale della piastruna di
silicio. Solo che per metterlo alla portata degli occhi serve tutta una
serie di interfacce (sempre configurazioni hardware) fino ai pixel del
monitor (configurazioni hardware a loro volta).
Davide, spiegando la sua teoria del rapporto mente-cervello, aveva detto (da
antiessenzialista qual è) che anche le "cose" che ci sono, e l'esserci delle
"cose" che ci sono, dipende da quale descrizione adottiamo. Quel che
tipicamente interessa a Davide, è di respingere la "sostanzializzazione"
degli oggetti di cui le descrizioni ci consentono di parlare. Echi quineani
(anche se Quine ci teneva a ribadire che non è ciò che c'è, a dipendere dal
linguaggio, ma ciò che diciamo ci sia). Si potrebbe dire, forzando un po' la
mano, che per Davide le cose di cui parlano le descrizioni, sono proprietà
delle descrizioni stesse, sì che il fatto che cambiando descrizione cambiano
le cose che ci sono non è che un riflesso del fatto che due descrizioni non
possono avere le medesime proprietà (altrimenti, vedi l'identità degli
indiscernibili, sarebbero la stessa descrizione).

Per te Maurizio, invece, che aborri la dipendenza della ontologia dal
linguaggio, le cose che ci sono non possono, nel loro stesso esserci,
dipendere dalla descrizione adottata. Ma - vedi quello che ti dicevo sulla
temperatura a livello atomico - se il menù a tendina ha come proprietà
essenziale il suo *apparire*, allora il livello in cui esso non appare è il
livello in cui esso non c'è tout-court. A meno di non introdurre un
"apparire che non appare". Ma allora si dovrà rispondere a quella obiezione
che dice che se si può separare la cosa dal suo apparire, non si può
separare l'apparire dall'apparire. Se non si sarà in grado di risolvere
queste difficoltà, allora l'affermazione che <<il menù a tendina è una
configurazione hardware>> esprimerà un nominalismo radicale: 'menù a
tendina' non sarà altro che una etichetta priva di significato. Tutto il tuo
tentativo di raccordare ontologicamente il livello macro al livello micro
non sarebbe allora altro che una forma radicale di nominalismo: gli enti del
livello macro sarebbero semplici nomi degli enti del livello micro.

In definitiva a me sembra - ma qui te la vedrai con Davide:-)) - che il tuo
tentativo (fondato sull'affermazione che gli oggetti che appaiono al livello
macro sono configurazioni del livello micro) di riportare al livello micro
gli oggetti che appaiono al livello macro, debba risolvere questo tipo di
difficoltà logiche, tutte centrare, ebbene sì:-), sulla relazione tra la
"cosa" ed il suo "apparire".

Un saluto ad entrambi,

Marco
qf
2008-04-24 21:02:21 UTC
Permalink
"Marco V."
Post by Marco V.
"qf"
[...]
Davide, spiegando la sua teoria del rapporto mente-cervello, aveva detto
(da antiessenzialista qual è) che anche le "cose" che ci sono, e l'esserci
delle "cose" che ci sono, dipende da quale descrizione adottiamo.
Direi: dipende da per che cosa le usiamo (per che cosa ci servono).
Come ovvio del resto.
La logica stessa delle misure è questa.
Post by Marco V.
Quel che
tipicamente interessa a Davide, è di respingere la "sostanzializzazione"
degli oggetti di cui le descrizioni ci consentono di parlare.
Come ho detto qui sopra: è semplicemente ovvio che noi "conosciamo" in
funzione nostra, ossia di ciò che ci serve.
Sarebbe più che ingenuo pensare a conoscenze "oggettive".
Però che la realtà sia la realtà, ossia quello che è, non è in nessun modo
scalfito da queste ovvietà.
(C'è una bella differenza fra le affermazioni alla Jacques de Chabanne e le
ovvietà, ne convieni?)

Echi
Post by Marco V.
quineani (anche se Quine ci teneva a ribadire che non è ciò che c'è, a
dipendere dal linguaggio, ma ciò che diciamo ci sia).
Anche qui una bella differenza! Pure Quine deve aver qualche dimestichezza
con il divino Jacques.
L'estremizzazione del fatto che noi conosciamo necessariamente a modo
nostro, portata ad affermare che gli enti non siano quello che sono (questo
intendo io per "sostanzializzazione") mi sembra perlomeno curiosa. Cos'è?
uno sport con le parole?
Post by Marco V.
Si potrebbe dire,
forzando un po' la mano, che per Davide le cose di cui parlano le
descrizioni, sono proprietà delle descrizioni stesse, sì che il fatto che
cambiando descrizione cambiano le cose che ci sono non è che un riflesso
del fatto che due descrizioni non possono avere le medesime proprietà
(altrimenti, vedi l'identità degli indiscernibili, sarebbero la stessa
descrizione).
Ripeto che è un'estremizzazione che non so dove e come regga, se non come
esercizio sportivo con le parole. Una cosa è quello che è, qualunque cosa ne
pensiamo noi.
Il tentativo di togliere alle cose il marchio che noi ci mettiamo per il
nostro uso, ripeto, è solo un gioco di parole, e lo ritengo inutile: si
tratta di ovvietà che non giustificano tale estremizzazione.
O c'è qualcosa di più profondo che i queffe non capiscono?
Post by Marco V.
Per te Maurizio, invece, che aborri la dipendenza della ontologia dal
linguaggio,
Ritengo appunto che le cose siano quello che sono e basta. Poi per un guelfo
e un ghibellino possono avere descrizioni diverse. Ripeto che questo è
ovvio.
Post by Marco V.
Ma - vedi quello che ti dicevo sulla
temperatura a livello atomico - se il menù a tendina ha come proprietà
essenziale il suo *apparire*, allora il livello in cui esso non appare è
il livello in cui esso non c'è tout-court.
No. Ha il suo apparire quando serve il suo apparire, ma un menu a tendina è
una lista di comandi. Punto.
La proprietà del suo essere "a tendina" anziché in un altro modo comporta
solo una sequenza specifica di configurazioni hardware (invece di un'altra).
Tutto qui.
Post by Marco V.
A meno di non introdurre un
"apparire che non appare".
Non è necessario. Quella sequenza di configurazioni hardware sempolicemente
*è*. Che tu la veda come menù a tendina e qualcuno la veda come un
mucchietto di colori (o non la veda affatto), essa rimane quello che è. E' e
resta quella certa sequenza di configurazioni hardware.
Post by Marco V.
Ma allora si dovrà rispondere a quella
obiezione che dice che se si può separare la cosa dal suo apparire, non si
può separare l'apparire dall'apparire.
Sai bene che a quest'altro gioco non ci gioco, perlomeno finché non ne avrò
capito il senso -- sempre che un senso ce l'abbia.
Il cosiddetto "apparire" fa riferimento a un osservatore al quale "appare"
qualcosa -- altrimenti si userebbe un altro termine. Ma io dico che ciò che
sta alle tue spalle non ti può "apparire", ma c'è, a cominciare dalle tue
stesse spalle e dal tuo didietro, che "tu" non vedi.
Quindi considero un errore l'attribuire l'apparire a chi osserva anziché
alle cose in quanto sono quello che sono, che ci sia o no chi osserva.
Post by Marco V.
Se non si sarà in grado di
risolvere queste difficoltà, allora l'affermazione che <<il menù a tendina
è una configurazione hardware>> esprimerà un nominalismo radicale: 'menù a
tendina' non sarà altro che una etichetta priva di significato.
No, no: è un menu a tendina per quelli che conoscono un po' di informatica.
Ma per essere quello che è gli basta essere una sequenza di configurazioni
hardware. Non vedo che c'entri il nominalismo. Semmai quest'ultimo riguarda
proprio la sua _interpretazione_ come menu a tendina (per la mia gatta, per
esempio, non lo è).
Post by Marco V.
Tutto il
tuo tentativo di raccordare ontologicamente il livello macro al livello
Io li sto "raccordando"? Cioè davvero credi che non siano la medesima cosa
descritta con punti di vista diversi in funzione di utilità diverse? Credi
davvero che questo monitor (macro) e i suoi pixel (micro) non siano
ontologicamente "raccordati", indipendentemente dalle nostre intenzioni o
letture o descrizioni?

gli
Post by Marco V.
enti del livello macro sarebbero semplici nomi degli enti del livello
micro.
No: ho detto che sono in gioco le utilità specifiche. Nel macro mi serve la
pressione (per gonfiare gli pneumatici, per esempio), e non mi interessa
l'energia cinetica della singola molecola di gas; nel laboratorio di fisica
è l'inverso. Ma cambia qualcosa in ciò a cui ci si sta riferendo? No,
niente.
Post by Marco V.
In definitiva a me sembra - ma qui te la vedrai con Davide:-)) - che il
tuo tentativo (fondato sull'affermazione che gli oggetti che appaiono al
livello macro sono configurazioni del livello micro) di riportare al
livello micro gli oggetti che appaiono al livello macro, debba risolvere
questo tipo di difficoltà logiche, tutte centrare, ebbene sì:-), sulla
relazione tra la "cosa" ed il suo "apparire".
Dipende sempre da ciò che si intende per "apparire". Se tale apparire fa
riferimento all'utilità specifica di una certa cosa, cioè al tipo di
relazione che con essa si intraprende, potrei persino essere d'accordo,
anche se non proprio contento per le ragioni che ho detto sopra.

Un saluto
qf

Loris Dalla Rosa
2008-04-12 09:37:16 UTC
Permalink
Post by Davide Pioggia
C'è un modo piuttosto immediato di comunicare tale affermazione, anche se
purtroppo questo modo è concettualmente un po' debole. A me però non
interessa essere a prova di filosofo, e per ora mi interessa solo che tu
capisca cosa intendo. D'altra parte quando ti dissi, tempo fa, che la
"coscienza fenomenica" dell'oggetto O è "ciò che si prova ad essere O",
tu avresti potuto avanzarmi una miriade di obiezioni (la prima delle quali è
che se non siamo O non potremo mai sapere che cosa si prova ad essere O,
senza considerare che non è chiaro cosa si deve intendere per "provare")
eppure mi sembra che ci siamo capiti.
Tornando da icf... mi scuso se non entro (almeno subito) nel preciso merito
della questione posta da LordB., per tornare su quella piu' particolare che
qui sotto riproponi.
Anzitutto un'osservazione sul tuo "...eppure mi sembra che ci siamo capiti",
in relazione al "modo concettualmente un po' debole" che attribuisci alla
tua affermazione. Tale "debolezza" non pregiudica certo la capacita' di
comprendersi, perche' la condizione, affinche' un'affermazione risulti
"debole", e' che sia pienamente compresa, e solo poi, analizzandone la
logica, puo' risultare "debole". Ogni ragionamento per assurdo segue questa
falsariga.
Post by Davide Pioggia
Ebbene, il modo immediato (e concettualmente debole) di fare questa
due cervelli che si trovano (o si trovassero) nel medesimo
stato fisico starebbero pensando la stessa cosa.
A me sembra che, al di là delle possibili obiezioni, si capisca cosa voglio
dire, e se hai seguito il thread su "determinismo e libero arbitrio" nel ng
non moderato forse la cosa ti sarà ancora più chiara.
dato uno stato fisico del cervello, ciò che quel cervello sta
pensando resta determinato in modo univoco dallo stato fisico.
Certo, si potrebbe anche discutere sulla equivalenza di queste due
affermazioni, ma eventualmente prendine una e scarta quella che ti crea
maggiori difficoltà.
Personalmente rifiuterei la tua prima affermazione (per i motivi
squisitamente logici che ho esposto in icf). Sulla seconda ho delle forti
riserve di tipo semantico. Condividendo la tua opinione circa un
imprescindibile rapporto tra mente e cervello, mi lascia perplesso la sua
caratterizzazione come rapporto di univoca determinazione. Ti chiedo se per
te "determinazione" e "condizionamento" sono sinonimi, cioe' se essere
condizionati e' condizione non solo *necessaria*, ma anche *sufficiente*,
per essere determinati.
Per ora mi fermo qui, con un saluto ad entrambi,
Loris
Davide Pioggia
2008-04-12 17:51:37 UTC
Permalink
Post by Loris Dalla Rosa
Personalmente rifiuterei la tua prima affermazione (per i motivi
squisitamente logici che ho esposto in icf). Sulla seconda ho delle forti
riserve di tipo semantico. Condividendo la tua opinione circa un
imprescindibile rapporto tra mente e cervello, mi lascia perplesso la sua
caratterizzazione come rapporto di univoca determinazione. Ti chiedo se
per te "determinazione" e "condizionamento" sono sinonimi, cioe' se essere
condizionati e' condizione non solo *necessaria*, ma anche *sufficiente*,
per essere determinati.
Mi dispiace darti un dispiacere, ma per rispondere a questa domanda ho
bisogno di fare prima una lunga digressione, nella quale userò in abbondanza
degli orribili riferimenti "naturalistici" :-)

La ragione principale per la quale sento il bisogno di questa digressione, è
che per me è assolutamente determinante richiamare la tua attenzione sul
fatto che noi abbiamo due *descrizioni* diverse di uno *stesso fenomeno*,
mentre quando tu hai cercato di "venirmi incontro" accettando di discutere
gli esempi che ti avevo portato mi hai dato l'impressione di aver
sottovalutato questo aspetto, tant'è che hai aggiunto un esempio in cui si
davano due *dimostrazioni* diverse di una *stessa affermazione*.

Il primo esempio che ti faccio è quello della ola allo stadio:



Domanda: la ola è "qualcosa"? Che cosa è esattamente la ola?
È qualcosa che possiamo "indicare con il dito"?

Se tu mi chiedessi di indicarti con il dito la ola, dove lo potrei puntare?
Probabilmente lo punterei verso una zona dello stadio dove ci sono molti
spettatori in piedi, più di quanti ce ne siano altrove, ma tu potresti anche
pensare che 'sta "ola" è la maglietta dello spettatore verso cui sto
puntando il mio dito. Un modo più efficace di farti capire che cosa è la ola
potrebbe essere quello di puntare il dito verso una zona dello stadio dove
ci sono molti spettatori in piedi, per poi spostarlo, cercando di farti
capire che mi sto riferendo al fatto che la zona dello stadio in cui ci sono
più spettatori in piedi si muove di moto pressoché regolare.

Ma anche se tu capissi cosa intendo, che cos'è questa cosa che si muove?
È qualcosa di "fisico"? Sembrerebbe di no. Infatti ad essere "fisici"
sembrano gli spettatori, i quali per tutto il tempo se ne restano al loro
posto, e se è vero che essi si muovono alzandosi in piedi e poi sedendosi
di nuovo, è pur vero che la ola si muove in modo completamente diverso,
addirittura trasversale rispetto al moto degli spettatori. Ma allora, se
sono gli spettatori ad essere "qualcosa di fisico", in che senso la ola è
"qualcosa di fisico"?

Se vogliamo qualche esempio un po' più fisico, possiamo considerare
le onde nell'aqua, di cui qui troviamo una animazione:
http://www.kettering.edu/~drussell/Demos/waves/wavemotion.html

Prendiamo la prima animazione, quella delle onde longitudinali in un tubo
prodotte dal moto periodico di un pistone (la sezione del pistone è rossa).
Se noi seguiamo con lo sguardo una cresta di maggiore densità, vediamo
che essa si propaga lungo il tubo in tutta la sua lunghezza, con moto
rettilieneo e uniforme. E siccome la cresta è pur fatta di particelle,
potrebbe quasi venirci da pensare che anche le particelle percorrono
il tubo in tutta la sua lunghezza. E invece no: se noi facciamo uno sforzo
per distogliere l'attenzione dalle creste e ci concentriamo su una sola
particella, vediamo che essa oscilla avanti e indietro di moto periodico,
nell'intorno di un certo punto.

Qualcosa di analogo lo vediamo nelle animazioni successive. Ad esempio
nelle onde di superficie in acqua (o in generale in un liquido) le onde si
propagano ancora con moto rettilineo e uniforme, mentre le particelle si
muovono di moto circolare, con un raggio che è tanto maggiore quanto
più siamo vicini alla superficie dell'acqua. Nella simulazione due
particelle sono state colorate di blu, per consentirci di seguirle più
facilmente, dal momento che la nostra mente tende a vedere più le onde che
le particelle. Eppure sono le particelle ad essere ciò che noi concepiamo
come "fisico".

Ma allora 'ste onde sono o non sono qualcosa di "fisico"? Sono le onde
o le particelle ad "esistere veramente"? Se a ciò aggioungiamo il fatto che
le onde possono trasportare energia e quantità di moto, ci sembra proprio
di dover dire che anche le onde, in qualche modo, "esistono veramente".

Noi invece siamo abituati a pensare che siano le particelle ad "esistere
veramente". Una delle ragioni è che tutta la realtà fisica sembra essere
esprimibile come combinazione di particelle, mentre con le onde non ci
sembra di poter fare lo stesso. Certo, nel caso delle onde del mare ci
viene da attribuire una esistenza fisica alle onde stesse e non (solo) alle
singole gocce d'acqua, tuttavia se prendiamo un albero che se ne sta fermo
in mezzo a un campo ci viene meglio considerarlo come un insieme di cellule
legate fra di loro che come una sovrapposizione di onde. Dunque, siccome
la "descrizione atomica" sembra applicabile a tutto ciò di cui si occupano
i "fisici", ci viene più facile pensare che siano le particelle d'acqua ad
avere una vera e propria "esistenza fisica", e non le onde del mare, così
come allo stadio ci viene da pensare che siano gli spettatori ad "esistere
fisicamente", e non la ola, la quale ci appare semplicemente come il profilo
prodotto delle posizioni degli spettatori.

Ci sono tuttavia dei casi, nella fisica, in cui non si sa che pesci
pigliare. Ti può capitare infatti di metterti di fronte ad un sistema e
cominciare a descriverlo secondo un certo criterio, attribuendo "esistenza
fisica" a certe caratteristiche piuttosto che ad altre, e di riuscire ad
otterenere una descrizione esauriente di quel sistema, nel senso che riesci
a definire uno "stato" di quegli oggetti ai quali hai deciso di attribuire
"esistenza fisica". Forte di questo risultato ti convinci di avere capito (o
indovinato) che cosa "esiste veramente". Solo che poi arriva un altro
disgraziato che osserva lo stesso sistema da un punto di vista completamente
diverso, attribuendo "esistenza fisica" al altre caratteristiche del
sistema, e anch'egli riesce ad andare fino in fondo, producendo una
descrizione esauriente ed arrivando a definire uno "stato" di quegli oggetti
a cui egli ha attribuito esistenza fisica.

Nella meccanica quantistica questa situazione è comunissima. Ad esempio se
prendiamo un reticolo cristallino e ci diamo una martellata, si può dire che
ad esistere veramente siano gli atomi, e che la deformazione prodotta si
propaghi lungo il reticolo come la ola allo stadio, o come la deformazione
che si propaga lungo la corda quando ad una delle sue estremità diamo un
colpo di frusta. Tuttavia nessuno ha mai visto in faccia un atomo, e la
meccanica dell'oscillatore si lascia anche trattare immaginando che ci sia
un "gas di bosoni" che si propaga nel mezzo. I "bosoni" sono delle
particelle il cui numero non si conserva. Non sono come gli spettatori
(che, salvo incidenti, alla fine della partita sono gli stessi che erano
entrati all'inizio), ma sono come la ola: in un certo momento non c'è, poi
può apparire, poi può sparire, poi addirittura ne possono apparire due, le
quali magari si propagano in direzioni opposte e quando si incontrano si
intensificano o si annullano. Ecco, le particelle come gli spettatori sono i
"fermioni", mentre quelle come la ola sono i "bosoni". Nel caso del
reticolo, noi riusciamo a costruire delle teorie complete sia che lo
consideriamo come un reticolo di fermioni (gli "atomi") che oscillano, sia
che lo consideriamo come un mezzo attraverso il quale si propagano dei
bosoni (detti "fononi"), e siccome non abbiamo mai visto un atomo in faccia
non abbiamo nessuna ragione per dire quale di queste due descrizioni sia
quella "reale".

Tant'è che nel caso delle onde elettromagnetiche ci sembra più reale
pensarle come un gas di bosoni (i famosi "fotoni") anziché come
l'oscillazione di un reticolo di fermioni, perché tali ipotetici fermioni
sarebbero degli "atomi di etere", e i fisici per ragioni storiche e
psicologiche si vergognano a "credere all'etere", così come si vergognano
a "credere al calorico" e altre cose così. Ma siccome i filosofi non si
vergognano di niente :-) noi non possiamo fare altro che prendere atto del
fatto che lo stesso sistema può essere *descritto* in due modi parimenti
esaurienti, i quali sembrano del tutto equivalenti, se non fosse che
passando da una descrizione all'altra cambia anche ciò che "esiste
veramente". Quasi mi pare di vedere sua maestà l'Ontologia che si rivolta
nella tomba, inorridita al pensiero che a questo punto io abbia ancora il
coraggio e la sfacciataggine di parlare di "stesso sistema". Ma io lo dico
lo stesso, perché - come dicevo - a me qui non interessa essere a prova
di filosofo, ma prima di tutto mi interessa farmi capire. Poi magari ci
torniamo sopra.

Ora, a dispetto di questo orrore ontologico e gnoseologico, è chiaro che
c'è una corrispondenza fra le due descrizioni, tant'è che esistono delle
equazioni matematiche ben note per passare dall'una all'altra. Se io so come
si muovono le particelle d'acqua, so anche come si propagano le onde, e
viceversa. Dopodiché sono libero di pensare che siano le particelle oppure
le onde ad "esistere veramente".

==========

Fino a qui abbiamo fatto degli esempi in cui ci si può "muovere" in entrambi
i sensi fra le due descrizioni. Voglio dire che se tu mi dici la posizione
di ogni singola particella io poi so disegnare il profilo delle onde, e se
tu mi dici il profilo delle onde io poi so di quanto dista ogni singola
particella dal suo punto di equilibrio. Tornando al caso dello stadio,
se tu mi fornisci il profilo esatto della ola io so dirti quali e quanti
spettatori sono in piedi, o seduti, o sollevati dalla sedia di una certa
altezza. E vicerversa.

Le cose si complicano notevolmente quando è possibile "muoversi"
in una direzione in modo univoco, ma non si può fare il contrario.

Ad esempio se tu mi fornisci la posizione e la velocità di ogni singola
particella di un gas, io so dirti qual è il volume e la temperatura del gas,
ma se tu mi fornisci il volume e la temperatura del gas io non so dirti
quale sia la posizione e la velocità di ogni singola particella. Questo
perché per passare dalla descrizione "microscopica" a quella
"macroscopica" io devo fare dei "riassunti statistici", e nel fare questi
"riassunti" perdo una quantità enorme di dati sui dettagli dello stato
microscopico. Tuttavia proprio questa perdita enorme di dati è ciò che
rende "autonoma" la descrizione macroscopica, e se per certi versi
possiamo dire che "la temperatura esiste veramente" è proprio perché la
descrizione termodinamica è "chiusa" rispetto a sé stessa. Come dicevo un
qualche post precedente, noi possiamo scrivere l'equazione PV=kNT
fregandocene non solo di cosa stanno facendo le singole particelle, ma
addiritura di "che cosa sono" le singole particelle.

Che la descrizione termodinamica di un sistema sia "chiusa" rispetto a sé
stessa trova conferma non solo nella sua struttura matematica, ma anche nel
fatto storico che la termodinamica era già ben definita molto prima che ci
si rendesse conto che essa era reinterpretabile come "meccanica statistica".
Per molto tempo le grandezze termodinamiche, come la temperatura, sono state
definite in modo autonomo dalla meccanica, e al "calore" è stata attribuita
una esistenza fisica al pari di un sasso, mentre oggi la temperatura viene
intesa come una espressione della energia media delle particelle.

Comunque sia, mi sembra evidente la seguente affermazione: se abbiamo
due gas costituiti dallo stesso numero di particelle e posti in due diversi
contenitori, e se la posizione e la velocità delle particelle del primo gas
rispetto al suo contenitore è la stessa di quella delle particelle del
secondo gas rispetto al suo contenutore (cioè, per farla breve, se i due gas
si trovano nello stesso "stato microscopico"), allora i due gas hanno anche
la stessa pressione, volume, temperatura, e qualunque altra grandezza che
possa definire uno "stato macroscopico". Il contrario ovviamente non è vero:
se abbiamo due gas che hanno lo stesso volume, pressione e temperatura,
non solo non possiamo dire che le loro singole particelle si trovano negli
stessi stati, ma anzi mi sembra piuttosto improbabile.

Analogamente due computer che mostrano sullo schermo lo stesso word
processor, con cui due utenti hanno appena finito di scrivere la stessa
lettera, si trovano nello stesso "stato informatico", ma non sono certamente
uguali bit per bit, per cui non si trovano nello stesso "stato fisico". Se
invece avessimo due computer uguali bit per bit (cioè due computer nello
stesso "stato fisico") allora essi starebbero sicuramente mostrando la
stessa cosa sullo schermo (cioè sarebbero nello stesso "stato informatico").

Ti è più chiaro ora cosa intendo quando dico che dato un certo stato fisico
del cervello ciò che il cervello sta pensando è univocamente determinato
dallo stato fisico?

*****
La "mente" e il "cervello" sono solo due descrizioni dello stesso fenomeno,
con la "mente" che contiene "meno dettagli" (e quindi la determinazione non
è biunivoca, per cui un cane può provare dolore come lo provo io senza
avere il mio stesso cervello), ma proprio perché contiene meno dettagli essa
è "chiusa" rispetto a sé stessa, e in quanto tale "esiste veramente".
*****

==========

A questo punto si apre un altro mare di problemi, che sono tutti legati ai
"nessi causali". Infatti se è vero che lo stato macroscopico è solo un
"riassunto" di quello microscopico, sembra quasi che non ci potrà mai essere
un nesso causale che dal macro- discende fino al micro-, poiché è il micro-
a determinare il macro-. Dunque sembra proprio che le variabili macro- mai e
poi mai possano essere prese come "cause" dei mutamenti di ciò che avviene a
livello micro-.

D'altra parte però tutti noi siamo abituati a sentirci dire che esercitando
la nostra volontà possiamo far partire un segnale elettrico dal cervello che
poi fa muovere un nuscolo. Parimenti si sente dire dagli informatici che
scegliendo una certa opzione da un menu a tendina si trasmettono dei "dati
seriali" su un bus. E anche in termodinamica a volte si usa un linguaggio
simile, come se le variabili macro- fossero qualcosa di fisico che può agire
fisicamente sulle variabili micro-.

Come mai parliamo così? Sono tutte assurdità? No, si tratta però di
un linguaggio "misto" (a cui ci si riferisce talvolta come "descrizione
mesoscopica"), nel quale si mescolano fra di loro termini ricavati da due
descrizioni diverse. Se per un ontologo già il fatto che ci fossero due
descrizioni diverse di uno stesso fenomeno era un orrore, 'sta roba qua
diventa un orrore al quadrato. Eppure la "descrizione mesoscopica"
è utilissima, talvolta indispensabile. Ma è subdola e sconcertante, e spesso
porta fuori strada in modo "diabolico". È come camminare su una lama
di rasoio.
--
Saluti.
D.
L
2008-04-13 07:49:18 UTC
Permalink
Post by Davide Pioggia
Analogamente due computer che mostrano sullo schermo lo stesso word
processor, con cui due utenti hanno appena finito di scrivere la stessa
lettera, si trovano nello stesso "stato informatico", ma non sono certamente
uguali bit per bit, per cui non si trovano nello stesso "stato fisico". Se
invece avessimo due computer uguali bit per bit (cioè due computer nello
stesso "stato fisico") allora essi starebbero sicuramente mostrando la
stessa cosa sullo schermo (cioè sarebbero nello stesso "stato informatico").
Ti è più chiaro ora cosa intendo quando dico che dato un certo stato fisico
del cervello ciò che il cervello sta pensando è univocamente determinato
dallo stato fisico?
Io proporrei un piccolo sforzo di sintesi:

D:
La fenomenologia è tutto l'essere?

R:
No.

D:
Perché no?

R:
Perché non tutto ciò che è -> allora -> appare.

La memorizzazione (nella fenomenologia) non è -> allora -> la
descrizione di tutto l'essere.

Né il determinare la fenomenologia -anche solo teoricamente (dato per
concesso)- nella materia/energia -> allora -> descrive completamente
l'essere.

Quindi la diatriba _tra più descrizioni di situazioni_ che ci sembrano
descrivere la stessa fenomenologia NON è dirimente nell'analisi del
reale, ossia dell'essere (nella res), poiché stiamo esaminando un
sottoinsieme dell'essere -> la fenomenologia.
Post by Davide Pioggia
*****
La "mente" e il "cervello" sono solo due descrizioni dello stesso fenomeno,
con la "mente" che contiene "meno dettagli" (e quindi la determinazione non
è biunivoca, per cui un cane può provare dolore come lo provo io senza
avere il mio stesso cervello), ma proprio perché contiene meno dettagli essa
è "chiusa" rispetto a sé stessa, e in quanto tale "esiste veramente".
*****
==========
A questo punto si apre un altro mare di problemi, che sono tutti legati ai
"nessi causali". Infatti se è vero che lo stato macroscopico è solo un
"riassunto" di quello microscopico, sembra quasi che non ci potrà mai essere
un nesso causale che dal macro- discende fino al micro-, poiché è il micro-
a determinare il macro-. Dunque sembra proprio che le variabili macro- mai e
poi mai possano essere prese come "cause" dei mutamenti di ciò che avviene a
livello micro-.
D'altra parte però tutti noi siamo abituati a sentirci dire che esercitando
la nostra volontà possiamo far partire un segnale elettrico dal cervello che
poi fa muovere un nuscolo. Parimenti si sente dire dagli informatici che
scegliendo una certa opzione da un menu a tendina si trasmettono dei "dati
seriali" su un bus. E anche in termodinamica a volte si usa un linguaggio
simile, come se le variabili macro- fossero qualcosa di fisico che può agire
fisicamente sulle variabili micro-.
Come mai parliamo così? Sono tutte assurdità? No, si tratta però di
un linguaggio "misto" (a cui ci si riferisce talvolta come "descrizione
mesoscopica"), nel quale si mescolano fra di loro termini ricavati da due
descrizioni diverse. Se per un ontologo già il fatto che ci fossero due
descrizioni diverse di uno stesso fenomeno era un orrore, 'sta roba qua
diventa un orrore al quadrato. Eppure la "descrizione mesoscopica"
è utilissima, talvolta indispensabile. Ma è subdola e sconcertante, e spesso
porta fuori strada in modo "diabolico". È come camminare su una lama
di rasoio.
--
Saluti.
D.
La capacità di immaginare non si basa sulla fenomenologia come metodo di
generazione dei modelli (ma solo come stato iniziale).
Necessita l'intuizione dell'ignoto e ciò ci fa temere che si possano
evocare dei mostri, dei demoni, che prendano il dominio -al posto
nostro- della nostra mente.

Noi stessi avremmo dato le chiavi per entrare al "diabolico" che doveva
esser tenuto fuori di noi.

Tutti ancorati al "mi risulta solo ciò che tocco", poi ci saremmo fatti
"fregare" dall'illusionismo e dallo sprofondare nel delirio e nelle
allucinazioni.

Ma esiste una parola greca che dice che navigare con la mente non è un
semplice navigare, ma un *arte del navigare* -> cibernetica.

Il modello non come mito e come realtà ultima, ma come la capacità di
usare e non totemizzare, perché non avendo DIO, su qualcosa dovevamo
-pur- riversare il nostro desiderio di certezze.

--
Saluti.
L.
Davide Pioggia
2008-04-13 14:42:57 UTC
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Se la descrizione neurobiologica e quella mentalistica sono descrizioni
dello stesso fenomeno, il rapporto tra le due descrizioni e'
mentalistico, neurobiologico o ambedue le cose? Quale delle tre risposte
e' in grado di aggirare la logica di tre inevitabili paradossi?
Prima di cercare di rispondere a questa domanda devo tornare su un concetto
che fino ad ora ho espresso parlando di descrizione "chiusa", "autonoma",
eccetera, e che per attenermi ad un linguaggio più consueto della fisica
avrei forse dovuto definire "completa", se non fosse che quest'ultimo
aggettivo può risultare un poco impegnativo agli occhi di un filosofo, ma
tant'è.

Supponiamo di lanciare a caso un sasso dalla stessa posizione, mantenendo
fisso solo il punto da cui viene lanciato, e senza controllare tutto il
resto. Cosa vediamo? Vediamo che il sasso va a cadere ogni volta in un punto
diverso. Come mai? Forse che l'universo non è deterministico? Prima di
rassegnarci a questo esito inquietante proviamo a ragionarci meglio. Ben
presto ci viene il sospetto che se vogliamo che vada a finire nello stesso
punto non basta lanciarlo dallo stesso punto, ma come minimo bisogna anche
lanciarlo nella stessa direzione. Allora proviamo a lanciare il sasso più
volte dallo stesso punto e nella stessa direzione, e quello di nuovo non va
a cadere nello stesso punto. Pensandoci meglio, ci viene in mente che forse
non basta lanciarlo dalla stessa posizione e nella stessa direzione, ma
bisogna anche lasciarlo andare con la stessa velocità. Facciamo un po' di
prove e... tombola! Scopriamo così che se un sasso viene lanciato più volte
a partire dalla stessa posizione, nella stessa direzione e con la stessa
velocità esso va a cadere sempre nello stesso punto.

Non solo, ma per arrivare a questa scoperta prima abbiamo dovuto farne
un'altra, ovvero che fra tutti i punti geometrici occupati dal volume del
sasso quello da "seguire" (sia per determinare il punto del lancio sia per
determinare il punto di caduta) è un punto particolare che per varie ragioni
possiamo chiamare il "baricentro" del sasso.

Ora manca solo una ripulita formale, che si può ottenere usando il concetto
di vettore. Infatti quando diciamo che il sasso viene lanciato con la stessa
velocità e nella stessa direzione, possiamo limitarci a dire che esso viene
lanciato con la stessa velocità, se per "velocità" decidiamo di intendere
una grandezza vettoriale, cioè una grandezza che abbia una direzione, un
verso e un valore numerico. Questo è solo uno stratagemma formale per
"impacchettare" delle informazioni in un unico oggetto, per cui
concettualmente non cambia nulla.

Ecco dunque la nostra scoperta:

***
se un sasso viene lanciato in modo tale che la posizione e la velocità
iniziale del suo baricentro sia sempre la stessa, allora esso (il
baricentro) va a cadere sempre nello stesso punto (ammesso ovviamente
che nel frattempo non sia mutato il paesaggio attorno al sasso).
***

Quella che abbiamo appena scoperto è una proprietà fisica del moto dei
gravi che non era affatto deducibile a priori, riflettendo "analiticamente"
sul concetto di sasso e su quello di moto, ma è una vera e propria scoperta,
l'acquisizione della conoscenza di una proprietà del nostro universo che
abbiamo ottenuto dalla "sintesi" delle osservazioni empiriche che abbiamo
fatto.

Per certi versi possiamo dire di essere riusciti a raggiungere una "soglia
critica di informazione", la quale viene raggiunta quando il possesso di
quella informazione in un certo istante di tempo t ci permette di
*determinare univocamente* la stessa informazione in un istante di tempo
successivo t'. In questo caso l'informazione è data dalla posizione e dalla
velocità del baricentro del sasso. Diciamo allora che questa informazione
definisce lo "stato" del sasso.

Qui un filosofo potrebbe aprire una grossa grana, facendomi osservare che
non posso mai essere certo di aver veramente "ripetuto l'esperimento".
Tanto per cominciare i miei strumenti di misura avranno un limite di
precisione. Ad esempio se la distanza più piccola che possiamo misurare
è 1 millimetro, tutto ciò che posso dire ripetendo l'esperimento è che la
posizione iniziale del sasso differiva meno di 1 millimetro da un
esperimento all'altro. Inoltre per misurare la velocità iniziale avrò
bisogno di un orologio, che avrà anch'esso un limite di precisione.
Infine quando ripeto l'esperimento l'universo sarà mutato: il sole sarà
sceso di un po' sull'orizzonte, le stesse saranno ruotate, gli uccelli si
saranno mossi da un ramo all'altro degli alberi, le nuvole avranno corso in
cielo, il ricordo dell'esperimento precedente si sarà fissato nella mia
mente, tutti noi saremo invecchati di qualche minuto, eccetera. Come faccio
allora a dire di aver "ripetuto l'esperimento"?

Ecco, qui è il nodo cruciale della faccenda, perché non sono io a dirlo:
è... il sasso! Infatti la grande scoperta è proprio questa, che io posso
fregarmene di tutto ciò, misurare la posizione e la velocità iniziale del
sasso con i miei strumenti sgangherati e in un universo in perenne
mutazione, e il sasso andrà a finire ogni volta in nella stessa posizione,
compatibilmente con quanto mi permettono di osservare i miei strumenti
sgangherati. Se la posizione iniziale è la stessa con un errore di qualche
millimetro, allora anche la posizione finale sarà la stessa con un errore
di qualche millimetro.

Possiamo vedere la cosa da un altro punto di vista: se decidiamo
di considerare trascurabile il sole, le stelle in cielo, le nuvole, gli
uccelli, il nostro corpo, tutto ciò che è più piccolo di 1 millimetro,
eccetera eccetera, ecco
*se*
decidiamo di trascurare tutto questo e riduciamo la descrizione
dell'universo al profilo della superficie terrestre e alla posizione e
velocità del baricentro del sasso osservata con una precisione millimetrica,
*allora*
quando il sasso venga lanciato in modo tale che il suo baricentro abbia
la stessa posizione e velocità iniziale esso va a cadere - con precisione
millimetrica - nello stesso punto.

Rispetto allo "stato dell'universo" l'informazione che abbiamo deciso di
raccogliere è veramente infinitesimale. Eppure essa raggiunge una "soglia
critica", perché fino a quando non abbiamo messo assieme quella informazione
le cose non andavano in questo modo, e il sasso andava a cadere in un punto
diverso del suolo anche rispetto ai nostri sgangherati strumenti.

È questo il "vero stato" del sasso? Domanda assurda e insensata, perché
dipende sempre da cosa abbiamo deciso di osservare e trascurare.

Ad esempio se il nostro scopo è tirare dei sassi in testa a dei nemici, a
noi basta che in testa ai nemici arrivi il "baricentro" del sasso, ché poi
anche il resto del sasso sarà lì attorno e si farà sentire. Se però abbiamo
delle esigenze più sofisticate e ciò che stiamo lanciando non ha una
simmetria sferica, allora ci potrebbe interessare anche l'orientamento con
cui l'oggetto lanciato arriva al suolo. Ecco, se prendiamo in considerazione
anche questo dettaglio ci rendiamo conto che per poter "ripetere
l'esperimento" abbiamo bisogno non solo di osservare (e fissare) la
posizione e la velocità del baricentro, ma anche l'orientamento iniziale
dell'oggetto e la sua velocità di rotazione iniziale rispetto al baricentro.
Ecco dunque un modo più accurato di definire lo "stato" di un corpo rigido:
posizione e velocità del baricentro, orientamento spaziale (di solito si
fissano tre assi uscenti dal baricentro e solidali con il corpo rigido) e
velocità di rotazione (dei tre assi) rispetto al baricentro.

Se ci limitiamo ai corpi rigidi e ci interessa solo il loro moto, non ci
serve alcuna informazione aggiuntiva, e questo è a tutti gli effetti lo
"stato" dell'oggetto.

==========

A noi però non sembra che tutti i fenomeni si riducano ad un moto.
Gli oggetti hanno anche dei colori, degli odori, se li tocchiamo li sentiamo
caldi o freddi. Che ne è di tutti questi altri particolari della descrizione
degli oggetti?

Supponiamo ad esempio di aver racchiuso un gas in un contenitore
deformabile, e di esercitare una pressione variabile sulla superficie del
contenitore. Questo fenomeno è stato osservato dall'uomo fin dalla
antichità, perché gli zampognari suonavano le loro zampogne, i fabbri
pompavano i loro mantici, in seguito gli ingegneri hanno costruito delle
macchine a vapore, eccetera. Ora, se noi prendiamo un certo gas racchiuso
in un certo contenitore ed esercitiamo una certa pressione (possiamo usare
dei pesi variabili), il contenitore si stabilizza su un certo volume, che è
tanto minore quanto maggiore è la pressione.

Anche in questo caso si pone il seguente problema: a parità di pressione
il volume è sempre lo stesso?

No, non basta, perché lo stesso gas posto nello stesso contenitore e
mantenuto alla stessa pressione può avere di volta in volta volumi diversi.
Dunque c'è qualche "dettaglio importante" che abbiamo trascurato. Quale
potrebbe essere? Pensa e ripensa, prova e riprova, ci rendiamo conto che il
"dettaglio importante" che avevamo trascurato è quella cosa che al tatto ci
fa dire che un corpo è "caldo" o "freddo". Che cosa sia questa cosa non lo
sappiamo, tuttavia possiamo definire una procedura per misurarla (perché i
fisici fanno proprio questo: anziché dire "il che cosa è" dicono "come si
misura"), possiamo anche darle un nome, ad esempio "temperatura", e fatto
questo ci rendiamo conto che ci siamo: se un gas viene sottoposto alla
stessa pressione mentre viene mantenuto alla stessa temperatura, allora esso
occupa lo stesso volume.

Questa scoperta ci permette di stabilire il concetto di "stato
termodinamico", che a prima vista non ha nulla a che vedere con lo "stato"
che avamo definito più sopra, che in questo caso sarebbe la posizione e la
velocità del baricentro del gas, e di cui ora proprio non sappiamo che
farcene.

==========

Così facendoci "guidare dai fenomeni stessi" siamo arrivati a scoprire che
esistono almeno due "descrizioni complete" di un oggetto: una che possiamo
definire "dinamica" e l'altra che possiamo definire "termodinamica". Abbiamo
trovato almeno due modi di mettere assieme una "descrizione minima" di un
sistema, e chissà quanti ce ne potrebbero essere di queste "descrizioni
minime". Per ora ne abbiamo trovate due, ed esse ci appaiono entrambe
"autonome", nel senso che sono "complete rispetto a sé stesse".

Ecco, il bravo fisico deve saper fare questo: svuotarsi di qualunque
aspettativa nei confronti del mondo, e lasciarsi "guidare dai fenomeni
stessi". Ovviamente è impossibile liberarsi da qualunque aspettativa e da
qualunque pregiudizio, come pure è impossibile osservare "i fenomeni
stessi", tuttavia questo deve restare l'ideale a cui tendere, per cui
l'approccio con la realtà deve restare perennemente aperto, pronto a
lasciarsi "guidare dai fenomeni stessi". Ogni irrigidimento è deleterio.

Il fisico che dopo aver fatto queste osservazioni si chiudesse in una
visione rigida, e scrivesse un librone in due sezioni, di cui una dedicata
alla "meccanica" e una alla "termodinamica", come se ci fossero "davvero"
due e due soli modi completi e autonomi di descrivere la realtà, non sarebbe
un bravo fisico, ma sarebbe uno stupido Procuste dei fenomeni. Il bravo
fisico non è un arido burocrate che riduce tutta la complessità del mondo
a dei miseri vettori geometrici, ma è uno capace di lasciarsi "guidare dai
fenomeni stessi", ovunque essi lo portino. Se i fenomeni mostrano di avere
una "soglia minima" definita dalla posizione e dalla velocità del
baricentro, bene, allora il fisico sarà capace di concentrarsi su quei due
vettori, senza curarsi del fatto che a cadere sia un sacco di patate o un
poveretto che ha deciso di farla finita buttandosi da un ponte. Ma proprio
perché il fisico è stato capace di ridurre i fenomeni a quella arida
descrizione, egli deve essere capace di anche di "seguire i fenomeni"
ovunque essi lo portino.

Tornando al nostro caso, dicevo che il fisico che volesse ingessare la
realtà in due capitoli, uno di "meccanica" e l'altro di "termodinamica", non
sarebbe un bravo fisico. Forse quella cosa potrebbe avere una utilità
didattica, ma anche su questo ci sarebbe da discutere. E comunque se il
fisico pensasse veramente che esistono due e due sole descrizioni possibili
del mondo, la "meccanica" e la "termodinamica", che farebbe il giorno in cui
qualche altro fisico (uno bravo) gli andasse a dire che la "termodinamica"
può essere reinterpretata come "meccanica statistica" e gli presentasse una
equazione in cui la temperatura di un gas viene espressa come energia
cinetica media delle particelle che lo compongono? Se le uniche descrizioni
possibili del mondo sono quella "meccanica" e quella "termodinamica", a che
tipo di descrizione appartiene una equazione nella quale la temperatura (che
è un concetto tipicamente "termodinamico") viene espressa come energia
cinetica media (che è un concetto non solo tipicamente "meccanico", ma anche
"statistico")? Il povero fisico ingessato da che aveva due bei capitoletti
separati si trova il suo libro tutto incasinato.

Questo significa che non è più vero che la "meccanica" e la "termodinamica"
sono due possibili "descrizioni complete" dei fenomeni? No, certo, perché lo
sappiamo - ce lo hanno mostrato i fenomeni stessi - che si tratta
effettivamente di due modi di mettere assieme una "descrizione minima";
ma il fatto che noi nelle nostre descrizioni del mondo siamo in grado di
isolare dei "pacchetti di informazione" che il divenire del mondo non
disperde non ci autorizza di certo a ipostatizzare questa cosa facendo di
quei pacchetti di informazione delle "sostanze", su cui magari fondare dei
dualismi ontologici.

In particolare ogni volta che sorge la necessità di "riaprire il cantiere"
bisogna essere capaci di adottare degli approcci "mesoscopici". Se i fisici
fossero stati costretti a scrivere *aut* delle equazioni di "meccanica"
*aut* delle equazioni di "termodinamica", sarebbe stato "vietato" elaborare
una cosa come la "meccanica statistica".

Io non ho mai detto che siccome esistono "due descrizioni autonome di uno
stesso fenomeno" allora ogni possibile discorso deve essere necessariamente
riconducibile ad una ed una sola descrizione. Già il fatto di parlare di
"descrizioni autonome" è solo un modo di indicare una certa proprietà dei
fenomeni, qualcosa che sembra lasciarsi "isolare stabilmente". Ma dalla
possibilità di isolare stabilmente certi aspetti di un fenomeno alla
costruzione di una ontologia dualistica con tanto di "materia" e "spirito"
ce ne passa. Il mondo ci sta tutto intero lì di fronte, e i tagli li
facciamo noi. Diciamo allora che il fisico è come l'incisore del legno che
cerca di seguire le venature del legno, ma le venature non sono tagli e non
tutti i tagli possono seguire le venature. I tagli li facciamo noi, e
dobbiamo essere sempre pronti e capaci di tagliare diversamente,
o anche di rinunciare a tagliare, quando occorre.
--
Saluti.
D.
Loris Dalla Rosa
2008-04-14 13:27:54 UTC
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Post by Davide Pioggia
Post by Loris Dalla Rosa
Personalmente rifiuterei la tua prima affermazione (per i motivi
squisitamente logici che ho esposto in icf). Sulla seconda ho delle forti
riserve di tipo semantico. Condividendo la tua opinione circa un
imprescindibile rapporto tra mente e cervello, mi lascia perplesso la sua
caratterizzazione come rapporto di univoca determinazione. Ti chiedo se
per te "determinazione" e "condizionamento" sono sinonimi, cioe' se essere
condizionati e' condizione non solo *necessaria*, ma anche *sufficiente*,
per essere determinati.
Mi dispiace darti un dispiacere, ma per rispondere a questa domanda ho
bisogno di fare prima una lunga digressione, nella quale userò in abbondanza
degli orribili riferimenti "naturalistici" :-)
La ragione principale per la quale sento il bisogno di questa digressione, è
che per me è assolutamente determinante richiamare la tua attenzione sul
fatto che noi abbiamo due *descrizioni* diverse di uno *stesso fenomeno*,
mentre quando tu hai cercato di "venirmi incontro" accettando di discutere
gli esempi che ti avevo portato mi hai dato l'impressione di aver
sottovalutato questo aspetto, tant'è che hai aggiunto un esempio in cui si
davano due *dimostrazioni* diverse di una *stessa affermazione*.
Non posso che ringraziarti per l'impegno profuso nel produrre esempi
chiarificatori di quello che vai sostenendo.
Per evitarmi l'imbarazzo della scelta tra le molte obiezioni che avrei da
farti, cerco di riferirmi il piu' possibile ad uno solo di essi, sperando di
poter essere chiaro almeno quanto te.
Pensando che il cervello sia qualcosa di piu' complicato di un contenitore
di gas, scelgo come piu' adeguato quello della ola allo stadio.
Il problema di cui mi faccio portatore e' quello circa la tua domanda piu'
Post by Davide Pioggia
Ti è più chiaro ora cosa intendo quando dico che dato un certo stato fisico
del cervello ciò che il cervello sta pensando è univocamente determinato
dallo stato fisico?
Certo che mi e' piu' chiaro, ma cio' di cui faccio problema e' quel
"univocamente". Ho l'impressione (anzi di piu' che un'impressione) che
quell' univocita' sia strettamente dipendente dal metodo descrittivo assunto
per indagare il fenomeno, non dal fenomeno stesso. Del resto non posso darti
torto: non vedo altro metodo scientificamente valido che possa fare a meno
della "descrizione" del fenomeno. Ma ecco la sostanza della mia obiezione,
che e' molto semplice, ma non credo semplicistica: in ogni atto della nostra
vita quotidiana facciamo uso di qualche descrizione *mentale* del mondo che
ci circonda, in base ad essa agiamo, trasformiamo un determinato stato di
cose (di cui abbiamo una descrizione *mentale*) in un altro stato di cose,
di cui pure abbiamo una descrizione *mentale*. Naturalmente "al di sotto" di
questo piano macroscopico, teatro in cui si svolge tutto questo processo,
c'e' un piano miscroscopico, cerebrale, in cui si volge tutta un'altra
storia; tanto che, a voler *descrivere* sia l'una che l'altra, risultano
diverse quanto una tragedia di Shakespeare scritta in inglese da una
commedia di Goldoni scritta in dialetto veneziano. Risolve il problema
scendere a un livello mesoscopico, come dici tu, ovvero a una lingua in cui
si mescolano termini inglesi e del dialetto veneziano, come dico io? Ma a
questo arrivo dopo, andiamo con ordine. Finora abbiamo due descrizioni, una
"mentalistica" e una "cerebralistica" (se mi passi la barbarie linguistica
di questi termini), che permettono di tornare al tuo esempio della ola allo
stadio. Vedo che nel filmato l' "onda" si propaga da destra a sinistra. A me
piacerebbe invertirne il senso, da destra a sinistra. Come posso fare?
Potrei, trovandomi li' in un'insolita veste di diavoletto di Maxwell,
passare da un tifoso all'altro, convincendo ognuno a interrompere e
riprendere il movimento, secondo tempi che la diabolica potenza della mia
mente di matematico ha precedentemente calcolato (da qui vedi quanto
iper-irrealistico sia il mio esempio:-)). Teoricamente, comunque,
intervenendo su ogni singolo tifoso otterrei di determinare univocamente
l'inversione di senso della ola che mi proponevo di ottenere. Oppure? Oppure
ammettiamo che nello stadio sia presente anche un gigantesco maxischermo,
nel quale gli spettatori possano vedersi in diretta. Potrei meditare un
intervento (anche se un po' idiota, alla Paolini), e presentarmi davanti
alla telecamera con un grosso cartello che dice: "Juventini della curva Sud,
cessate la ola per un minuto e riprendete a farla da sinistra a destra!".
Otterrei lo stesso risultato che volevo ottenere. Si puo' ancora parlare di
"determinazione univoca"? Se poi questo mio esempio ti sembra contenere
qualche allusione che travalica l'ambito strettamente
folcloristico-sportivo... beh, sappi che non e' casuale, perche' l'esempio
ha una vasta gamma di allusioni semantiche, compresa quella a un
determinismo delle leggi economiche, che e' un errore storico considerare
leggi deterministiche e non piuttosto "leggi di tendenza", che non sono
neppure leggi senza un "manifesto" imperativo. Ma meglio tornare all'esempio
sportivo. Vorrei citarti un articolo de "La Stampa" di ieri: "La Jve batte l
Mlan 3-2 all'Olmpco". Forse starai pensando che mi si e' rotto qualche tasto
della tastiera, e stai per consigliarmi di controllare il contatto elettrico
dei tasti "u" e "i". Invece non mi si e' rotto proprio niente e tu hai
capito benissimo che "La Juve batte il Milan 3-2 all'Olimpico". Hai corretto
nella tua mente quella proposizione, e tanto meno ti e' passato per la testa
che fosse un qualche guasto improvviso e passeggero al tuo monitor ad
impedire la visualizzazione della "u" e della "i". Dove voglio arrivare? Ci
arrivo adesso.
Proviamo a "mappare" nel cervello l'esempio. Mi scuserai l'eventuale
imprecisione nell'uso del termine "mappa", ma non trovo di meglio per dire
quell'area corticale o sistema di aree corticali connesse cui deve
corrispondere, a livello di substrato cerebrale, il concetto di mente e di
cervello. Fatto e' che nel cervello deve esserci una mappa che corrisponde a
"mente" e una che corrisponde a "cervello", esattamente in analogia al fatto
che nel cervello deve esistere un'immagine "esterna" di questo mio PC e una
"interna" di quel groviglio di fili e di chips, che mi appare se mi munisco
di cacciaviti e lo apro. La particolarita' e' il fatto, che richiede un
piccolo sforzo di immaginazione, che proprio nel cervello esiste una mappa
sia della mente che del cervello. Ora il problema. Quando hai corretto
quella mia proposizione ("La Jve batte l Mlan 3-2 all'Olmpco"), perche'
l'hai fatto nella tua mente, e non ti sei invece precipitato a casa mia a
ripararmi la tastiera? (Che ti avrei pure offerto un buon bicchiere di
vino:-)). Tu hai operato la correzione nella mappa cerebrale della mente
(M), e non in quella cerebrale del cervello (C). Ma, e a questo punto e'
necessario un altro e' decisamente piu' forte sforzo di immaginazione, se la
mappa M e' proprio *nel* cervello, il tuo intervento in M e' *del tutto*
equivalente a un intervento che tu avessi operato in C, tanto da non sapere
se in realta' hai operato in M o in C. E qui concludo, richiamando
finalmente il tuo esempio (nel tuo post successivo) del "fisico ingessato",
con i suoi due libri separati (interpretazione "meccanica" e
"termodinamica") e il "fisico bravo" (interpretazione "statistica"). Ma, ti
chiedo, l'interpretazione del "fisico bravo", non e' proprio la rinuncia a
quella "determinazione univoca" che sostieni? Non e' proprio la rinuncia a
quel "diavoletto di Maxwell" che rappresenta l'utopia di una descrizione
assolutamente deterministica? E tale rinuncia non significa che a un certo
livello e' inevitabile fermarsi, per accontentarsi di una descrizione
irrimediabilmente mentalistica?
Un c ro s luto:-)
Loris
Davide Pioggia
2008-04-15 12:27:53 UTC
Permalink
Ma ecco la sostanza della mia obiezione, che e' molto semplice, ma non
credo semplicistica: in ogni atto della nostra vita quotidiana facciamo
uso di qualche descrizione *mentale* del mondo che ci circonda, in base ad
essa agiamo, trasformiamo un determinato stato di cose (di cui abbiamo una
descrizione *mentale*) in un altro stato di cose, di cui pure abbiamo una
descrizione *mentale*. Naturalmente "al di sotto" di questo piano
macroscopico, teatro in cui si svolge tutto questo processo, c'e' un piano
miscroscopico, cerebrale, in cui si volge tutta un'altra storia; tanto
che, a voler *descrivere* sia l'una che l'altra, risultano diverse quanto
una tragedia di Shakespeare scritta in inglese da una commedia di Goldoni
scritta in dialetto veneziano. Risolve il problema scendere a un livello
mesoscopico, come dici tu, ovvero a una lingua in cui si mescolano termini
inglesi e del dialetto veneziano, come dico io?
Non so se tu abbia seguito certe discussioni che ho portato avanti in
passato, ma posso assicurarti (credo che Marco te lo possa confermare)
che ormai da anni vado dicendo che «quando non c'era nessuno non esisteva
niente». Come vedi è un modo un po' "romanzato" di esprimere quello che
potrebbe essere definito un idealismo radicale. Ho detto anche che un
ipotetico universo chiuso privo di una coscienza che lo osserva non
esisterebbe.

Il modo in cui io arrivo a quella posizione è piuttosto articolato e lontano
dalla sensibilità "continentale", ma quello è il mio approdo. Quando ne
discuto con qualcuno vicino alla cultura scientifica, onde non essere
preso subito per uno fuori di testa, parto solitamente da qualche forma
di "realismo ingenuo", e poi cerco di mostrarne i limiti invalicabili.
Di solito chiedo al mio interlocutore di descrivermi il sistema solare
com'era (o come poteva essere) due o tre miliardi di anni fa, e quando
quello cerca di darmene una descrizione gli dimostro puntualmente che quella
è una descrizione "troppo umana", che resta tale qualunque cosa egli tenti
di fare. Quando egli si rende conto che non può uscire del tutto dalla sua
posizione di osservatore umano (e di stare dunque usando concetti "ante
litteram", visto che gli uomini sono comparsi solo pochi milioni di anni fa,
che è una inezia rispetto all'eta del sistema solare) di solito si rende
anche conto che qualunque presunta descrizione "oggetiva" presuppone
la presenza di un "soggetto" che osserva. Per i filosofi tutto ciò è ovvio e
scontato, ma noi tecnici abbiamo bisogno di partire sempre da qualcosa
di concreto, e le vie della illuminazione sono infinite :-)

Dunque mi sembra chiaro che il "cervello" esiste solo nella mente, e che se
non ci fosse un mente non ci sarebbe nemmeno il cervello. Quale sarebbe
infatti una ipotetica "descrizione oggettiva" del cervello? Perché
concepirlo come tessuto e non come insieme di cellule? E perché "isolare"
dal resto del mondo proprio il cervello e non l'intero sistema nervoso?
E vista la capillarità del sistema nervoso, perché non prendere tutto il
corpo? Perché poi fermarsi alla cellula e non descrivere il cervello come
un sistema di particelle quantistiche? Non è forse quella quantistica la
"descrizione vera" del mondo, essendo quella "classica" una descrizione
"a grana grossa" che non cattura la realtà ultima del mondo? E poi, quali
particelle? Perché fermarci ai protoni e neutroni e non arrivare fino ai
quark? Un ipotetico "occhio di Dio" non vedrebbe forse tutta la materia
costituita da tutti i suoi componenti elementari, fino a quello più
elementare di tutti? E se un giorno dovessimo costruire una teria nella
quale anche i quark non appaiono più come oggetti elementari ma come oggetti
composti, dovremmo cambiare il "punto di vista di Dio"? Come vedi cadiamo
di nuovo nel problema che evidenzavo poco fa: qualunque descrizione del
cervello risulta "troppo umana" per poter essere usata quando ancora dal
cervello non era "emersa" la mente. Dunque per parlare di "cervello" bisogna
ipotizzare una mente che lo pensa: è la mente che fa esistere il cervello.

Tempo fa avevo scritto un articolo, che avevo intitolato "il prima e
il dopo", nel quale facevo vedere che qualunque tentativo di raccontare
la storia per spiegare il presente finisce per produrre una storia che è
inevitabilmente una immagine che il presente ha di sé stesso, per cui
nessuna epoca può avere la pretesa di partire da quando non c'era il
presente per poi raccontare oggettivamente come il presente si sia prodotto
da tutto quel passato. È sempre il presente che riflette su sé stesso,
e i libri di storia non appena passa un po' di tempo non sono più libri
*sulla* storia ma sono libri *della* storia:
http://snipurl.com/24h56 [groups_google_it]
Arriviamo così ad una considerazione che può apparire paradossale: noi
concepiamo il presente come il prodotto del passato, eppure quel passato
esiste solo nel presente, e ogni presente rielabora il proprio passato
secondo le proprie categorie, sicché un "passato oggettivo" non esiste.
Se noi scriviamo un libro sul XVII secolo, non stiamo parlando del XVII
secolo "in sé", ma è una riflessione che il nostro presente fa su sé stesso,
ripensando a come era quattro secoli fa. Come un anziano che riflette sulla
sua giovinezza usando inevitabilmente le categorie della sua anzianità.

Ebbene, questo discorso si lascia estendere anche a quei casi in cui il
"prima" e il "dopo" non si debbano intendere in modo cronologico, ma
concettuale. Così noi pensiamo che "prima" venga il cervello e "dopo"
venga la mente non solo cronologicamente, ma anche concettualmente.
Cioè, anche se pensassimo che già il primo sistema nervoso aveva una mente
(il che francamente mi sembra improbabile, ma non è questo il punto) noi
staremmo comunque cercando di far vedere come "emerge" la mente da un
sistema nervoso. Dunque sia dal punto di vista cronologico sia da un punto
di vista concettuale noi intendiamo la mente come qualcosa che viene "dopo".
Già, ma abbiamo anche detto che il cervello esiste solo nella mente, al pari
di tutte le altre cose, per cui ci ritroviamo in una situazione paradossale,
analoga a quella che storiografia: noi concepiamo la mente come un
prodotto del cervello, eppure è la mente che fa esistere il cervello.
Questo parallelo lo avevo portato avanti in un altro articolo di quello
stesso thread:
http://snipurl.com/24h6c [groups_google_it]

Come vedi mi sembra che in me ci sia una chiara consapevolezza del fatto
che ogni riflessione sulla mente è essa stessa un contenuto mentale, che
ogni pensiero è un pensato, e che qualunque riflessione presupponga la mente
come qualcosa di "dato", anzi come tutto e l'unico l'orizzonte che ci è dato
conoscere, il che ci riporta al discorso tipicamente "continentale" :-) di
Marco sulla "datità".

Ma allora, siete forse riusciti a strapparmi al mio presunto materialismo,
alla mia fallacia naturalistica, mi avete finalmente risvegliato dal mio
sonno dogmatico, tirandomi fuori dalle tenebre e portandomi alla vera luce
dell'idealismo (fosse pure quello trascendentale, o critico, o quel che è)?
Eh?

Calma e gesso :-)

Il problema con gli idealisti è che essi non ti chiedono la mano per avere
una mano, ma di solito ti chiedono la mano per prendersi tutto il braccio,
e spesso e volentieri cercano anche di toccarti il culo; il che magari può
anche essere piacevole, ma come minimo voglio essere consenziente,
ché il culo è mio e lo gestisco io :-)

Tanto per farti capire cosa intendo, a me sta benissimo dire che quando non
c'era nessuno non c'era niente, ma se a questo punto uno ne approfitta per
dire - "Testi alla mano" - che allora il mondo è stato creato il 23 ottobre
4004 aC, di domenica, beh, se la cosa prende questa piega a me non sta più
bene, e ribadisco fermamente che l'universo ha almeno una quindicina di
miliardi di anni di età, il sistema solare almeno un terzo di quell'età, e
l'uomo esiste da milioni di anni. Tutto ciò lo dico non perché non lo
ritenga "vero" e voglia fare un dispetto, ma perché io sono fermamente
convinto di tutte e due le cose: è vero che quando non c'era nessuno non
c'era niente, ma è anche vero che la specie umana esiste da qualche milione
di anni, mentre il resto dell'universo si è formato in miliardi di anni,
attraverso varie generazioni di stelle. Analogamente è vero che il passato
storico esiste solo come riflessione del presente su sé stesso e sulle sue
origini, ma questo non autorizza nessuno a raccontare il passato che più
gli fa comodo, travisando le fonti e cambiando i "fatti".

Come si spiega questo apparente paradosso della mia posizione?
Mi sto forse contraddicendo? O forse sto adottando anche io qualche
forma di "ragione dialettica"?

Non scherziamo :-)

Se proprio vogliamo far rientrare la mia posizione in una forma di
idealismo, la possiamo definire "idealismo senza le stronzate" :-)
Nel dire questo mi ispiro al modo in cui la cultura anglosassone ha
rielaborato quel che di buono c'è nel marxismo, producendo una corrente
di pensiero che ufficialmente viene chiamata "marxismo analitico", ma che
gli addetti ai lavori definiscono appunto "marxismo senza le stronzate":
http://en.wikipedia.org/wiki/Analytical_Marxism

Dunque è chiaro che tutti i discorsi che facciamo sul modo in cui la mente
possa emergere dal cervello non sono altro che una riflessione che la mente
fa su sé stessa, creandosi una rappresentazione mentale di sé stessa e anche
di una presunta realtà esterna non mentale, dalla quale essa (la mente)
possa essere stata in qualche modo "prodotta". Tuttavia il fatto che tutto
ciò si svolga nella mente, e che non sia possibile descrivere un
"non-mentale-in sé" ('azz, sto cominciando anche io a usare i trattini: se
vedi che peggioro ti autorizzo fin d'ora a prendere provvedimenti drastici,
anche contro la mia volontà :-) ) se non usando delle categorie della mente,
non ci autorizza a dire qualunque stronzata ci possa passare per... la
mente. Insomma, se anche vogliamo interpretare questa riflessione come una
riflessione che la mente fa su sé stessa, come un tentativo della mente di
"uscire da sé" per concepire un "altro-da-sé" (santo cielo, peggioro!) dal
quale essa possa essere stata "prodotta", ecco se anche vogliamo concepire
in questo modo la cosa, poi quella costruzione mentale deve essere
auto-consistente, il cerchio deve chiudersi, i conti devono tornare.
Alla fine, stringi stringi, siamo sempre lì: la scienza ha qualche
possibilità di riuscire a "realizzare concretamente una mente", mentre i
filosofi "continentali" non ne hanno nessuna. E già questa è una bella
differenza, maledettamente "concreta" (dove, se vuoi, puoi sostituire
"concreto" con "pragmatico", o "auto-consistente", o "senza le stronzate",
che è sempre l'istèss :-) ).

Quando Marco dice di volersi rifugiare sulla vetta della "datità" dove la
scienza non potrà mai raggiungerlo, dimentica di dire che su quella vettà
non sarà solo, ma sarà spintonato e soffocato da un moltitudine di gente che
si è rifugiata là in cima per trovare un luogo nel quale poter continuare a
ripetere delle stronzate. Così se Marco vorrà piacevolmente godersi dalla
vetta lo spettacolo della scienza che dilaga nella vallata dovrà anche
portarsi una maschera anti-gas e dei tappi per le orecchie, per non sentire
la puzza mefitica e il rumore assordante dei peti dei suoi compagni di
cordata :-)
--
Saluti.
D.
Marco V.
2008-04-15 13:30:39 UTC
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Post by Davide Pioggia
Quando Marco dice di volersi rifugiare sulla vetta della "datità" dove la
scienza non potrà mai raggiungerlo, dimentica di dire che su quella vettà
non sarà solo, ma sarà spintonato e soffocato da un moltitudine di gente che
si è rifugiata là in cima per trovare un luogo nel quale poter continuare a
ripetere delle stronzate. Così se Marco vorrà piacevolmente godersi dalla
vetta lo spettacolo della scienza che dilaga nella vallata dovrà anche
portarsi una maschera anti-gas e dei tappi per le orecchie, per non sentire
la puzza mefitica e il rumore assordante dei peti dei suoi compagni di
cordata :-)
Insomma, lì in vetta troverei la puzzolente stronzata dello spiritualismo. E
allora ci sarebbe qualcosa che non ha funzionato nella scalata. Dopo tutto,
cosa aspettarsi dal phylum dei..."cordati"?;-).

Come ti dicevo, sul fatto che la "datità" sia una vetta irraggiungibile
dalle orde della scienza, sarebbe contraddittorio costruire delle mistiche.
Tale irraggiungibilità non è infatti altro che la contrapposizione
originaria tra avere una esperienza e non avere una esperienza.

Un saluto,

Marco
Davide Pioggia
2008-04-15 18:04:34 UTC
Permalink
Finora abbiamo due descrizioni, una "mentalistica" e una "cerebralistica"
(se mi passi la barbarie linguistica di questi termini), che permettono di
tornare al tuo esempio della ola allo stadio. Vedo che nel filmato l'
"onda" si propaga da destra a sinistra. A me piacerebbe invertirne il
senso, da destra a sinistra. Come posso fare? Potrei, trovandomi li' in
un'insolita veste di diavoletto di Maxwell, passare da un tifoso
all'altro, convincendo ognuno a interrompere e riprendere il movimento,
secondo tempi che la diabolica potenza della mia mente di matematico ha
precedentemente calcolato (da qui vedi quanto iper-irrealistico sia il mio
esempio:-)). Teoricamente, comunque, intervenendo su ogni singolo tifoso
otterrei di determinare univocamente l'inversione di senso della ola che
mi proponevo di ottenere. Oppure? Oppure ammettiamo che nello stadio sia
presente anche un gigantesco maxischermo, nel quale gli spettatori possano
vedersi in diretta. Potrei meditare un intervento (anche se un po' idiota,
alla Paolini), e presentarmi davanti alla telecamera con un grosso
cartello che dice: "Juventini della curva Sud, cessate la ola per un
minuto e riprendete a farla da sinistra a destra!". Otterrei lo stesso
risultato che volevo ottenere. Si puo' ancora parlare di "determinazione
univoca"?
Non ce la faresti in quel modo.

Qui ho bisogno di sottolineare un aspetto comune a tutti i miei esempi,
ovvero il fatto che tentano tutti di parlare della famosa e misteriosa
"emergenza".

Lasciami tornare per un attimo alla termodinamica. Usando il modello
più semplice, quello delle palline che si urtano, abbiamo una dinamica
microscopica fatta di una serie di urti, i quali sono tutti "reversibili",
nel senso che se tu riprendi con una cinepresa l'urto fra due palle da
biliardo e poi lo proietti facendo girare il filmato al contrario, ciò che
vedi è ancora un urto descrivibile con le stesse "leggi" con cui hai
descritto l'urto che hai osservato, quello che hai ripreso e che poi hai
proiettato al contrario. Ebbene, se un urto ha questa proprietà della
revesibilità, anche due urti ce l'hanno, e anche tre o quattro urti. Dunque,
se è vero che la dinamica macroscopica (=termodinamica) non è altro che un
"riassunto" di una successione di eventi che sono tutti reversibili, come fa
la termodinamica ad essere irreversibile quando la dinamica microscopica è
reversibile? Come si fa a mettere assieme una enorme quantità di eventi
reversibili ottenendo un evento irreversibile? Perché l'urto fra due sfere è
reversibile, due urti sono ancora reversibili, tre pure, eccetera, e invece
un gas fatto di miliardi di miliardi di particelle si espande in un volume
in modo irreversibile? Da dove "salta fuori" 'sta irreversibilità? Come fa
ad "emergere" questa proprietà che possiede il "tutto" senza che la
possiedano le "parti"?

Una domanda del tutto analoga alla precente è questa: come mai una
particella non ha una temperatura, due particelle nemmeno, tre nemmeno,
eccetera, e invece un miliardo di miliardi di particelle ce l'hanno?
Da dove "salta fuori" questa "temperatura"?

Ebbene, nell'esempio della ola io stavo ancora parlando di proprietà
"emergenti", ed è su questo che dovremmo concentrarci per rispondere
alla tua domanda.

Prima però lasciami tornare alle onde del mare. Lì abbiamo una enorme
quantità di particelle d'acqua la cui dinamica risente solo di due fattori:
1) la presenza di particelle d'acqua contigue (perché fra le molecole
d'acqua si hanno delle interazioni responsabili della cosiddetta "coesione")
2) il valore del campo gravitazionale nel punto in cui si trova la
particella.

Come vedi la dinamica della singola particella d'acqua risente solo di
fattori "locali", cioè strettamente localizzati nel punto in cui si trova la
particella: la presenza di altre particelle contigue e la presenza di un
campo gravitazionale. Questo è vero sia che la particella sia immersa
nell'oceano sia che faccia parte di una goccia di pioggia. Volendo
antropomorfizzare la cosa (visto che stiamo parlando di "panpsichismo")
potremmo dire che la particella d'acqua "non sa nulla" di ciò che accade
oltre una distanza confrontabile con le sue dimensioni: per essa il fatto di
essere parte di una goccia di pioggia o immersa nell'oceano non fa nessuna
differenza, non "sa" nemmeno che esistono le gocce, gli oceani, che le gocce
sono sferiche e che gli oceani sono attraversati da onde: per la particella
esiste solo lo spazio che essa occupa, la presenza di un campo
gravitazionale in quel punto e la presenza di eventuali altre particelle
contigue. Di consenguenza noi siamo in grado di scrivere le leggi della
dinamica di una particella d'acqua in termini puramente "locali".

Ebbene, nonostante la singola particella "non sappia nulla", per così dire,
di ciò che va oltre il suo naso, una grande quantità di particelle d'acqua
sono in grado, di volta in volta, di produrre gocce di pioggia perfettamente
sferiche, oppure cristalli di ghiaccio di geometria regolare, oppure oceani
attraversati da onde la cui lunghezza d'onda può essere di metri, o
addirittura chilometri. Come fa un insieme di particelle "cieche", che non
possono vedere al di là del loro naso, a produrre strutture geometriche
perfettamente regolari e immensamente più grandi delle singole particelle?
Se le singole particelle, prese ad una ad una, sono "cieche", come fanno
tutte assime ad dare l'impressione di potersi "vedere", dando vita a
perfette coreografie collettive?

Anche in questo caso la risposta può venire solo da una attenta riflessione
sulla relazione fra le "proprietà locali" e le "proprietà globali". Ci sono
delle proprietà che quando si passa dal locale al globale semplicemente si
sommano. Ad esempio se abbiamo un milione di particelle che pesano tutte un
grammo, otteniamo un sistema che pesa un milione di volte un grammo, cioè
una tonnellata. Ma pensare che tutte le proprietà debbano comportarsi in
questo modo è un pregiudizio del tutto infondato, che trova una infinità di
controesempi in tutto ciò che la matematica e la fisica sono capaci di
sfornare ogni giorno. Ci sono delle proprietà locali che quando si esprimono
a livello globale diventano del tutto "irriconoscibili", oppure sembrano
trasformarsi addiritura nel loro "contrario" (come la reversibilità
microscopica che diventa irreversibilità macroscopica).

==========

Nel caso delle particelle d'acqua che producono strutture geometriche
macroscopiche, noi abbiamo un insieme di oggetti "ciechi" che producono
un sistema che sembra avere una "vista globale". Ma può anche accadere
il contrario.

Pensa ad esempio alla città di New York. Ogni giorno molte migliaia di
autocarri, aerei e navi portano in quella città migliaia di tonnellate di
merci per soddisfare gli immensi bisogni dei suoi abitanti. Se la cosa
funzionasse male, morirebbero tutti di fame o di freddo in poco tempo,
o come minimo si troverebbero in una grave indigenza. E se noi nominassimo
un Commissario Speciale incaricandolo di rifornire di ogni necessità una
città come New York, quello non riuscirebbe mai a tener dietro in tempo
reale alla complessità e alla mutevolezza di quelle esigenze. Magari non
riuscirebbe nemmeno a tenere pulite le strade dalla spazzatura, figuriamoci
poi se sarebbe in grado di sopperire ad ogni possibile esigenza di una città
che si fonda interamente sul terziario avanzato ed ha bisogno di tutto,
dalla bistecca al cavo ottico. Come avviene allora il "miracolo"?
Avviene semplicemente lasciando che sia il "libero mercato" (prodotto dalla
interazione "locale" della domanda e della offerta) ad auto-organizzarsi.
Così se per caso gli autocarri cominciano a portare poche zucchine per le
esigenze della città, e la cosa si protrae per più giorni di seguito, le
zucchine cominceranno a scarseggiare, il loro prezzo salirà, e qualche
verduraio comincerà a vedere la possibilità di fare un affare cercando delle
zucchine a buon mercato da portare a New York. Se da qualche parte nel
mondo ci sarà la possibilità di produrre zucchine a buon mercato il nostro
verduraio lo scoprirà presto, così arriveranno un sacco di zucchine a buon
mercato a New York, e il loro prezzo comincerà a scendere stabilizzandosi
nel momento in cui i bisogni della città saranno perfettamente sopperiti.
A quel punto il verduraio cercherà qualche altro buon affare.

Ebbene, in tutto questo traffico nessuno, ma proprio nessuno, si è
preoccupato di avere una "visione globale" del complicato sistema di
approvvigionamento della città di New York. I singoli cittadini pensano solo
a far la spesa facendosi bastare lo stipendio. Magari fra quei cittadini ce
ne sono molti che sono stressati dal lavoro e che si sputtanano un sacco di
soldi in modo irrazionale facendo il famoso "shopping compulsivo". Quanto
al commerciante di verdure, a lui del Bene Comune della città di New York
probabilmente gliene importa ben poco, e se si è dato da fare per trovare
delle zucchine è solo perché ha visto "egoisticamente" l'opportunità di fare
un buon affare. Dunque non c'è nessuno che si preoccupa del Bene Comune
della città di New York, e questa è una grandissima fortuna per i cittadini
di quella città, perché se arrivasse un Commissario Speciale che dovesse
garantire non dico il funzionamento della città a regimi normali ma anche il
semplice minimo del "pane per tutti", quei poveretti morirebbero di fame in
una settimana.

Immagina tu cosa accadrebbe se le singole particelle d'acqua dell'oceano,
anziché "occuparsi stupidamente ed egoisticamente del proprio particulare",
si mettessero in testa di formare una "Bella Onda". Apriti cielo! Anzi:
apriti mare! Sarebbe un disastro. Ogni goccia d'acqua avrebbe probabilmente
le sue idee su cosa sia una Bella Onda, e anche se miracolosamente si
mettessero d'accordo su cosa sia una Bella Onda poi molte particelle
sbaglierebbero a scegliere il momento in cui spostarsi, come un balletto di
ballerini scoordinati incapaci di capire ciò che gli dice il coreografo o -
quando capiscono - di eseguire ciò che gli è stato detto in modo coordinato.

Veniamo allora alla ola allo stadio. Il fatto che tu possa pensare di
modificare la ola convincendo tutti gli spettatori a coordinarsi fra di loro
guardando uno schermo gigante dimostra che non sei mai stato allo stadio,
o che quando ci sei stato lo hai visto con gli occhiali del professore di
filosofia prussiano e statalista :-) Quella è una bolgia infernale di gente
poco incline alla contemplazione della perfezione geometrica, e se vuoi
ottenere qualche risultato devi far circolare un passaparola che sia
assolutamente "locale" (cioè "cieco"). Sei tu poi che devi ecogitare una
"dinamica locale semplice" che possa produrre delle "strutture geometriche
globali", ma non puoi coinvolgere tutti gli spettatori in questa tua
riflessione, perché non ti darebbero retta, sarebbero distratti da altro,
ti manderebbero a quel paese, eccetera.

Come si fa, allora?

Il modo più facile è quello di far circolare il seguente "passaparola":

«Se le persone che si trovano alla tua sinistra o davanti a te si alzano,
alzati anche tu».

Il fatto che si imponga la sinistra o la destra è anch'esso un fenomeno
collettivo, poiché si ha un equilibrio instabile fino a quando non si è
imposta una unica convenzione (un po' come il fatto di guidare a destra o a
sinistra). Inoltre non c'è bisogno di fare ogni volta il passaparola, perché
la maggior parte di coloro che frequentano lo stadio hanno già appreso
quella semplice istruzione.

A questo punto per far partire la ola basta che un gruppo di persone vicine
e poste in prossimità del campo si alzino tutte assieme. Coloro che sono
dietro, vedendo alzarsi qualli davanti, si alzeranno anche loro, e si
produrrà così una "colonna" di gente in piedi. Gli spettatori alla destra
di questa colonna, vedendo che quelli alla loro sinistra si alzano tutti
assieme, si alzeranno anche loro, e così la colonna di gente in piedi si
propagherà verso destra, con una velocità che sarà inversamente
proporzionale al tempo di reazione medio degli spettatori.

Poiché questa dinamica globale è interamente basata su una dinamica
locale che è "cieca e stupida", e che si è già consolidata attraverso
il passaparola e l'abitudine, se arrivassi tu a voler fare il Grande
Condottiero per liberare il Popolo dello Stadio della schiavitù della Ola
Antioraria e per guidarlo verso il radioso sole dell'avvenire della Ola
Oraria (ogni riferimento a fatti e personaggi storici è del tutto casuale e
involontario) ti beccheresti delle belle legnate nei denti, oppure saresti
costretto a fare strage di tutti quegli spettatori che "non intendono
ragioni" e che non si rendono conto che tu vuoi solo il Bene Comune,
che sarebbe poi la Ola Oraria, visto che la Ola Antioraria è chiaramente
opera del Demonio :-)

==========

Venendo ora al caso del cervello, ti invito a fare questo esperimento:
appoggia una penna di fianco alla tastiera, e stabiliamo fin d'ora che
fra un po' la solleverai, per spostarla verso destra o verso sinistra.

Immagino che tu non abbia ancora deciso se la sposterai verso destra o
vestro sinistra. Comunque sia, anche se tu avessi già deciso di spostarla,
che so, verso destra, all'ultimo momento saresti sempre "libero" :-) di
cambiare idea e spostarla verso sinistra. Per sapere quale sarà la tua
decisione, quella vera e definitiva, non possiamo che aspettare che tu muova
fisicamente la penna. Solo nel momento in cui la tua mano la solleverà e la
sposterà verso destra o verso sinistra noi sapremo veramente che cosa hai
scelto di fare.

Ora, come fai a dire di essere "libero di scegliere"? Lo dici perché se in
questo momento una ipotetica Intelligenza Infinita ti dicesse che ha fatto
un certo "calcolo" in base al quale, date le condizioni attuali
dell'universo, tu dovrai necessariamente spostare la penna verso destra,
ecco se venisse questa Intelligenza a dirti una cosa del genere, tu "per
dispetto" potresti "liberamente" decidere di spostare la penna verso
sinistra. E prima di spostarla magari glielo diresti: «Guarda, cara
Intelligenza Infinita, che tu puoi fare tutti i calcoli che ti pare, ma se
dici che io sono costretto a spostare la penna verso destra io posso
decidere di spostarla verso sinistra come e quando mi pare.»

Ora la nostra Intelligenza potrebbe dirti:

«Sì certo, tu dici così, ti sembra di poterla spostare dalla parte che ti
pare, ma in realtà io ho già fatto i calcoli ed ho stabilito che la
sposterai necessariamente a destra.»

A questo punto tu perderesti la pazienza e faresti come fanno spesso
gli scienziati con i filosofi :-): solleveresti la tua manina e sposteresti
la penna verso sinistra, lasciando sua maestà l'Intellingenza Infinita di
fronte al fatto compiuto della tua scelta di spostare la penna verso
sinistra.

Dunque, hai dimostrato di essere "libero"?

Non proprio. Una cosa l'abbiamo dimostrata: che quella Intelligenza Infinita
lì è infinitamente stupida. Infatti nel fare il "calcolo" avrebbe anche
dovuto tenere conto della sua interazione con te, e in quel calcolo sarebbe
comparso un feed-back nel quale la tua determinazione a credere nel "libero
arbitrio" ti avrebbe portato a fare il contrario di qualunque cosa avesse
detto la presunta Intelligenza Infinita. Al limite il giochetto avrebbe
dovuto svolgersi "a buste chiuse", e con tutta una serie di accorgimenti
veramente "diabolici".

Ma lasciamo stare questo aspetto, e proviamo a concentrarci su un altro.

Tieni presente che quando la tua mano si è mossa, dal tuo cervello è partito
un segnale elettrico che ha fatto muovere dei muscoli. Io spero che tu sia
d'accordo che se non fosse partito quel segnale la tua mano non si sarebbe
mossa. Ebbene, quel segnale elettrico si è originato in un motoneurone
piramidale gigante della corteccia, e si è originato perché questi neuroni
giganti fanno un po' da "imbuto" per una serie di segnali elettrochimici che
affluiscono ad essi da decine di migliaia di neuroni circostanti più
piccoli. Dunque ci rendiamo conto che per sollevare quella penna nel tuo
cervello si è prodotta una sorta di "ola elettrochimica" la quale poi è
andata ad "incanalarsi" nel motoneurone piramidale gigante.

A sua volta quella "ola elettrochimica" è prodotta da una enorme quantità
di eventi "locali", tutti rigidamente deterministici e di natura elettro-
chimica (qui qualcuno ne approfitta per cercare di creare uno "spiraglio
mistico" usando la meccanica quantistica, ma per fortuna con te ci si
intende), tali che seguendo ognuno di quei singoli eventi si vede sempre e
soltano determinismo elettrochimico. Nel frattempo la nostra capacità di
seguire il fenomeno globale si è smarrita, perché già al terzo o quarto
passaggio a ritroso il fenomeno coinvolge collettivamente tutto il cervello,
e in quella complessità ci smarriamo. Eppure tu capisci che la tua
"decisione" di spostare la penna, decisione che poi si è tradotta in un
movimento della mano, deve necessariamente aver prodotto una "ola
elettrochimica".

Ebbene, come te la *immagini* tu una possibile interazione fra la tua
"decisione" (un atto puramente "mentale") e la formazione di una "ola
elettrochimica"?

Forse che la tua "decisione" è un oggetto fisico che può interagire con
degli oggetti fisici, per mezzo di interazioni chimiche o elettriche? Pare
improbabile, anche perché nessuno, sezionando il cervello, si è mai
imbattuto in questo fantomantico "oggetto-decisione".

E se la decisione non è un oggetto fisico, quale sarebbe il punto in cui si
"aprirebbe" la catena causale fisica per lasciar agire la "mente"? Nessuno
ha mai osservato una "discontinuità locale" nella causalità chimico-fisica
del cervello.

Non so la tua, ma la mia *immaginazione* vede una sola possibilità: la
"mente" non è altro che una "proprietà globale" del cervello, una di quelle
proprietà che "emergono".
--
Saluti.
D.
qf
2008-04-16 06:21:23 UTC
Permalink
"Davide Pioggia"
Post by Davide Pioggia
Loris
[...]
se è vero che la dinamica macroscopica (=termodinamica) non è altro che un
"riassunto" di una successione di eventi che sono tutti reversibili, come fa
la termodinamica ad essere irreversibile quando la dinamica microscopica è
reversibile? Come si fa a mettere assieme una enorme quantità di eventi
reversibili ottenendo un evento irreversibile? Perché l'urto fra due sfere è
reversibile, due urti sono ancora reversibili, tre pure, eccetera, e invece
un gas fatto di miliardi di miliardi di particelle si espande in un volume
in modo irreversibile? Da dove "salta fuori" 'sta irreversibilità? Come fa
ad "emergere" questa proprietà che possiede il "tutto" senza che la
possiedano le "parti"?
come mai una
particella non ha una temperatura, due particelle nemmeno, tre nemmeno,
eccetera, e invece un miliardo di miliardi di particelle ce l'hanno?
Sì che la "temperatura" ce l'ha ciascuna particella!
Ma si manifesta solo nelle interazioni, come ovvio. (*)
E' naturale che la singola particella non possa mostrarla: la mostra quando
ne incontra almeno un'altra (vedi PS) e quando perciò c'è uno scambio di
energia (per chiamarla così).
Neppure una palla da biliardo, senza sponde e senza altre biglie, manifesta
energia cinetica, ma basta che incontri un'altra biglia, in quiete o in
moto, ed ecco che la sua energia si manifesta, ossia "si vede" la
temperatura che era già in altra forma nella singola biglia.

Il fatto che infiniti eventi reversibili (in via di principio, e soprattutto
a quanto se ne sa ora -- o come si interpreta ora) confluiscano in eventi
irreversibili, alla luce di quanto ho appena detto mi sembra immediato e
rigorosamente spiegabile: se una particella cede con una certa sequenza un
tot X di energia a quelle circostanti (potenzialmente in numero illimitato),
producendo un intero quadro (in via di principio l'universo) di scambi
con-causati da essa, la probabilità che la sequenza si inverta fino a far
tornare la particella (e quindi tutto il suo contesto, cioè l'universo)
nella medesima condizione di partenza è sostanzialmente nulla.

I quark dei peli dei nostri politici si comporteranno pure in modo
irreversibile, ma che probabilità c'è che la configurazione politica
dell'altro ieri (inclusa l'età e il colore di capelli dei settantenni,
rigorosamente castano :-), ritorni a essere la medesima domani o quando mai?
La probabilità è letteralmente zero, sempre che 'zero' significhi qualcosa
:-))

(*) che di particelle (di gas per es.) ce ne vogliano miliardi è ovvio,
perché le misure di temperatura sono grossolanamente grossolane (di ordini
di grandezza) rispetto allo scambio di energia fra singole particelle. Ciò
anche per la semplice ragione che la misura di temperatura in qualche modo
scambia energia -- foss'anche solo qualche fotone infrarosso -- con il
fenomeno in esame (si parlava un tempo di indeterminazione, che è vero in
senso più lato di quanto si intendesse in origine, essendo vero persino per
la misura di una tensione o di una frequenza anche con i più sofisticati
degli strumenti, i quali, in sostanza, diventano parte integrante del
fenomeno, alterandolo). Solo quando lo scambio energetico del sistema
misurato è di qualche ordine di grandezza maggiore dello scambio che avviene
con lo strumento di misura, allora e solo allora si può considerare
affidabile uno strumento di misura. (Basta la capacità delle sonde degli
strumenti per alterare la frequenza di un oscillatore AF sotto misura, a
meno che non si sia interposto un buffer a impedenza d'ingresso virtualmente
infinita, che porta il livello di energia del segnale a qualche migliaio di
volte il livello di energia necessario per lo strumento.)
Dunque se isoli una particella in laboratorio (o credi di averlo fatto),
anche se questa si agita come una matta, il tuo termometro non vedrà nulla;
misurerai solo una quantità di moto (rinunciando nella circostanza alla
misura di posizione).
E poi tu mettine insieme due, di particelle, e già il fenomeno diventa
irreversibile per la ragione ovvia che ho spiegato più sopra (benché ancora
nessuno sia in grado di misurare una temperatura di un sistema di due
particelle).

Saluti
qf
PS: Borges, in una sua "preghiera" dice di non chiedere miracoli, perché
ciascun miracolo sconvolgerebbe il presente e il passato. Era ben
consapevole del fatto che ogni evento, anche puntiforme, ha influenza
(influsso: di qui il concetto di *flusso* della fisica) sull'intero
universo. Consegue immediatamente l'irreversibilità di ogni fenomeno che _in
apparenza_ implichi anche solo due particelle.
Marco V.
2008-04-16 08:07:28 UTC
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Post by qf
Sì che la "temperatura" ce l'ha ciascuna particella!
Ma si manifesta solo nelle interazioni, come ovvio. (*)
E' naturale che la singola particella non possa mostrarla: la mostra
quando ne incontra almeno un'altra (vedi PS) e quando perciò c'è uno
scambio di energia (per chiamarla così).
Ma allora la questione diviene fino a che punto il non manifestarsi
(qualcuno direbbe: il non apparire:-)) della temperatura di una singola
particella sia distinguibile dal non esistere della stessa. Se noi definiamo
operativamente il concetto di temperatura in modo tale da far coincidere il
manifestarsi della temperatura con la sua misurazione, questa distinzione
viene ad essere impossibile, venendo essa a consistere nella distinzione tra
manifestarsi e manifestarsi.

Guarda caso è un po' quello che capita a Severino quando, visto che per lui
anche l'apparire è un essente, è costretto a dire, per impedire
l'annullamento ontologico dell'apparire, che anche l'apparire incomincia e
cessa di apparire (e dunque esiste prima e dopo il suo essere apparso).

Un saluto,

Marco
Davide Pioggia
2008-04-16 13:02:29 UTC
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Post by qf
Sì che la "temperatura" ce l'ha ciascuna particella!
E come la definisci, tu, la temperatura di ciascuna particella?
--
Saluti.
D.
qf
2008-04-17 17:31:26 UTC
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"Davide Pioggia"
Post by Davide Pioggia
qf
Post by qf
Sì che la "temperatura" ce l'ha ciascuna particella!
E come la definisci, tu, la temperatura di ciascuna particella?
In via di principio è il suo contenuto di energia cinetica, rilevabile come
quantità di moto (o momentum per gli anglosassoni). Perciò ho messo le
virgolette.
Ma è chiaro che il moto stesso non si può definire altro che in
un'interazione, e non in modo assoluto (o isolato), che non ha senso.
La misura è sempre relativa (allo strumento) per definizione.

Ti faccio un'analogia di quelle che piacciono anche a un amico della stanza
di là, dove si fa casino: se uno si sveglia incazzato, si può forse rilevare
la sua incazzatura se non lo si incontra e non gli si dice 'buongiorno' (a
cui risponde con un 'vaffa, grunt!')?
Ecco, la temperatura della particella è la sua "incazzatura": se ne incontra
un'altra vengon fuori scintille, se non ne incontra nessuna non succede
niente, e non si può sapere se è incazzata o no.

La "temperatura" propriamente detta non è quindi misurabile se la particella
non interagisce con altre, infatti la "temperatura" (il calore) è
manifestazione di collisione -- cioè di interazione -- e non di mera
quantità di moto della singola particella. Anche le palle... da bigliardo se
non si urtano non fanno neppure rumore, neppure se lanciate a gran velocità
su un tavolo da bigliardo senza sponde (in[de]finito).

In questo secondo caso -- particella non isolata (almeno due che si
incocciano) -- un "termometro" propriamente detto si può virtualmente
pensare, perché se la collisione causa "calore" si ha emissone di
infrarosso: quindi basta un rilevatore di infrarosso, benché di così piccoli
da apprezzare un singolo fotone alla lunghezza d'onda dell'infrarosso non ce
ne siano ancora, a quanto mi risulta, anche se i fotomoltiplicatori esistono
già, tipo i visori notturni, che però non si accontentano di sicuro di un
solo fotone eventualmente emesso da due particelle che si incocciano.

Per inciso, di particelle veramente isolate non ne esistono, neanche a
Ginevra. Quindi non si può dire che "non hanno temperatura".
Post by Davide Pioggia
--
Saluti.
D.
Saluti
qf
Loris Dalla Rosa
2008-04-16 20:09:20 UTC
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Post by Davide Pioggia
Finora abbiamo due descrizioni, una "mentalistica" e una "cerebralistica"
(se mi passi la barbarie linguistica di questi termini), che permettono di
tornare al tuo esempio della ola allo stadio. Vedo che nel filmato l'
"onda" si propaga da destra a sinistra. A me piacerebbe invertirne il
senso, da destra a sinistra. Come posso fare? Potrei, trovandomi li' in
un'insolita veste di diavoletto di Maxwell, passare da un tifoso
all'altro, convincendo ognuno a interrompere e riprendere il movimento,
secondo tempi che la diabolica potenza della mia mente di matematico ha
precedentemente calcolato (da qui vedi quanto iper-irrealistico sia il mio
esempio:-)). Teoricamente, comunque, intervenendo su ogni singolo tifoso
otterrei di determinare univocamente l'inversione di senso della ola che
mi proponevo di ottenere. Oppure? Oppure ammettiamo che nello stadio sia
presente anche un gigantesco maxischermo, nel quale gli spettatori possano
vedersi in diretta. Potrei meditare un intervento (anche se un po' idiota,
alla Paolini), e presentarmi davanti alla telecamera con un grosso
cartello che dice: "Juventini della curva Sud, cessate la ola per un
minuto e riprendete a farla da sinistra a destra!". Otterrei lo stesso
risultato che volevo ottenere. Si puo' ancora parlare di "determinazione
univoca"?
Non ce la faresti in quel modo.
Qui ho bisogno di sottolineare un aspetto comune a tutti i miei esempi,
ovvero il fatto che tentano tutti di parlare della famosa e misteriosa
"emergenza".
Lasciami tornare per un attimo alla termodinamica. [...] se è vero che la
dinamica macroscopica (=termodinamica) non è altro che un
"riassunto" di una successione di eventi che sono tutti reversibili, come fa
la termodinamica ad essere irreversibile quando la dinamica microscopica è
reversibile? [...]
Come fa ad "emergere" questa proprietà che possiede il "tutto" senza che
la
possiedano le "parti"? [...]
Ebbene, nell'esempio della ola io stavo ancora parlando di proprietà
"emergenti", ed è su questo che dovremmo concentrarci per rispondere
alla tua domanda.
Prima però lasciami tornare alle onde del mare. Lì abbiamo una enorme
1) la presenza di particelle d'acqua contigue (perché fra le molecole
d'acqua si hanno delle interazioni responsabili della cosiddetta "coesione")
2) il valore del campo gravitazionale nel punto in cui si trova la
particella.
Come vedi la dinamica della singola particella d'acqua risente solo di
fattori "locali" [...] Di consenguenza noi siamo in grado di scrivere le
leggi della
dinamica di una particella d'acqua in termini puramente "locali".
Anche in questo caso la risposta può venire solo da una attenta riflessione
sulla relazione fra le "proprietà locali" e le "proprietà globali".
Come vedi ti ho quotato riassumendo e focalizzando il punto centrale cui
siamo arrivati: il rapporto tra "proprietà locali" e "proprietà globali".
Sono del tutto d'accordo sul tuo percorso logico e tengo ferma questa tua
Post by Davide Pioggia
Ci sono delle proprietà locali che quando si esprimono
a livello globale diventano del tutto "irriconoscibili", oppure sembrano
trasformarsi addiritura nel loro "contrario" (come la reversibilità
microscopica che diventa irreversibilità macroscopica).
Nel caso delle particelle d'acqua che producono strutture geometriche
macroscopiche, noi abbiamo un insieme di oggetti "ciechi" che producono
un sistema che sembra avere una "vista globale". Ma può anche accadere
il contrario.
Riprendo da qui, e puoi ben immaginare che mi interessa particolarmente quel
"puo' anche accadere il contrario". Come? Dal tuo esempio cerco di enucleare
quegli elementi che alludono a quelle funzioni di cui essi sarebbero
esempio.
Post by Davide Pioggia
[...] Come avviene allora il "miracolo"?
Avviene semplicemente lasciando che sia il "libero mercato" (prodotto dalla
interazione "locale" della domanda e della offerta) ad auto-organizzarsi.
Ecco che siamo al "miracolo" dell'auto-organizzazione (del resto noi, che
non crediamo ai miracoli, non dobbiamo temere di usare questo termine: basta
dire che avvengono ogni giorno:-)). Penso pero' che il "miracolo"
dell'auto-organizzazione non sia descrivibile esemplarmente nei termini di
un "libero mercato". I processi della mente si servono di elementi modulari
relativamente autonomi tra di loro, che costituiscono una classe di sistemi
di imput correlata col linguaggio. La mente contiene sia questi elementi
modulari, che in genere corrispondono a circuiti cerebrali specializzati e
localizzati, sia elementi del tutto non-modulari, che costituiscono una
specie di elaboratore centrale. Quest'ultimo poi, in questa che che si
presenta un'organizzazione estremamente complessa, sembra assume, tra le sue
funzioni, proprio quella del Commissario Speciale per il bene Comune della
citta' di New York; funzione pero' consultiva e non accompagnata da pieni
poteri esecutivi. E' in questa situazione che il cittadino di New York e'
chiamato alle sue scelte microeconomiche.
Post by Davide Pioggia
Dunque non c'è nessuno che si preoccupa del Bene Comune
della città di New York, e questa è una grandissima fortuna per i cittadini
di quella città, perché se arrivasse un Commissario Speciale che dovesse
garantire non dico il funzionamento della città a regimi normali ma anche il
semplice minimo del "pane per tutti", quei poveretti morirebbero di fame in
una settimana.
Non penso. Per ricollegarmi anch'io, in qualche modo, alla questione del
thread, direi che in ogni cittadino di NY e' latente un Commissario
Speciale, e di tale cittadino si puo' dire lo "stordimento" di cui diceva
Leibniz:
<<Ora poiche', svegliati dallo stordimento, ci si *accorge* delle proprie
percezioni, bisogna averne avute prima di svegliarsi, anche se non ce se ne
e' accorti, poiche' una percezione non potrebbe derivare naturalmente se non
da un'altra percezione, come un movimento non puo' derivare naturalmente se
non da un movimento>> ("Monadologia").
Per adeguare questa citazione al tuo esempio e alla nostra questione, direi
che il cittadino di NY e' nella situazione di dover scegliere se essere
sveglio o dormiente. Nella complessita' del tutto, di cui fa parte, si fa
questione proprio del rapporto tra la complessita' del tutto e la
semplicita' della parte.
Post by Davide Pioggia
Veniamo allora alla ola allo stadio. Il fatto che tu possa pensare di
modificare la ola convincendo tutti gli spettatori a coordinarsi fra di loro
guardando uno schermo gigante dimostra che non sei mai stato allo stadio,
o che quando ci sei stato lo hai visto con gli occhiali del professore di
filosofia prussiano e statalista :-)
:-)
In effetti allo stadio ci sono stato solo un paio di volte, e non c'erano
ole. Pero' ho come l'impressione che tu non abbia fatto il militare, con un
sergente che se saltavi il passo ti faceva saltare la
licenza:-). Comunque non avresti perso niente di interessante.
Post by Davide Pioggia
Come si fa, allora?
[...]
Poiché questa dinamica globale è interamente basata su una dinamica
locale che è "cieca e stupida", e che si è già consolidata attraverso
il passaparola e l'abitudine, se arrivassi tu a voler fare il Grande
Condottiero per liberare il Popolo dello Stadio della schiavitù della Ola
Antioraria e per guidarlo verso il radioso sole dell'avvenire della Ola
Oraria (ogni riferimento a fatti e personaggi storici è del tutto casuale e
involontario) ti beccheresti delle belle legnate nei denti, oppure saresti
costretto a fare strage di tutti quegli spettatori che "non intendono
ragioni" e che non si rendono conto che tu vuoi solo il Bene Comune,
che sarebbe poi la Ola Oraria, visto che la Ola Antioraria è chiaramente
opera del Demonio :-)
:-).
Fare stragi non e' nella mia natura, che forse e' quella di prendere legnate
nei denti:-).
Ma non importa, come non importa questa mia parentesi, che e' una breve
annotazione sul nostro stare piacevolmente qui, sospesi a mezza costa tra la
pianura delle scienze e le vette della filosofia. Non so se laggiu' l'aria
sia davvero mefitica e lassu' veramente pura; ma la cosa e' di poca
importanza, quando tra la Valle dei Templi e la Vetta d'Italia ristagna un
insopportabile odore di merda.
Post by Davide Pioggia
==========
appoggia una penna di fianco alla tastiera, e stabiliamo fin d'ora che
fra un po' la solleverai, per spostarla verso destra o verso sinistra.
Immagino che tu non abbia ancora deciso se la sposterai verso destra o
vestro sinistra. Comunque sia, anche se tu avessi già deciso di spostarla,
che so, verso destra, all'ultimo momento saresti sempre "libero" :-) di
cambiare idea e spostarla verso sinistra. Per sapere quale sarà la tua
decisione, quella vera e definitiva, non possiamo che aspettare che tu muova
fisicamente la penna. Solo nel momento in cui la tua mano la solleverà e la
sposterà verso destra o verso sinistra noi sapremo veramente che cosa hai
scelto di fare.
Ora, come fai a dire di essere "libero di scegliere"? Lo dici perché se in
questo momento una ipotetica Intelligenza Infinita ti dicesse che ha fatto
un certo "calcolo" in base al quale, date le condizioni attuali
dell'universo, tu dovrai necessariamente spostare la penna verso destra,
ecco se venisse questa Intelligenza a dirti una cosa del genere, tu "per
dispetto" potresti "liberamente" decidere di spostare la penna verso
sinistra. E prima di spostarla magari glielo diresti: «Guarda, cara
Intelligenza Infinita, che tu puoi fare tutti i calcoli che ti pare, ma se
dici che io sono costretto a spostare la penna verso destra io posso
decidere di spostarla verso sinistra come e quando mi pare.»
«Sì certo, tu dici così, ti sembra di poterla spostare dalla parte che ti
pare, ma in realtà io ho già fatto i calcoli ed ho stabilito che la
sposterai necessariamente a destra.»
A questo punto tu perderesti la pazienza e faresti come fanno spesso
gli scienziati con i filosofi :-): solleveresti la tua manina e sposteresti
la penna verso sinistra, lasciando sua maestà l'Intellingenza Infinita di
fronte al fatto compiuto della tua scelta di spostare la penna verso
sinistra.
Dunque, hai dimostrato di essere "libero"?
No di certo.
Post by Davide Pioggia
Non proprio. Una cosa l'abbiamo dimostrata: che quella Intelligenza Infinita
lì è infinitamente stupida. Infatti nel fare il "calcolo" avrebbe anche
dovuto tenere conto della sua interazione con te, e in quel calcolo sarebbe
comparso un feed-back nel quale la tua determinazione a credere nel "libero
arbitrio" ti avrebbe portato a fare il contrario di qualunque cosa avesse
detto la presunta Intelligenza Infinita. Al limite il giochetto avrebbe
dovuto svolgersi "a buste chiuse", e con tutta una serie di accorgimenti
veramente "diabolici".
Mi stai in sostanza prospettando il paradosso di Newcomb-Nozick, con la
leggera variante della Intelligenza Infinita al posto del preveggente.
[Eventualmente, per chi non lo ricordasse:
http://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso
alla voce "Il paradosso della chiaroveggenza"]

A me i paradossi stanno sempre bene e un paio di considerazioni vorrei
farle sulle 2 soluzioni possibili.
1) Scelgo solo la busta 2 (quella col milione di euro che il preveggente vi
ha messo perche' ho scelto solo quella). Seguo cosi' il principio della
massima utilita', che poi e' quello del cittadino "egoista" di NY, in balia
della giungla del libero mercato. Naturalmente ho piena fiducia
nell'esistenza della Intelligenza Infinita (e nell' "intelligenza" del
libero mercato). Ho scelto liberamente? Naturalmente no, perche' la scelta
e' maturata nella mia credenza all'ipotesi dell' Intelligenza Infinita
(chiamiamola pure "D", come "Dio" o "Diavolo", secondo i gusti di ciascuno),
la quale ha calcolato e premiato tale mia fiducia. Sono stato
etero-determinato da D, la quale, come implicito nella sua ipotesi, e'
libera di determinarmi. Pero' e' anche chiaro che siamo di fronte a un caso
di previsione
auto-avverantesi; infatti D mi premia o mi castiga in base alla *mia*
decisione che essa ha previsto, e senza la quale non potrebbe ne' premiarmi
ne' castigarmi. Dunque io sono condizionato da D tanto quanto D e'
condizionata da me. Ora, scartato il caso che ne' io ne' D siamo liberi
(perche' contro il fatto, implicito nell'ipotesi, che D sia libera di
premiarmi o castigarmi), il grado di liberta' di D e' lo stesso grado di
liberta' mio di condizionare D. Ne consegue che l'ipotesi dell'esistenza di
D e' contraddittoria.
2) Scelgo tutte e due le buste, decidendo cioe' di seguire il cossiddetto
"principio di dominanza". Una scelta, questa, piu' scettica circa la
credenza in D. Il ragionamento che motiva questa scelta e' il seguente.
*Qualunque* sia la mia scelta (x) che faccio *ora*, D mi punisce o premia
*ora*, perche' premio o punizione sono legati alla scelta che faccio *ora*.
Percio' *qualunque* sia x mi conviene scegliere ambedue le buste. Il mio
ragionamento, cioe', che e' sulla base della mia scelta x che faccio *ora*,
mi porta alla scelta di ambedue le buste, come alla scelta che ho fatto
*dopo* qualunque sia la mia scelta x. E' ben vero che D, essendo
preveggente, puo' sapere la mia scelta effettiva e che l'ho fatta seguendo
il principio di dominanza; ma e' anche vero che ho seguito tale principio
proprio ignorando quale sara' la mia scelta effettiva e sul mio calcolo
della sola *possibilita'* che quella sia la mia scelta effettiva. Ne
consegue che, qualunque sia la scelta x effettiva che faccio *ora* (e che
neppure io conosco), non e' mai la scelta effettiva, che faccio sempre
*dopo*. Se esiste questa Intelligenza Infinita, che prevede tutto, non puo'
far altro che far sua questa mia contraddizione, risultando essa stessa
contraddittoria.
Concludendo: che io faccia la scelta 1. o la scelta 2., questo gioco e'
impossibile sia per me che per D, perche' contraddittorio. E che il gioco
sia impossibile non significa altro che negare la preveggenza, in accordo
con una visione non deterministica (o quanto meno non calcolabile) del
mondo.
Post by Davide Pioggia
Ma lasciamo stare questo aspetto, e proviamo a concentrarci su un altro.
Tieni presente che quando la tua mano si è mossa, dal tuo cervello è partito
un segnale elettrico che ha fatto muovere dei muscoli. Io spero che tu sia
d'accordo che se non fosse partito quel segnale la tua mano non si sarebbe
mossa.
Ok.
Post by Davide Pioggia
Ebbene, quel segnale elettrico si è originato in un motoneurone
piramidale gigante della corteccia, e si è originato perché questi neuroni
giganti fanno un po' da "imbuto" per una serie di segnali elettrochimici che
affluiscono ad essi da decine di migliaia di neuroni circostanti più
piccoli. Dunque ci rendiamo conto che per sollevare quella penna nel tuo
cervello si è prodotta una sorta di "ola elettrochimica" la quale poi è
andata ad "incanalarsi" nel motoneurone piramidale gigante.
A sua volta quella "ola elettrochimica" è prodotta da una enorme quantità
di eventi "locali", tutti rigidamente deterministici e di natura elettro-
chimica (qui qualcuno ne approfitta per cercare di creare uno "spiraglio
mistico" usando la meccanica quantistica, ma per fortuna con te ci si
intende), tali che seguendo ognuno di quei singoli eventi si vede sempre e
soltano determinismo elettrochimico. Nel frattempo la nostra capacità di
seguire il fenomeno globale si è smarrita, perché già al terzo o quarto
passaggio a ritroso il fenomeno coinvolge collettivamente tutto il cervello,
e in quella complessità ci smarriamo. Eppure tu capisci che la tua
"decisione" di spostare la penna, decisione che poi si è tradotta in un
movimento della mano, deve necessariamente aver prodotto una "ola
elettrochimica".
Ebbene, come te la *immagini* tu una possibile interazione fra la tua
"decisione" (un atto puramente "mentale") e la formazione di una "ola
elettrochimica"?
Forse che la tua "decisione" è un oggetto fisico che può interagire con
degli oggetti fisici, per mezzo di interazioni chimiche o elettriche? Pare
improbabile, anche perché nessuno, sezionando il cervello, si è mai
imbattuto in questo fantomantico "oggetto-decisione".
E se la decisione non è un oggetto fisico, quale sarebbe il punto in cui si
"aprirebbe" la catena causale fisica per lasciar agire la "mente"? Nessuno
ha mai osservato una "discontinuità locale" nella causalità chimico-fisica
del cervello.
Non so la tua, ma la mia *immaginazione* vede una sola possibilità: la
"mente" non è altro che una "proprietà globale" del cervello, una di
quelle proprietà che "emergono".
La mia immaginazione non puo' andare piu' in la' della tua, e' ormai
appurato:-)
Ma, una volta che siamo d'accordo, abbiamo detto qualcosa parlando di
proprieta' "globale" o "emergente"?
Non abbiamo semplicemente trovato un paio di sinonimi per cio' che non
conosciamo e non sappiamo prevedere?
Cari saluti,
Loris
Davide Pioggia
2008-04-19 15:11:48 UTC
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Post by Loris Dalla Rosa
A me i paradossi stanno sempre bene e un paio di considerazioni vorrei
farle sulle 2 soluzioni possibili.
[...]
Concludendo: che io faccia la scelta 1. o la scelta 2., questo gioco e'
impossibile sia per me che per D, perche' contraddittorio. E che il gioco
sia impossibile non significa altro che negare la preveggenza, in accordo
con una visione non deterministica (o quanto meno non calcolabile) del
mondo.
Bene, hai formulato uno dei mille paradossi che si possono produrre
sul "libero arbitrio". Sia i sostenitori del "libero arbitrio" sia quelli
del "determinismo" si trovano sempre di fronte a qualche contraddizione,
sicché sembra proprio che si possano produrre delle antinomie a volontà.

Ora, tempo fa sul ng non moderato c'era qualcuno che non riusciva a
capacitarsi del fatto che pi greco fosse un numero "irrazionale". Per altro
l'etimologia della terminologia usata sembra dare ragione proprio a
chi non riesce a capacitarsi; infatti se è vero che quei numeri lì sono
"irrazionali", come è possibile che esista qualcosa di "irrazionale"?

Sappiamo come sono andate le cose: ci fu un tempo in cui sembrava "assurdo"
che una grandezza non fosse esprimibile come rapporto (ratio) di due numeri
interi, così come oggi - avendo introdotto la notazione decimale - a
qualcuno sembra "assurdo" che possano esistere dei numeri con "infinite
cifre decimali dopo la virgola" (non sappiamo nemmeno cosa intendere
per "infinito", per cui 'sta cosa ci appare proprio "assurda").

Ebbene, supponiamo di trovarci in un'epoca in cui la nostra "immaginazione
matematica" non è abbastanza sviluppata da consentirci di concepire delle
grandezze che non siano esprimibili come rapporto di due numeri interi.
In queste condizioni se qualcuno ci parlasse della "radice di 2" noi
subito inizieremmo un "ragionamento" del genere: «Ebbene, qualunque sia
il valore della radice di 2, devono esistere due numeri interi p e q, primi
fra loro, tali che rad(2) = p/q».

A questo punto arriverebbe il Loris-Euclide della situazione a far vedere
che quei due numeri hanno necessariamente delle proprietà contraddittorie;
ad esempio pur essendo primi fra loro devono essere entrambi pari, o altre
cose socì (ci sono vari modi di far saltar fuori la contraddizione). Dunque
eccoci posti di fronte al "paradosso", dal quale sembra proprio che non ci
sia alcuna via d'uscita.

Per venirne fuori bisogna che qualcuno abbia il coraggio di "immaginare
l'inimmaginabile". A ben vedere più che una questione di logica è una
questione di "coraggio" e - come sempre - di "immaginazione". Di fronte a
quel "paradosso", infatti, bisogna semplicemente ammettere che ci sono delle
grandezze che - pur essendo definibili in modo univoco come numeri - non
possono essere ottenute come rapporto di due numeri interi, tant'è che hanno
"infinite cifre decimali dopo la virgola".

Dicevo che è anche una questione di coraggio, quasi di fermezza d'animo.
Bisogna infatti seguire l'ammonimento biblico di allontarsi senza voltarsi
a guardare indietro, ché altrimenti si viene trasformati in statue di sale.
Se uno infatti si ferma a pensare "come sia possibile" la mente si
smarrisce, tant'è che di fronte a chi sostiene che non riesce a capacitarsi
di quella cosa non si sa proprio cosa dirgli, se non - appunto - di
incamminarsi senza voltarsi indietro.

Come illustra bene Odifreddi in quel gustoso testo divulgativo intitolato
_C'era una volta un paradosso_, questo è il destino di ogni "paradosso":
diventare una definizione o un teorema (d'altra parte - come sai - i teoremi
e le definizioni sono intercambiabili, a seconda di come si decide di
costruire un sistema assiomatico).

Così quando qualcuno fece vedere che una quantità infinita è tale che ogni
sua parte ha la stessa cardinalità del tutto, qualcuno rimase sgomento.
Se è vero che l'insieme di tutti i numeri interi può essere messo in
corrispondenza biunivoca sia con l'insieme dei numeri pari sia con l'insieme
dei numeri dispari, allora l'insieme di tutti i numeri interi dovrebbe
essere costituito da un numero di elementi pari al doppio di... sé stesso!
Ma come è possibile che un numero sia pari a due volte sé stesso? Assurdo,
paradossale, inconcepibile. E invece no: basta ammettere che quella è una
proprietà dell'"infinito". Anzi, la proprietà per eccellenza, visto che la
cardinalità infinita può essere definita proprio in quel modo.

Ebbene, quando tu e gli altri filosofi mi tirate fuori mille paradossi sul
"libero arbitrio" io rispondo che ne sarebbe bastato uno solo, dopodiché
ci si sarebbe dovuti limitare ad andare avanti senza girarsi indietro, ché
se ci giriamo indietro siamo spacciati. Se ci giriamo indietro non possiamo
nemmeno capacitarci che possano esistere dei "numeri irrazionali".

Questo è uno di quei casi in cui dobbiamo trovare il coraggio di rinunciare
alla premessa. Quando iniziamo il nostro ragionamento dicendo che
«la scelta o è libera o è determinata», già abbiamo fatto un passo falso.
Dobbiamo rinunciare già a fare quel passo, ed ammettere che la mente non
è semplicemente in grado di rappresentare il nucleo delle proprie decisioni.
Nella rappresentazione che la mente ha dei propri processi decisionali c'è
un "punto singolare" in cui i concetti che la mente usa per rappresentarsi
sono indefiniti. Il momento cruciale in cui tu "decidi" se spostare la penna
a destra o a sinistra, quel processo mentale che poi si traduce in una
azione concreta, nella mano che si muove, non può essere reso oggetto
di auto-osservazione, come pensiero che precede e anticipa l'atto, poiché
in quel momento atto e pensiero sono la stessa cosa.

Ebbene, il fatto che in un "campo" ci siano delle "singolarità" è un
fenomeno ben noto alla fisica, e persino consueto. Ad esempio nei "campi
conservativi" tutte le linee di campo escono da delle "sorgenti puntiformi"
che sono proprio delle "singolarità". Se non ci fossero quelle singolarità
non esisterebbe nemmeno il campo. Anche le rappresentazioni presentano
delle singolarità; ad esempio se tu mappi la superficie terrestre usando i
meridiani e i paralleli, ad ogni punto della superficie corrisponde una
coppia di numeri, tranne che ai poli, dove la longitudine è *indefinita*.

Nel caso della singolarità della rappresentazione mentale, che noi riferiamo
linguisticamente come «Io voglio», ci sono alcune caratteristiche che mi
appaiono salienti:
1) si tratta di un "punto fisso" in cui l'azione coincide con il pensiero,
ovvero la mappa coincide con il territorio;
2) quel punto fisso è il punto su cui convergono una serie di "cornici
concentriche", che sono date dalla possibilità di osservarsi, di
osservarsi nell'atto di osservarsi, e così via, una regressione infinita
che alcuni filosofi ipostatizzano con la matrioska infinita degli
"homuncoli".

Ebbene, come abbiamo detto e illustrato in lungo e in largo, entrambe queste
caratteristiche risultano analoghe a quelle che si ottengono puntando una
telecamera sul proprio monitor, sicché è sufficiente che nel cervello esista
un solo "rientro critico" per avere una rappresentazione della propria
attività che presenta un "punto fisso" avente le stesse caratteristiche che
ci occorrono per "spiegare" il "punto fisso equivalente" della
rappresentazione mentale:
http://snipurl.com/24zrh [groups_google_it]

Dunque non solo abbiamo mostrato (tirando fuori mille paradossi) che ci
deve essere un "punto singolare" nella rappresentazione che la mente ha dei
propri processi decisionali, ma abbiamo anche capito (basta usare una
telecamera e un monitor!) che con un solo "rientro" si può ottenere una
"macchina" la cui rappresentazione dei propri processi presenta un analogo
"punto singolare".

Tutto torna, tutto si spiega. E tutto conferma che dobbiamo rinunciare
a utilizzare per la rappresentazione mentale i concetti di "libertà" e
"determinismo", perché in quel nucleo decisionale essi sono entrambi
indefiniti. Così come dobbiamo rinunciare a scrivere la radice di 2
come rapporto di interi, ché sennò ci troviamo di fronte ad assurdità,
contraddizioni, paradossi. Quel nucleo decisionale lo possiamo chiamare
"volontà", e riferire l'atto decisionale come un «Io voglio», ma poi non
è possibile alcuna ulteriore "analisi" di quel punto, poiché le solite
categorie, che sono definite altrove, lì sono indefinite.
--
Saluti.
D.
Davide Pioggia
2008-04-19 16:28:29 UTC
Permalink
E che il gioco sia impossibile non significa altro che negare la
preveggenza, in accordo con una visione non deterministica (o quanto meno
non calcolabile) del mondo.
Poche ore fa è morto Edward Lorenz:
http://en.wikipedia.org/wiki/Edward_Lorenz
che fu il primo, verso la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60, ad
utilizzare il computer per mostrare - con delle simulazioni - che potevano
esistere dei sistemi perfettamente *deterministici* e allo stesso tempo
*imprevedibili*.

In realtà già all'inizio del XX secolo Poincaré aveva dimostrato l'esistenza
di tali sistemi, ed anzi aveva dimostrato che la maggior parte dei sistemi
deterministici risultava imprevedibile. Tuttavia quello di Poincaré era
rimasto un oscuro e complicato teorema di meccanica classica, sconosciuto
alla maggior parte dei fisici, che passarono tutta la prima metà del XX
secolo ad occuparsi della nascente meccanica quantistica, considerando la
meccanica classica qualcosa di superato, valido in modo solo approssimativo.
Solo negli ultimi decenni ci si è resi conto che per tentare di rispondere
alle "grandi questioni di principio" bisogna rispolverare e approfondire il
concetto di sistema dinamico deterministico. Dunque Lorenz non ha fatto
altro che "mostrare sullo schermo" l'esistenza di "mostri dinamici" che
Poincaré aveva faticosamente *immaginato* e abbozzato più di mezzo secolo
prima. In questo modo i concetti di "caos deterministico", "sensibilità alle
condizioni iniziali" eccetera sono addirittura entrati nel linguaggio
quotidiano.

Prima che si formasse questa consapevolezza, non si riusciva ad *immaginare*
un sistema che fosse allo stesso tempo deterministico e imprevedibile, per
cui l'orizzonte semantico nel quale ci si muoveva imponeva di trattare in
modo equivalente il concetto di "deterministico" e quello di "prevedibile".
Oggi chiunque può scrivere due righe di codice per simulare un sistema
*deterministico E imprevedibile*, per cui si sta bene attenti a non operare
quella sovrapposizione semantica.

Qualche filosofo storce il naso, dicendo che se un sistema è
"deterministico" allora bisogna che tutto il suo futuro sia univocamente
determinato dal suo stato presente, e se il futuro è determinato allora in
linea di principio esiste anche un modo per prevederlo. Già, si può anche
dire così, solo che salta fuori che in quel caso la quantità di informazione
con cui bisogna descrivere lo stato iniziale è infinita. Se proprio si vuol
parlare in linea di principio, allora in linea di principio per descrivere
lo stato iniziale bisognerebbe descrivere in ogni particolare ogni
particella dell'universo, usando per ogni singola particella dei numeri
reali, cioè dei numeri con "infinite cifre decimali".

Ci troviamo dunque di fronte ad un limite talmente radicale da non essere
più una semplice "impossibilità pratica", poiché la necessità di descrivere
lo stato iniziale con una quantità infinita di "dettagli" (tutti quelli
possibili) mette in crisi lo stesso concetto di "stato" e intacca la
faccenda anche a livello di "principio".

Di tutto ciò avevo parlato alcuni anni fa in questo post:
http://snipurl.com/24zzc [groups_google_it]

Ebbene, se c'è un sistema che sarebbe comunque imprevedibile anche quando
fosse deterministico, quello è certamente il cervello.
--
Saluti.
D.
Loris Dalla Rosa
2008-04-19 22:42:22 UTC
Permalink
Post by Davide Pioggia
E che il gioco sia impossibile non significa altro che negare la
preveggenza, in accordo con una visione non deterministica (o quanto meno
non calcolabile) del mondo.
http://en.wikipedia.org/wiki/Edward_Lorenz
che fu il primo, verso la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60, ad
utilizzare il computer per mostrare - con delle simulazioni - che potevano
esistere dei sistemi perfettamente *deterministici* e allo stesso tempo
*imprevedibili*.
[...]
Ebbene, se c'è un sistema che sarebbe comunque imprevedibile anche quando
fosse deterministico, quello è certamente il cervello.
Tutto quanto hai scritto e' per me davvero interessante, non solo perche'
lo e' tutto cio' che puo' contribuire a colmare le mie immense lacune
scientifiche, ma anche perche' mi permette di vedere il problema sotto una
prospettiva che ancora mancava: il rapporto tra la liberta' e l'ignoranza di
quelle cause determinanti che la negherebbero, riducendola a semplice
illusione confinabile in ambito psicologico. Se Edward Lorenz fosse qui, per
una di quelle ipotesi fantasiose (che perfino io riesco a immaginare) in
grado di superare una duplice impossibilita'... forse se Lorenz fosse
qui, chiamato da noi a rischiararci la mente, percepirebbe subito il
contesto in cui e' capitato, se poi vedesse me esclamerebbe un "studiate
bene la fisica e la matematica, poi ne riparliamo, ignoranti!", e se ne
andrebbe
seccato sbattendo la porta. Ci andrebbe un po' meglio se fosse uno
"politicamente corretto", rispettoso del nostro manifesto, perche' allora ci
risparmierebbe l' "ignoranti", per un piu' dotto "insipientes"; purche' non
sia tanto dotto da aver letto S.Anselmo, perche' allora ci andrebbe ancora
peggio, rischiando che ci sputi in un occhio:-) (***).
Eppure, dopo qualche attimo di smarrimento, proprio adesso qualche presunto
filosofo, che deve perfino stare attento a non confondere questo mr. Lorenz
con Konrad, solleverebbe qualche timida obiezione. Maccome, si chiederebbe,
e' dimostrabile che le mie azioni sono determinate, eppure e' dimostrabile
che
non sono prevedibili. Forse ha ragione questo Lorenz (devo assolutamente
ricordarmi di non confonderlo con Konrad Lorenz...); si', forse ha ragione
lui, e il busillis
sta nella differenza tra cio' che e' dimostrabile e cio' che e' conoscibile.
Si', deve essere cosi', di conseguenza la mia liberta' e' un'illusione, un
riflesso psicologico di chissa' quale moto di un'anima che non c'e', che mi
illude di essere giusto, quando non lo sono, di essere buono, quando non
c'e' alcuna ragione per dire che lo sia. Ho sbagliato, come un ragazzino che
non ha ben capito il teorema di Pitagora e combina un disastro a scuola.
L'errore dipende dalla mia ignoranza delle vere cause che determinano le
azioni umani e il divenire di tutte le cose. Eppure... eppure qui c'e'
qualcosa
che non mi e' ancora chiaro. Se tutto e' determinato, come e' possibile
l'errore? Avra' pure anch'esso una sua causa, che non puo' essere un errore.
E come e' possibile che sbagliando a calcolare la lunghezza dell'ipotenusa
abbia combinato tutto quel disastro a scuola? No, il mio errore non puo'
essere un errore, ma l'effetto logico di una causa, celata dalla mia
ignoranza. Non esiste alcun errore, se non come riflesso psicologico,
confinato li', nella psicologia, come effetto terminale, impossibilitato a
determinare altri
effetti, altrimenti essi ricadrebbero nella catena causale e saremmo punto e
a capo. Li' l'errore fa buona compagnia alla liberta': sono riflessi
psicologici terminali senza alcuna ricaduta nel reale. Pero', pur con questa
conclusione, la domanda mi affligge ancora: come e' possibile che la mia
ignoranza non abbia una ricaduta nel reale? Sono stato qui per giorni, a
pensare e a scrivere un sacco di cazzate; se avessi compreso prima la
verita' non le avrei scritte, sarei andato a letto prima, avrei risparmiato
un minimo di energia elettrica, non avrei contribuito ad aumentare la
soddisfazione economica di quei rapinatori della Telecom... neppure tutto
questo avrei scritto, inducendoti a leggermi, a preparare una risposta che
ti costera' un dispendio di energia mentale e un tempo sottratto ad altre
occupazioni. Tutto questo non e' effetto reale della mia ignoranza?
Accidenti, l'ignoranza mi preclude la soluzione dell'enigma, ma essa stessa
mi e' divenuta enigma!
Mr Lorenz, please... "Here I Am - Where Are You?".
Cari saluti,
Loris

(***) "Aut si quis talis [insipiens] invenitur, non modo sermo eius est
respuendus, sed et ipse conspuendus".
[.se si trova un tale ignorante, non solo occorre respingere il suo
discorso, ma anche coprire di sputi lui stesso]
(Anselmo d'Aosta, "Responsio Anselmi ad obiecta Gaunilonis")
L
2008-04-20 06:58:50 UTC
Permalink
Post by Loris Dalla Rosa
Forse ha ragione questo Lorenz (devo assolutamente
ricordarmi di non confonderlo con Konrad Lorenz...); si', forse ha ragione
lui, e il busillis
sta nella differenza tra cio' che e' dimostrabile e cio' che e' conoscibile.
Si', deve essere cosi', di conseguenza la mia liberta' e' un'illusione, un
riflesso psicologico di chissa' quale moto di un'anima che non c'e', che mi
illude di essere giusto, quando non lo sono, di essere buono, quando non
c'e' alcuna ragione per dire che lo sia. Ho sbagliato, come un ragazzino che
non ha ben capito il teorema di Pitagora e combina un disastro a scuola.
L'errore dipende dalla mia ignoranza delle vere cause che determinano le
azioni umani e il divenire di tutte le cose. Eppure... eppure qui c'e'
qualcosa
che non mi e' ancora chiaro. Se tutto e' determinato, come e' possibile
l'errore? Avra' pure anch'esso una sua causa, che non puo' essere un errore.
E come e' possibile che sbagliando a calcolare la lunghezza dell'ipotenusa
abbia combinato tutto quel disastro a scuola? No, il mio errore non puo'
essere un errore, ma l'effetto logico di una causa, celata dalla mia
ignoranza. Non esiste alcun errore, se non come riflesso psicologico,
confinato li', nella psicologia, come effetto terminale, impossibilitato a
determinare altri
effetti, altrimenti essi ricadrebbero nella catena causale e saremmo punto e
a capo. Li' l'errore fa buona compagnia alla liberta': sono riflessi
psicologici terminali senza alcuna ricaduta nel reale. Pero', pur con questa
conclusione, la domanda mi affligge ancora: come e' possibile che la mia
ignoranza non abbia una ricaduta nel reale? Sono stato qui per giorni, a
pensare e a scrivere un sacco di cazzate; se avessi compreso prima la
verita' non le avrei scritte, sarei andato a letto prima, avrei risparmiato
un minimo di energia elettrica, non avrei contribuito ad aumentare la
soddisfazione economica di quei rapinatori della Telecom... neppure tutto
questo avrei scritto, inducendoti a leggermi, a preparare una risposta che
ti costera' un dispendio di energia mentale e un tempo sottratto ad altre
occupazioni. Tutto questo non e' effetto reale della mia ignoranza?
Accidenti, l'ignoranza mi preclude la soluzione dell'enigma, ma essa stessa
mi e' divenuta enigma!
Mr Lorenz, please... "Here I Am - Where Are You?".
Cari saluti,
Loris
Ciao Loris.

Sembrerà strano, ma l'errore è «rispetto a che»

Se non si imposta un delta, una differenza, uno scostamento da un
sistema di riferimento,
allora, allora non esiste errore.

Inoltre, assolutisti senza quantità di informazione completa, assoluta,
permettendo ..

bisognerebbe dire che un conto è parlar di morte e un conto è morire.

Ossia la stessa ragione che fa dell'uomo con la responsabilità del
destino del pianeta, ovvero la sua capacità di modello, non dovrebbe
essere portata -tale capacità di modello- a essere la pietra che ci
porta a fondo: quindi mai essere confusa, mai considerata essere 1:1 con
ciò a cui il modello si riferisce, pena fare dei discorsi da "delirio di
onnipotenza cognitiva".

Nel nostro -se scientifico- orizzonte cognitivo i dati sono relativi a
una base di dati, altrimenti sono opinioni, fiabe, esercizio retorico.

Non che -ad esempio- non vi possano essere orizzonti cognitivi anche
superiori a quello scientifico, come del resto riconosceva anche
Pioggia, quando diceva che chi ha una impostazione teleologica ha già
vinto e quindi -forse- è inutile persino parlargli.

Ma il linguaggio è per cominciare, quando le parole servano ancora -e
non siamo ancora arrivati a capirci con uno sguardo- in primis tentativo
di oggettivizzazione.

Il trucco ..

: - )

sta nel capire che "giochiamo a far delle cose oggetti" ma oggetti,
ossia enti assodati e assodabili -> non sono con quantità di
informazione infinita.

Quindi per la stabilità mentale di analisi _anche solo scientifica_
bisogna portare avanti due impostazioni _contemporaneamente:

1) provare a semplificare (quindi a trascurare quantità di informazione,
in specie se ci basta una precisione considerata tollerabile per le
trascuratezze introdotte, specificando di cosa ci accontentiamo, almeno
momentaneamente)

2) non confondere la semplificazione del modello con la realtà

Lì sta l'equilibrio, che man mano si sposta, quando -continuando a
cercare- aggiungiamo o togliamo, cambiamo di approccio, creiamo una
modalità di configurare un id.

Lì sta la dignità che mostra che non eramo obbligati a un certo
percorso, poiché se ogni cosa si somma a dare un totale -> il nostro
quid -non essendo zero- ha pur mutato uno scenario e non aveva meno
ragione di esternarsi -il nostro quid- rispetto a tutti gli altri quid,
indipendenti da noi, magari -il nostro- come il battito di ali di una
farfalla, ma con conseguenze che potrebbero essere di molto dissimili.

Nel tentativo di concatenare con la causalità ogni ente, infatti,
dimentichiamo che anche *noi siamo tra gli enti* e quindi il
determinismo (a noi esterno) ci determinerebbe -> se noi valessimo zero.

Ma *non valiamo zero*, e senza se e senza ma, i deterministi
(integralisti, che danno verità assolute su basi di dati limitate) hanno
torto, così come i detentori delle verità assolute.

Dal balcone degli uomini si ossevano solo modelli relativi e in
metamorphé.

Ecco lo spazio della filosofia:

Non pretendere che la verità sia scritta da qualche parte ed una volta
per tutte, ma da cercare.

Saluti,

L
Davide Pioggia
2008-04-19 17:53:22 UTC
Permalink
Post by Loris Dalla Rosa
Ma, una volta che siamo d'accordo, abbiamo detto qualcosa parlando di
proprieta' "globale" o "emergente"?
Non abbiamo semplicemente trovato un paio di sinonimi per cio' che non
conosciamo e non sappiamo prevedere?
Già diversi mesi fa dichiaravo apertamente la "sconfitta" della scienza, la
quale (ancora) non sa "produrre una mente", il che dimostra in modo
inequivocabile che c'è ancora qualcosa di cruciale che può essere capito e
non è (ancora) stato capito. Dicevo:

«Ma qual è quella particolare caratteristica del cervello che è in grado
di far scoccare quella scintilla? Ti ho già risposto giorni fa: non lo so.
Ci sono un sacco di studiosi di AI che scrivono dei libroni grossi così dove
dicono che pensano di averlo capito, ma sono libroni di filosofia, e i
libroni di filosofia sono belli e stimolanti, ma le cose o le sai fare o non
le sai fare, e se non le sai fare vuol dire che non le hai capite. Certo, il
Big Bang pensiamo di averlo capito ma non lo sappiamo fare. Però lo abbiamo
capito tanto bene che sappiamo anche perché non lo sappiamo fare.
Invece perché non dovremmo saper fare una mente? Non lo sappiamo, per cui
non c'è niente da fare: la mente ancora non l'abbiamo capita.»
http://snipurl.com/25038 [groups_google_it]

Come vedi per me il discrimine cruciale resta sempre il know how. Sono stato
educato a pensare in questo modo, e comunque fin da piccolo sono sempre
stato incline ad un pragmatismo radicale, che pur di "andare a meta" non
esita a sovvertire anche le regole del "pensare rettamente":
http://snipurl.com/2503x [groups_google_it]
http://snipurl.com/25044 [groups_google_it]

Tanto per intenderci: se ho l'impressione di avere avuto una intuizione
feconda e arrivi tu a "dimostrarmi razionalmente" che "è impossibile che
funzioni" aspettati di sentirti dire di tutto :-) Poi magari mi calmo, ci
rifletto, ci batto il muso e mi rendo conto di essere di fronte ad un muro,
ma lì per lì non concedo nulla alla "ragionevolezza". Questo modo di operare
mi ha consentito diverse volte, nella vita, di "ottenere l'impossibile", e
tutte le svolte cruciali della scienza sono avvenute in questo modo, ché se
ci limitiamo a muoverci secondo quanto ci appare *ora* "ragionevole" ci
precludiamo qualunque possibilità di ampliare le nostre conoscenze e in
particolare il nostro know how, poiché la nostra *immaginazione* è
irrimediabilmente limitata da ciò che sappiamo e sappiamo fare. Solo la
logica formale, libera com'è dalle ristrettezze che una immaginazione
ristretta impone al nostro orizzonte semantico, può portarci oltre i limiti
attuali.

Fatta questa premessa, ti chiedo: se la scienza sapesse "produrre una
mente", tu diresti ancora che abbiamo solo trovato delle etichette per
definire ciò che non sappiamo e che non capiamo? In altri termini, se la
scienza riuscisse ad "andare a meta", tu:
1) Saresti pronto a riconoscere un valore anche "filosofico" al compimento
di quella impresa, e delle pesanti ripercussioni e conseguenze anche per il
discorso che noi stiamo facendo adesso?
2) Oppure diresti che di menti già ce ne sono sei miliardi e passa di
naturali, ed il fatto di averne potuto produrre una artificiale non cambia
un virgola della discussione filosofica sulla natura della mente, visto che
sapere "come si fa" non risponde in alcun modo al "che cosa è"?

A me sembra che in entrambi i casi il fatto di star cercando di mettere a
punto dei concetti per parlare dei sistemi complessi possa risultare
"utile".

Infatti se tu - come immagino - sei propenso a rispondere "no" alla domanda
1 e "sì" alla domanda 2, devi pur riconoscere che la filosofia vive di
concetti, e la produzione di nuovi concetti (o di sfumature semantiche
laddove l'immaginaziona non permetteva di vederne) è una "attività
filosofica".

La critica più radicale potrebbe venirmi da chi invece è propenso a
rispondere "sì" alla prima domanda e "no" alla seconda, poiché costui
potrebbe veramente dirmi che fino a quando non sappiamo "come si fa" non
possiamo fare altro che tacere, ché tanto sono tutte chiacchiere. A costui
però risponderei con una caterva di esempi, tratti dallo sviluppo storico
della scienza, nei quali si vede bene che spesso prima di riuscire ad avere
l'"intuizione giusta" passa un lungo periodo in cui occorre mettere a punto
il linguaggio e i concetti. Se noi, ad esempio, continuassimo a descrivere
la mente come se fosse una sorta di "sostanza spirituale" che interagisce
con la "sostanza materiale", usando il cervello come interfaccia, ci
concentreremmo su caratteristiche del cervello che dal mio punto di vista
appaiono del tutto irrilevanti. Così per Cartesio il punto nodale di quella
interfaccia era l'ipofisi, mentre dal mio punto di vista l'ipofisi non
svolge alcun ruolo privilegiato.

Bisogna inoltre tenere presente che sì, è vero che il mio discorso al
momento pone delle analogie fra la mente e certi sistemi fisici che sembrano
quasi delle metafore o persino delle allegorie dantesche. Tuttavia è così
che si comincia. All'inizio si trovano delle analogie, per cui qualcosa ci
ricorda vagamente, quasi per associazione di idee, qualcos'altro. A partire
da qui si cominciano a compiere una serie di astrazioni successive, finché
alla fine due sistemi che ci apparivano intuivamente associabili risultano
essere due casi particolari e concreti di un certo oggetto astratto. Così
si passa dalla vaga allegoria alla definizione di grandezze che possono
essere "misurate", per le quali - cioè - è possibile fornire una
"definizione operativa".
--
Saluti.
D.
qf
2008-04-14 09:55:40 UTC
Permalink
"Davide Pioggia"
Post by jesko
LordBeotian
[...]
Tanto per cominciare "io" sono la mia memoria.
Se dici "io sono la mia memoria", come fai poi a parlare solo di sinapsi?
Mi sembra decisamente assurdo. Io -- tutto intero con _tutte_ le mie
interazioni -- sono la mia memoria. Mica qualche grammo di cellule.

Un'altra cosa che in tutto questo discorso continua a essere a mio parere
equivocato -- come ho detto spesso -- è che si confonda la coscienza con la
consapevolezza tipica della veglia. Un altro assurdo.
La 'coscienza' compete a ciò che è in quanto è (è l'essere stesso di ciò che
è). La consapevolezza è solo una funzione secondaria (d'interfaccia con il
mondo), ossia fa parte dell'universo sensomotorio e niente di più; tant'è
vero appunto che si continua a essere quello che si è anche dopo mesi di
coma.
E, per totrnare alla prima questione: la coscienza è memoria (ossia ciò che
si è) in atto. Non vi è alcuna differenza.

Almeno per queste due ragioni ho sempre sostenuto una tesi molto simile a
quella di LordBeotian: l'"intelligenza" (che io chiamo 're-attività') è una
proprietà dell'elementare (che non chiamo 'materia' perché non so cos'è la
materia). E penso che tutte le proprietà possibili (illimitate) siano in
potenza in tale *elementare*, il quale è dunque onnipotenziale:(*) la
differenziazione (e la complessità, che quindi è solo apparente) avviene per
interazione (è già noto in questi lidi che io sono un lamarckiano), cioè non
compaiono proprietà nuove ma si sviluppano (e quindi "appaiono" per far
contento Severino) quelle che potenzialmente ci sono già in tale substrato
onnipotenziale. Che non credo abbia la consistenza della "materia" come
comunemente intesa, altrimenti già porterebbe con sé notevoli limiti di
potenzialità.

(*) se così non fosse, nessuna proprietà e quindi nessuna "forma" sarebbe
possibile, mentre appare evidente che, al variare del contesto, sorgono
sempre nuove forme, a dimostrazione dell'onnipotenzialità del substrato.
Dall'inerte non può che uscire l'inerte, comunque si aggreghi "per caso".
L'inerte non è neppure pensabile.

Ciao
qf
Davide Pioggia
2008-04-14 12:41:08 UTC
Permalink
Post by qf
Se dici "io sono la mia memoria", come fai poi a parlare solo di sinapsi?
Due cervelli che hanno le stesse connessioni sinaptiche hanno anche
gli stessi ricordi, per la stessa ragione per cui due dischi che sono
magnetizzati allo stesso modo hanno "memorizzato" gli stessi documenti,
le stesse canzoni, gli stessi film. Quando tu fai delle "esperienze" si
modificano le connessioni sinaptiche del tuo cervello, così come
quando "memorizzi un file" modifichi lo stato magnetico del disco.
Post by qf
Io -- tutto intero con _tutte_ le mie interazioni -- sono la mia memoria.
Mica qualche grammo di cellule.
È esattamente quanto vado dicendo e ripetendo da anni, ed è la ragione
per la quale spesso rifiuto di farmi definire "materialista". Io mi
considero molto meno "materialista" di quanto lo siano certi sedicenti
"spiritualisti".

Infatti se noi paragoniamo la mente al software, è chiaro che lo stesso
programma con gli stessi dati può essere fatto girare su supporti materiali
molto diversi fra di loro. Anziché avere un computer elettronico che usa
supporti magnetici potremmo avere, che so, un computer fotonico che usa
supporti a cristalli liquidi. Per scrivere la stessa lettera con lo stesso
programma potrei usare due tecnologie completamente diverse, fra le quali
potrebbe anche non esistere una corrispondenza biunivoca immediata.
Ad esempio nella seconda tecnologia potrebbe non esistere una parte del
supporto di memorizzazione che corrisponde esattamente ad un bit, ma gruppi
di bit (ad esempio interi byte) potrebbero essere definiti dallo stato di
più parti, così come un sistema di equazioni determina "simultaneamente"
più variabili.

Dunque è chiaro che il programma e i suoi dati *non sono* il supporto
magnetico su cui esso "gira". È per questo che i programmi e i dati sono
"portabili" da un computer all'altro. Al limite un computer potrebbe anche
essere realizzato a valvole termoioniche oppure con le cordicelle che
usavano i Maya. L'unico requisito da porre è proprio sulla "stuttura di
relazioni" che possono essere "implementate" sul computer, poiché esso
- a meno dei limiti di memoria - deve essere una "macchina universale di
Turing".

Un programma e i suoi dati sono una *struttura di relazioni*, non degli
oggetti fisici. Tuttavia questa struttura di relazioni va sempre e comunque
"implementata" su un supporto fisico, il che ha un paio di conseguenze
importanti:

1) se vogliamo modificare la struttura delle relazioni bisogna per forza
modificare anche lo stato fisico del supporto (se voglio "memorizzare un
bit" e uso un disco magnetico dovrò pur cambiare lo stato magnetico di
una parte, per quanto piccola, del disco);

2) viceversa ogni modifica dello stato fisico del supporto comporta
una qualche modifica della struttura di relazioni (se modifico lo stato
magnetico del disco ho sicuramente "modificato qualche dato").

Ne segue, in particolare, che se do una martellata sul supporto fisico
della struttura di relazioni e "lo rompo", addio struttura di relazioni.
Su questo non ci piove, vero? :-)
--
Saluti.
D.
qf
2008-04-14 15:38:56 UTC
Permalink
"Davide Pioggia"
Post by Davide Pioggia
qf
Post by qf
Se dici "io sono la mia memoria", come fai poi a parlare solo di sinapsi?
Due cervelli che hanno le stesse connessioni sinaptiche hanno anche
gli stessi ricordi,
Come fai a esserne così sicuro?!?!
Io dico che solo due persone identiche (cioiè di fatto una sola persona)
possono avere ricordi identici.
Le connessioni sinaptiche sono solo una parte minima della storia. Gli si
può al massimo accreditare la cosiddetta memoria di breve termine (la cui
definizione è comunque molto impropria, tipo definizioni con l'accetta).
Non ho mai capito perché si tira via in questo modo sulla questione della
memoria.
Voglio vedere che -- ammesso sia possibile -- il riprodurre la
configurazione sinaptica tua nella testa di una donna che hai scopato le fa
ricordare che lei ha scopato se stessa!
Non ha alcun senso. La memoria è chi tu *sei*, non qualcosa che "hai", sotto
forma di configurazione sinaptica o simili.
Post by Davide Pioggia
per la stessa ragione per cui due dischi che sono
magnetizzati allo stesso modo hanno "memorizzato" gli stessi documenti,
le stesse canzoni, gli stessi film.
Ma figurati!
(Il modello del biocomputer è molto stile accetta, ma vedo che va forte.)
La memoria è fatta di emozione, e non c'è niente di individuale e totale
quanto l'emozione.
Adesso non venirmi a dire che l'emozione è ancora una configurazione
sinaptica! :-)
Post by Davide Pioggia
Quando tu fai delle "esperienze" si
modificano le connessioni sinaptiche del tuo cervello, così come
quando "memorizzi un file" modifichi lo stato magnetico del disco.
Quando io faccio delle esperienze mi modifico *io*: non sono più lo stesso.
Altro che "connessioni sinaptiche!"
Non c'è niente di me che rimanga immutato, e tanto meno si rimane immutati
quanto più l'esperienza è carica emotivamente.
Ma perché credi che un dispiacere ci possa distruggere anche fisicamente?
Perché è un dispiacere delle sinapsi?
Ragazzi, va bene il riduzionismo, ma lasciamo stare l'accetta, per favore
:-))

Tu pensi che le specie che non hanno un sistema nervoso non soffrano o non
abbiano esperienze?
Il sistema nervoso è solo un potente acceleratore di ciò che già c'è in
qualunque specie, anche nella più semplice, quella che ho chiamato
re-attività e che è il fondamento "intelligente" della vita. Nota che il
sistema nervoso (la placca neurale), nel percorso embrionale, si forma da
uno degli strati del derma, a dimostrare che le cellule del derma hanno
già -- in potenza -- tutte le proprietà enfatizzate (non "create") dal
sistema nervoso. Le creature senza sistema nervoso sono solo re-attivamente
più lente, e basta.
Post by Davide Pioggia
Post by qf
Io -- tutto intero con _tutte_ le mie interazioni -- sono la mia memoria.
Mica qualche grammo di cellule.
È esattamente quanto vado dicendo e ripetendo da anni, ed è la ragione
per la quale spesso rifiuto di farmi definire "materialista". Io mi
considero molto meno "materialista" di quanto lo siano certi sedicenti
"spiritualisti".
Ma stai dicendo esattamente il contrario: che la memoria è una
configurazione delle sinapsi (qualche etto o meno) di un organo che, fino a
prova contraria, ha solo funzione d'interfaccia sensomotoria (fra cui
l'attività razionale e linguistica, che hanno palesemente carattere
d'interfaccia relazionale e niente di più eccelso: in altre parole, il
pensante non è il cervello, anche se è lui a tradurre in parole il pensiero,
il quale non è affatto linguisticamente e comunque sensorialmente
determinato).
Post by Davide Pioggia
Infatti se noi paragoniamo la mente al software,
Il che non ha senso, fino a prova contraria. Chi programma cosa?
Post by Davide Pioggia
è chiaro che lo stesso
programma con gli stessi dati può essere fatto girare su supporti materiali
molto diversi fra di loro.
Vedi il paradosso di cui sopra: la tua memoria in una che hai scopato si
tradurrebbe per lei nella memoria di avere scopato se stessa.
Anche solo questo paradosso, indipendentemente da tutte le altre
considerazioni, rende ridicola questa idea della "portabilità" della
memoria, come se il cosiddetto "hardware" fosse indipendente dalla memoria.
Quando mai.
Post by Davide Pioggia
Anziché avere un computer elettronico che usa
supporti magnetici potremmo avere, che so, un computer fotonico che usa
supporti a cristalli liquidi.
Vabbé. Esistono anche memorie fluidiche ed esiste anche il pallottoliere, e
allora?
Post by Davide Pioggia
Per scrivere la stessa lettera con lo stesso
programma potrei usare due tecnologie completamente diverse, fra le quali
potrebbe anche non esistere una corrispondenza biunivoca immediata.
Ad esempio nella seconda tecnologia potrebbe non esistere una parte del
supporto di memorizzazione che corrisponde esattamente ad un bit, ma gruppi
di bit (ad esempio interi byte) potrebbero essere definiti dallo stato di
più parti, così come un sistema di equazioni determina "simultaneamente"
più variabili.
Vabbé, vabbé. La tecnologia è una bella cosa, lo sappiamo. Ma che c'entri
qualcosa con la memoria dei viventi è escluso. La tecnologia è solo un
ingegnoso surrogato per ottenere effetti simili, ma non più di quanto un
burattino sia simile a un essere umano.
Post by Davide Pioggia
Dunque è chiaro che il programma e i suoi dati *non sono* il supporto
magnetico su cui esso "gira".
Invece sono del tutto indistinguibili.
Il meccanismo della memorizzazione (dell'apprendimento) non è affatto
passivo come implicito nella tua ipotesi.
Ha natura propositiva e non passiva. Il soggetto pone domande (proposizioni,
cioè proposte [cioè sempre se stesso]) sotto forma di percezione attesa,
ossia di percezione già prefabbricata ed emessa come stimolo (il meccanismo
è il medesimo che si rileva nel sogno, ossia ha natura "allucinatoria"). Lo
stimolo riceve dal mondo esterno una parte di conferma e una parte di
smentita, e così, per passi successivi, ma sempre propositivi, la "proposta"
si viene a immedesimare con il quadro esterno a cui era rivolta, ossia
diventa realistica e quindi efficace nelle relazioni.

In questo senso è il soggetto a fare tutto; ed è perciò che apprende: perché
*da sé* assume progressivamente una forma (nella totalità di sé) che
corrisponde al quadro stesso. E lo fa con tutto e solo quello che egli è:
ecco perché la sua esperienza è unica, irripetibile, marcata a fuoco da ciò
che egli è -- e quindi in nessun modo è "portabile".
Per quanto si sforzi, Vladimir non avrà mai né l'esperienza né la memoria di
una donna, anche se la racconta a tutti e se la racconta.
Modello totalmente inadeguato quello che gira ormai da quasi un secolo e che
tu qui riproponi.
Post by Davide Pioggia
È per questo che i programmi e i dati sono
"portabili" da un computer all'altro. Al limite un computer potrebbe anche
essere realizzato a valvole termoioniche oppure con le cordicelle che
usavano i Maya. L'unico requisito da porre è proprio sulla "stuttura di
relazioni" che possono essere "implementate" sul computer, poiché esso
- a meno dei limiti di memoria - deve essere una "macchina universale di
Turing".
Sì, vabbé, questa cosa si è già sentita da decenni, ma non sta in piedi
neanche con il vinavil :-))
Post by Davide Pioggia
Un programma e i suoi dati sono una *struttura di relazioni*, non degli
oggetti fisici.
Invece le relazioni umane (e in genere dei viventi) non sono programmi ma
fatti concreti in cui il vivente è impegnato in toto, non la sua segreteria
telefonica :-)
Post by Davide Pioggia
Tuttavia questa struttura di relazioni va sempre e
comunque
"implementata" su un supporto fisico,
No: il cosiddetto "supporto fisico" in realtà ***é*** le sue relazioni.
Togli le relazioni e hai tolto la forma: ogni forma.
Non esiste un "supporto fisico" su cui si "implementa" alcunché. Il vivente
***è*** le sue relazioni.
E il dualista dovrei essere io, il cartesiano??? :-))
Post by Davide Pioggia
il che ha un paio di conseguenze
1) se vogliamo modificare la struttura delle relazioni bisogna per forza
modificare anche lo stato fisico del supporto (se voglio "memorizzare un
bit" e uso un disco magnetico dovrò pur cambiare lo stato magnetico di
una parte, per quanto piccola, del disco);
Come se un'esperienza, una qualunque, andasse a toccare solo qualche
sinapsi! Figuriamoci.
Post by Davide Pioggia
2) viceversa ogni modifica dello stato fisico del supporto comporta
una qualche modifica della struttura di relazioni (se modifico lo stato
magnetico del disco ho sicuramente "modificato qualche dato").
Tu cambia la capacità dei polmoni di assorbire ossigeno e poi vieni a dirmi
cosa succede alle sinapsi e alla loro "memoria".
Basta un cattivo umore da cattiva digestione (o da troppa birra) per
cambiare un ricordo o un'intera struttura di ricordi.
Non c'è patologia che non abbia influsso sul pensiero e sulla memoria.
Per inciso: il pensiero altro non è che memoria in atto (è l'attività stessa
della memoria), perché la memoria non è una cosa passiva come l'archivio
dell'Amministrazione, ma è in atto. E il suo essere in atto è il pensiero --
di cui emergono solo frammenti contingenti (cioè filtrati dall'interazione
in atto in quel momento, oltre che da divieti ed enfasi di vario tipo).
Post by Davide Pioggia
Ne segue, in particolare, che se do una martellata sul supporto fisico
della struttura di relazioni e "lo rompo", addio struttura di relazioni.
Su questo non ci piove, vero? :-)
Sì, certo: un computer o un uomo, messi sotto uno schiacciasassi, reagiscono
allo stesso modo. Si appiattiscono :-))
Ma si somigliano proprio solo in questo.
Quindi costruire una teoria della memoria e della mente sul principio dello
schiacciasassi non è la cosa più affidabile.
O sì?

Saluti
qf
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