Carlo Pierini
2006-09-22 16:04:59 UTC
Cari listanti,
in "it.cultura.filosofia" non mi si è filato nessuno, ma mi è stato detto
che qui c'è gente più seria e più attenta, quindi sottopongo anche alla
vostra gentile attenzione l'introduzione al saggio su cui sto lavorando da
un pel po' di annetti, per sapere cosa ne pensate.
Spero che almeno i 'vecchi' Daedalus e Loris, con cui mi sono confrontato
una decina d'anni fa proprio su queste tematiche, si facciano vivi.
INTRODUZIONE
"La civiltà non consiste nel semplice progresso in sé
e in un'ottusa distruzione dell'antico, ma nello
sviluppo e nel raffinamento dei beni già acquisiti".
[C.G. Jung]
E' possibile dire qualcosa di nuovo o di interessante attraverso
una raccolta di citazioni, di idee, di simboli che coprono un arco di storia
di tremila anni, cioè, attraverso una somma di cose già dette e conosciute?
Ebbene, sì; ma solo se da questa molteplicità di contenuti eterogenei
emergesse un significato ulteriore rispetto a quello espresso dai singoli
contenuti presi isolatamente e verso il quale tutti in qualche modo
convergessero; se, poi, questo nuovo significato si presentasse da un lato
come il mosaico finale nel quale la molteplicità dei "frammenti" si
complementarizza e si unifica, e dall'altro come una logica universale, com'è
il caso del presente lavoro (almeno nei suoi fini), allora oltre a qualcosa
di nuovo, si può dire anche qualcosa di interessante.
Infatti, le citazioni e gli scritti che compongono questo saggio
coprono un po' tutti gli ambiti della speculazione umana (alchimia,
psicologia, neurobiologia, storia comparata del simbolo e delle religioni,
teologia, semantica, filosofia, logica, storiografia, ecc.); ma c'è un
motivo universale che li accomuna e che li fonde in un solo disegno: il
Principio di complementarità degli opposti, o, se vogliamo, la sua variante
filosofica, la Dialettica.
Il mio intento non è quello (o non solo quello) di analizzare da
diversi punti di vista un grande "luogo comune" della storia e della
tradizione (la Dialettica è stata identificata con la filosofia stessa e la
"Coniunctio oppositorum" con il Padre eterno, o con il Tao o con il dio
Ermes-Mercurio), ma è anche e soprattutto quello di mostrare come esso sia
tutt'ora valido nei più diversi e distanti ambiti della stessa conoscenza
moderna, tanto da doversi prendere in seria considerazione l'ipotesi che si
tratti di un vero e proprio Principio universale.
L'ipotesi dell'esistenza di un Principio universale appare
pretenziosa e sfrontata agli occhi del dominante relativismo moderno, ma non
appare tale né alla luce della storia del pensiero umano tradizionale (nella
quale l'idea di un Principio ultimo è, anzi, dominante), né alla luce di
quelle che, pur essendo sfuggite quasi del tutto all'attenzione dei
ricercatori contemporanei, si possono considerare come le tre scoperte più
importanti del secolo appena trascorso, dopo quelle della fisica atomica e
relativistica, cioè:
1 - la scoperta della struttura duale-dialettica dei simboli, delle
ritualità e delle idee religiose (ampiamente documentata e descritta da
alcuni degli storici più importanti del simbolismo religioso: Mircea Eliade,
René Guénon, Julius Evola, René Alleau, Ernest Cassirer, Carl Gustav Jung);
2 - la scoperta, da parte dello psicologo C.G. Jung, della struttura
duale-dialettica della psiche (ampiamente documentata e descritta nella sua
opera); e
3 - la scoperta, da parte del neurobiologo J. Eccles, della struttura
duale-dialettica della dinamica mente-cervello: il "dualismo-interazionismo"
(J. Eccles: "Come l'Io controlla il suo cervello").
Questi tre paradigmi presi in sé isolatamente, cioè, come tre
teorie separate e indipendenti ciascuna nel proprio ambito disciplinare,
sono teorie tra tante altre, anzi le più marginali rispetto alla quasi
totalità di teorie di stampo materialista. Infatti, è necessario spostarsi
in una prospettiva super-disciplinare affinché esse si mostrino come le
diverse punte emergenti di un medesimo grande iceberg sommerso, di una
medesima grande logica che le fonda - la complementarità degli opposti - e
affinché si renda razionalmente necessaria l'ipotesi di una sua
estendibilità ai fondamenti di tutte le altre discipline.
Ma, purtroppo, una prospettiva super-disciplinare è proprio l'esatta
antitesi della prospettiva che invece è oggi imperante e cioè quella della
divisione specialistica della ricerca. Una divisione così imperante, ...che
lo stesso Eccles era totalmente ignaro del fatto che in una disciplina
confinante con la propria, la psicologia, uno psicologo (Jung) aveva
elaborato una teoria "dualista" di cui il suo "dualismo-interazionismo" era
un'estensione, o una analogia o una variante autonoma; così com'era ignaro
della scoperta di Eliade sulla logica "duale" del simbolo, nonché delle
ricerche del fisico (premio Nobel, come Eccles) Nils Bohr (anni '30-'40)
dirette ad estendere il principio di complementarità sia ad altri aspetti
della fisica, oltre a quello del cosiddetto "dualismo onda-particella", sia
ad altre discipline, alla stregua di vero e proprio principio universale.
La stessa filosofia, che dovrebbe rappresentare il momento
interdisciplinare della conoscenza e di cui dovrebbe cercare la componente
universale o, come predicavano i più importanti 'padri' della filosofia,
"ciò che è comune a tutte le scienze", è caduta invece anch'essa nella
specializzazione, perdendo il senso della propria missione, sovrapponendosi
un po' parassitariamente alle varie discipline particolari (filosofia della
scienza, del diritto, della storia, ecc.) e perdendo di vista l'unità ultima
delle cose la cui ricerca, in ultima analisi, è il solo compito che le
rimane in un'epoca in cui la conoscenza del mondo non spetta più ai
filosofi, ma al corpo delle scienze.
La filosofia non avrebbe alcun ruolo nella cultura, se non
esistesse un criterio unico e ultimo di verità e di descrizione del mondo; e
non avrebbe alcuna funzione utile neppure se un tale criterio esistesse però
fosse pienamente accessibile all'osservazione di campi disciplinari isolati.
Essa ritrova un proprio ruolo utile e un proprio fine autonomo e
indipendente dalle scienze specialistiche solo laddove ammetta l'esistenza
di un principio unico di "funzionamento del mondo", lo elegga come proprio
oggetto di ricerca e, inoltre, ammetta che tale criterio non sia osservabile
dal punto di vista di ciascuna disciplina isolata e che per metterlo in luce
sia perciò indispensabile un punto di vista diverso e ulteriore rispetto a
quello specialistico-disciplinare: nello stesso modo in cui, per esempio, è
necessario un ambito diverso e ulteriore da quello delle mappe geografiche,
per quanto fedeli e rigorose possano essere, affinché risulti osservabile l''universale',
"ciò che è comune a tutte le mappe", cioè la forma sferica ultima della
geografia. Nessuno sarebbe capace di dedurre la curvatura della terra dall'analisi
di mappe geografiche o dallo studio analitico e capillare del territorio;
potremmo analizzare palmo a palmo tutto il territorio (o tutte le mappe) del
mondo, senza cogliere il minimo indizio della sua curvatura.
Così come la dimensione curva trascende il piano della cartografia
ordinaria, esula dal suo oggetto principale (una rigorosa e fedele
rappresentazione del territorio) pur costituendone un elemento fondamentale,
nello stesso modo la "forma ultima" del sapere trascende il piano e i fini
immediati delle diverse discipline che lo compongono (una rigorosa e fedele
rappresentazione del proprio ...territorio specialistico), pur
rappresentandone, in prospettiva, un elemento centrale e indispensabile.
Su quanto il problema della "forma ultima" del sapere trascenda
davvero gli orizzonti della conoscenza moderna la dice lunga il fatto che di
esso non si occupi nessuno, neanche l'epistemologia la quale, a dispetto del
nome che si è dato ("episteme" = verità), ormai limita la propria
riflessione al solo dominio ristretto delle verità scientifiche e non all'intero
'mappamondo' dell'episteme.
"Lo specialista odierno è per Ortega "un barbaro specializzato". I pericoli
che questa barbarie specialistica comporta sono soprattutto due: sul piano
personale, una riduzione, deformante e falsificatoria, dell'orizzonte
mentale dell'uomo di scienza; e, sul piano sociale, la disarticolazione del
sapere in una molteplicità di compartimenti stagni, che introduce l'incomunicabilità"
anche nel mondo della cultura.
Come ci si potrà attendere, dai vari specialisti esperti e tecnici,
un'interpretazione unitaria dei destini umani, una visione globale della
società con i suoi problemi e le sue tensioni, una chiarificazione delle
mete comuni? Alla società essi potranno dare "una miriade di microscopi, ma
mai il colpo d'occhio dell'aquila signora dello spazio, capace di scrutare i
vasti orizzonti della vita" (J. M. Carballo)". [J. G. FICHTE: La dottrina
della scienza - pg. 102]
Eppure la storia ci mostra che la Geografia non sarebbe mai diventata una
scienza rigorosa, unitaria e compiuta, se avesse continuato ad identificarsi
con la sola cartografia, cioè se la sua fosse stata solo conoscenza di
territori e arte di rappresentarli fedelmente e le fosse mancato, quel
"momento unificante" al quale nessuna osservazione cartografica avrebbe mai
potuto condurre.
Neppure l'astronomia sarebbe diventata scienza rigorosa, se, su un
piano diverso da quello di semplice "cartografia del cielo", non avesse
individuato "ciò che è comune a tutti gli astri", cioè le leggi che regolano
il loro moto. Infatti, non furono dei progressi in campo astronomico, o l'acquisizione
di nuovi dati conoscitivi sul firmamento all'origine del rivoluzionario
passaggio al paradigma copernicano, ma al contrario, furono elementi di
provenienza extra-disciplinare che portarono a una diversa cornice
interpretativa dei medesimi dati osservati (la tecnica e i metodi di
osservazione di Tolomeo e di Keplero erano essenzialmente i medesimi).
La stessa origine storica dell'idea eliocentrica sembra collegarsi
direttamente al simbolismo magico-religioso della filosofia alchimista (in
quel tempo rigogliosa) e ad una cosmologia 'solare' comune anche ad altre
tradizioni che vedeva nel sole una allegoria vivente o una incarnazione del
Divino quale Principio e Centro dell'universo (vedi 2. 15). Scrive M.
Eliade:
"Uno studio recente ha svelato le implicazioni religiose, quasi sempre
nascoste o mascherate, nell'astronomia e nella cosmografia del rinascimento.
Per i contemporanei di Copernico e di Galileo l'eliocentrismo era più che
una teoria scientifica: esso segnò la vittoria del simbolismo solare sul
medioevo, cioè la rivalsa della tradizione ermetica - considerata come
venerabile e primordiale, essendo precedente a Mosè, Orfeo, Zoroastro,
Pitagora e Platone - sul provincialismo della Chiesa medievale". [M.
ELIADE: La nostalgia delle origini - pg.105]
Naturalmente, l'affermazione definitiva del paradigma eliocentrico
sul geocentrico non è stata né un atto di fede né, come predica un certo
relativismo ingenuo, una scelta soggettiva a favore di una maggiore
semplicità e coerenza matematica, ma è stata determinata dalla scoperta
della legge di gravità newtoniana e della sua perfetta concordanza con l'ipotesi
eliocentrica.
In altre parole, le prime tre grandi rivoluzioni dell'occidente (la
trasformazione della geografia, dell'astronomia e della fisica in scienze
rigorose e compiute), si sono originate e giocate su un piano diverso da
quello dell'osservazione disciplinare; anzi, sono stati proprio gli
"osservatori specializzati" (cartografi, astronomi e filosofi-fisici) i
maggiori oppositori delle nuove cosmologie.
Pertanto non ci dovrebbere sorprendere il fatto che gli elementi
più importanti e decisivi per un possibile analogo compimento ultimo della
conoscenza si debbano cercare proprio fuori dell'ambito disciplinare, cioè,
che ci sia la necessità di compensare l'attuale squilibrio verso la polarità
specialistica, analitica, disciplinare del sapere con uno spostamento verso
la polarità sintetica, filosofica, universalistica, super-disciplinare,
vincendo il pregiudizio secondo cui i progressi di ogni disciplina
dipenderebbero essenzialmente dal grado di approfondimento analitico del
proprio campo specifico.
Eliade, infatti, non sarebbe mai pervenuto alla scoperta dell'archetipo
universale della dualità (o della dualità universale dell'archetipo), se si
fosse soffermato allo studio analitico-specialistico di una sola tradizione
o di un gruppo limitato di tradizioni e se poi non avesse cercato
(attraverso il metodo comparativo) "ciò che è comune a tutte le tradizioni".
Né Jung sarebbe mai pervenuto alla scoperta della struttura
dialettica della psiche, se non avesse esteso le sue ricerche dal piano
individuale a quello universale e super-individuale della psiche storica e
collettiva e non avesse evidenziato "ciò che è comune ad ogni psiche".
All'origine delle ricerche di entrambi c'è stata l'osservazione
quasi casuale, ciascuno nel proprio ambito disciplinare, di dati o di eventi
o di configurazioni di eventi estremamente singolari e soprattutto
imprevisti rispetto alla comune concezione scientifico-materialista del
mondo; eventi la cui spiegazione coerente imponeva il ribaltamento delle
premesse teoriche e degi assiomi fondamentali delle rispettive
specializzazioni. Qualcosa che potremmo definire nei due casi come delle
"analogie di significato molto profonde tra ambiti molto lontani", che
spesso significava "analogie troppo profonde e capillari, o troppo
complementari per essere sorte spontaneamente in ambiti reciprocamente
troppo isolati".
Nel caso di Jung, si è trattato di analogie (o coincidenze) tra
materiale onirico individuale e simbologie provenienti dalle tradizioni più
lontane spesso del tutto ignote al sognatore; ma anche di analogie tra le
età tipiche dell'individuo e certe ere tipiche della nostra storia, o tra la
funzione dei miti religiosi sulla storia e la funzione dei grandi sogni
sulla dinamica psichica dell'individuo.
Mentre per Eliade si è trattato di analogie tra tradizioni
religiose diverse, spesso geograficamente o culturalmente separate. In
entrambi i casi, si è trattato di analogie troppo circostanziate, o troppo
adeguate l'una all'altra o troppo reciprocamente pertinenti per non essere
obbligati dalla logica a ipotizzare l'esistenza di una matrice unica,
super-storica e super-individuale quale fonte ispiratrice di ogni simbolo,
di ogni mito, di ogni cosmologia religiosa: una matrice che Jung ha chiamato
Inconscio collettivo, Eliade Immaginario collettivo e di cui entrambi hanno
evidenziato la 'dualità' sia nella funzione dialettico-interlocutoria sulla
storia (o sull'individuo) sia nella struttura duale-dialettica dei simboli
che la esprimono.
Anche l'antropologo Levi-Strauss individuò questa unità sottesa
nella molteplicità dei miti e le diede, appunto, il nome di "Struttura";
tuttavia, non avendone colto né la natura dialetticamente 'altra' rispetto
alla coscienza (o alla coscienza storica) né la natura tipicamente duale
delle sue spressioni simboliche, finì per metterla in uno stesso gran
calderone con la materia e considerò la coscienza come un suo (della
Struttura-Materia) passivo epifenomeno, privando così di fondamento e di
significato la possibilità stessa di libertà per l'uomo e facendo a pezzi
tutti i valori etico-civili di cui essa è premessa e cardine.
Ebbene, il metodo di una filosofia che si costituisse come momento
unificante del sapere non potrebbe che coincidere con il metodo dell'analisi
comparata adottato da Jung e da Eliade nelle rispettive ricerche.
Così come essi hanno messo a confronto delle realtà simboliche
distanti ed autonome giungendo alla scoperta di modelli di significato
universali e trascendenti (gli archetipi) non osservabili né sul piano dell'analisi
"territoriale" delle singole tradizioni simboliche né su quello della sola
psicologia individuale, una epistemologia idealmente consapevole del proprio
ministero dovrebbe porre a confronto discipline del sapere distanti ed
autonome, cioè trasformarsi in una scienza comparata del sapere con la
finalità di individuare gli 'archetipi concettuali', cioè i grandi concetti
che sono comuni a tutte le scienze, primo fra tutti - o dulcis in fundo - il
Principio di complementarità, l'archetipo concettuale in cui si proietta l'unità
di tutti gli altri.
Naturalmente, per portare a compimento qualcosa di così imponente
come un'analisi comparata del sapere è necessario l'apporto di una vasta
molteplicità di ricercatori organizzati in scienza e, forse, persino qualche
secolo di tempo.
Pertanto, il presente lavoro non può aspirare ad altro che ad
indicare i termini generali, la direzione di un cammino interdisciplinare
possibile e a mostrare un numero sufficiente di ragioni che rendono un tale
cammino auspicabile, anzi, necessario per l'evoluzione della conoscenza. E
siccome queste ragioni provengono da diversi e distanti territori della
ricerca (non potrebbe essere altrimenti), piuttosto che improvvisarmi
psicologo o storico delle religioni, o simbologo, o neurobiologo, o
filosofo, ecc., ho preferito esprimerle attraverso le testimonianze e le
riflessioni degli stessi "specialisti" e riducendo la mia funzione a quella
di ordinatore della loro sequenza.
Infatti, il loro ordine segue un criterio ben preciso: quello
elementare secondo cui tutte le verità più autentiche sono complementari tra
loro, dal quale discende che laddove è possibile costruire un paradigma
unitario a partire da tante testimonianze autonome, separate e
disciplinarmente distanti, sia il paradigma che le osservazioni hanno un'altissima
probabilità di essere delle verità autentiche e universali. Qualsiasi
giudice in un processo penale seguirebbe lo stesso criterio.
"Ordo et connexio idearum ac ordo et connexio rerum", "l'ordine e
la relazione delle idee corrisponde all'ordine e alla relazione delle cose",
dicevano i dialettici-scolastici medioevali; e qualche secolo dopo trionfò
la scienza proprio grazie alla realizzazione di questo medesimo criterio o,
meglio, di una sua variante parziale, la variante 'pitagorica' che vede, non
nelle idee, ma nei numeri l'ordine di relazione fra le cose, che potrebbe
essere così enunciata: "ordo et connexio numerorum ac ordo et connexio
rerum". Ma se teniamo conto del fatto che i numeri non sono altro che una
tipologia particolare di idee, tutto converge verso la possibilità di un
analogo trionfo della filosofia nel momento in cui essa estenderà al resto
delle idee (i concetti, gli archetipi, i simboli) la funzione di "ordo et
connexio rerum" conquistata fin qui solo dai numeri.
Da questo punto di vista, la ricerca di un principio di ordine e connessione
delle idee (cioè, di un criterio ultimo di verità) non è affatto eccentrica
o fantasiosa, ma è perfettamente conforme sia ai canoni scientifici che a
quelli filosofici rispetto ai quali il significato di idea coincide, per l'appunto,
con quello di "ordine e connessione" di una molteplicità omogenea di
significati, cioè coincide con un universale "in piccolo". Infatti, Abelardo
definiva l'idea come lo "stato comune in cui converge un gruppo di cose";
Ockham il "segno di più cose"; Platone "l'universale delle cose"; Aristotele
"l'unità visibile nella molteplicità"; Hegel la "categoria", cioè la sintesi
o forma unitaria di un molteplice; S. Agostino la "ragione immutabile delle
cose"; S. Tommaso "principio di conoscenza delle cose", Plotino il "pensiero
divino" che sta a fondamento di ogni cosa, ecc..
Si tratta, cioè, di 'copiare' o di ripetere un passo che è già
stato fatto dalla scienza mezzo millennio fa, pur se in un diverso ambito
speculativo; o, meglio, si tratta di portare al suo compimento naturale un
cammino di cui la scienza rappresenta solo la prima metà del percorso.
Si deve estendere, cioè, dal numero al simbolo l'attributo di
misura delle cose. Dalla quantità alla qualità, dall'equazione matematica
all'archetipo sacro, dall'analisi alla sintesi, dalla
separazione-frammentazione specialistico-analitica all'unità
super-disciplinare in un grande archetipo universale.
Un taoista parlerebbe della necessità di una alternanza tra una
conoscenza yin (fisico-materiale) e una conoscenza yang
(simbolico-spirituale); mentre io parlerei di necessità di conformità al
Principio.
"Il Tao si potrebbe considerare come il regolatore della alternanza di yin e
yang (...), come un principio d'ordine, che governerebbe indistintamente
l'attività mentale e il cosmo." [Dizionario BUR-Rizzoli - pg.445]
La prima parte di questo saggio ha come oggetto l'Alchimia, proprio
perché il fine ultimo della sua missione (fine mai raggiunto in cinque
secoli di "Ars chemica"), cioè l'Arcanum, la Pietra filosfale, consisteva,
in definitiva, in una realizzazione del Principio di complementarità degli
opposti nella materia fisico-chimica.
Ma l'alchimia non si esauriva affatto in questo, dato che nel
simbolismo e nella speculazione alchemica il Principio di complementarità è
identificato con Dio, la Pietra con il Figlio, cioè con l'Incarnazione del
Principio, e l'alchimista stesso con il sacerdote che doveva amministrare il
'sacramento chimico' (l'Opus Magnum) e giungere alla produzione 'tecnologica'
del Redentore, del "Redemptor Naturae et Spiritus".
Si tratta, cioè, di un sintetico "puzzle" costituito da una
cinquantina delle immagini simboliche più rappresentative dell'alchimia qua
e là cucite insieme da un'altrettanto sintetico commento scritto che ha il
solo fine di evidenziare lo stretto legame, se non l'identità, tra il
Principio di complementarità e la meta ultima dell'Alchimia: il Filius
philosophorum. E' una sintesi piuttosto che una analisi; pur se non mancano
esempi analitici capaci, tra l'altro, di mostrare la profonda e singolare
continuità-analogia-complementarità che esiste tra il simbolismo alchemico
ed altri importanti simbolismi tradizionali, cristiano, greco, taoista,
ecc..
- Nella seconda parte cerco di mettere a confronto, sempre molto
sinteticamente, alcuni grandi concetti del linguaggio, della filosofia,
della logica e della scienza, quali la metafora, il numero, l'operazione di
misura, il sillogismo aristotelico, la 'triade hegeliana', il principio di
non-contraddizione, il paradosso, la dialettica filosofica, la struttura del
simbolo e dell'archetipo, la dualità mente-cervello, ecc., riconducendoli a
una medesima dinamica di principio: l'unità degli opposti.
In questa prospettiva, è l'intera sfera del linguaggio, della
logica, della filosofia e della conoscenza che rivela la propria conformità
al principio di complementarità degli opposti, sia in senso storico
(evoluzione dialettica della filosofia attraverso il confronto-scontro di
filosofie opposte), sia in senso strutturale (la dialettica come principio e
legge del pensiero e del linguaggio), sia nel senso 'teleologico' della
missione, della meta ultima della filosofia e della conoscenza: un criterio
definitivo di verità.
- Nella terza parte del saggio cerco di mettere a fuoco un'idea di C.G.
Jung - che nella sua opera è solo indicata - sulla profonda identità che
esiste tra la funzione terapeutico-compensatoria dei 'grandi sogni' nell'equilibrio
psichico individuale e quella dei grandi miti nell'equilibrio evolutivo
delle culture, in particolare nella cultura Occidentale.
Questo semplice paradigma, oltre ad essere in sé conforme al
Principio di complementarità (nel suo aspetto di principio di analogia tra
le diverse scale dell'essere), mi permette di porre in risalto la storia di
questi ultimi due millenni come marcata da due grandi dialettiche: 1 - una
dialettica 'verticale' tra storia e mito, nella quale il contenuto del mito
corrisponde con i valori di cui è carente la cultura che produce il mito
stesso, cioè corrisponde con i valori opposti a quelli eccedenti
'patologicamente' nella cultura; e 2 - una dialettica 'orizzontale' tra i
valori dominanti nel 1º millennio (il culto della fede, dello Spirito, del
Cielo, di Dio, del maschile, ecc.) e i valori opposti-complementari
dominanti del 2º millennio (il culto della Vergine come polarità femminile
di Dio, della Materia, della Natura, della Ragione, ecc.).
In altri termini, la Storia si viene a configurare, da un lato,
come una grande oscillazione di periodo millenario tra due polarità opposte
di valori culturali, e dall'altro come un vero e proprio dialogo (non privo
di 'malintesi') tra l'immaginario collettivo (il mito) e le diverse ere
della storia occidentale, sul modello della relazione dialettico-evolutiva
coscienza-inconscio nell'individuo. Cioè, la storia si configura come una
doppia dialettica a croce di dimensione bi-millenaria.
Questo ulteriore paradigma non manca naturalmente di fascino,
mostrandoci duemila anni di storia occidentale sotto un unico grande
paradigma, quello della Croce, noto archetipo universale, anch'essa, della
unità degli opposti, o della complementarità universale (per esempio, l'idea
cristiana che considera l'unione verticale uomo-Dio come analogia esemplare
dell'unione orizzontale uomo-uomo la quale, in "ama il tuo nemico", o nell'amore
di coppia, diventa una vera unione orizzontale di opposti).
Così come non mancano di fascino le prospettive non solo
striografiche ma più generalmente filosofico-cosmologiche che si aprono di
fronte all'ipotesi di un principio che governa la psiche umana, il
linguaggio, la conoscenza, la storia.
Cioè di un Principio che sia principio logico nella logica (la
Dialogica), principio divino in teologia (il Tao, il Logos), psichico in
psicologia (il Sé), filosofico in filosofia (la Dialettica), ecc., pur
rimanendo sempre uno e sempre normativamente uguale a sé stesso.
L'introduzione di un criterio rigoroso di verità e di giudizio
nelle discipline umane potrebbe produrre in esse un salto di qualità, una
'resurrezione' paragonabile a quella che si produsse con l'introduzione
galileiano-kepleriana del criterio matematico-sperimentale, che produsse la
nascita della scienza moderna. Così come il criterio matematico-sperimentale
è diventato un affidabile garante delle verità scientifiche, cioè delle
verità riguardanti il polo oggettivo-quantitativo-fisico del mondo,
analogamente, il Principio di complementarità diventerebbe garante delle
verità riguardanti il polo soggettivo-qualitativo-metafisico.
E gli archetipi assumerebbero nel regno della qualità lo stesso
importante ruolo normativo e universalizzante che assumono i modelli
matematici nel regno della quantità. Così come la legge dei numeri è
diventata legge del mondo materiale (le leggi fisiche si esprimono con
modelli matematici), la legge dei simboli - la dialettica - diventerebbe la
logica del mondo spirituale, come hanno intuito anche alcuni dei più
brillanti teologi contemporanei della "dialettica dello Spirito" (T.
Altizer, M. Buber, G. Barzaghi, O. Cullmann, ecc.).
Ma un principio che governa mente e spirito non può non contenere
in sé le leggi che governano il corpo e la materia, dal momento che queste
due polarità dell'essere coesistono nel creato integrate in unità viventi; e
quindi il principio di complementarità non tarderebbe ad estendere la
propria validità al mondo fisico e a rivelarsi come principio autenticamente
e compiutamente universale.
In questa prospettiva sarebbe definitivamente risolto il millenario
problema filosofico dell'identificazione della verità o della sua
definizione: la conformità al Principio diventerebbe il criterio ultimo di
verità, e la forma dialettica, come pensava Platone, diventerebbe la forma
tipica o paradigmatica della verità stessa, il suo 'marchio' di
riconoscimento.
Persino la teologia, trasformando Dio in un Principio ultimo di
validità dimostrabile, realizzerebbe i sogni di teologi come S. Tommaso d'Aquino
o Anselmo d'Aosta e si trasformererebbe in una vera e propria scienza.
E' vero che Dio può essere definito in una infinità di modi ma,
grazie al Principio, una tale molteplicità può essere ricondotta a una
dualità di opposti - o ad una molteplicità di dualità - e queste, a loro
volta, ad una unità superiore.
Insomma, l'introduzione di un principio universale nel sapere
produrrebbe conseguenze rivoluzionarie e dirompenti per l'intera cultura,
innovazioni di portata epocale, anzi, ...mitica. E' per questo che sono
numerosissimi i miti, oltre al mito dell'alchimia, che prefigurano
simbolicamente una tale possibilità, non senza toni trionfalistici e
messianici. Dalla vittoria di Teseo sull'enigma del Labirinto, la cui
soluzione era legata a un misterioso unico filo - logico? - capace di
condurre l'eroe fino al cuore del malefico enigma, alla cristiana
"resurrezione del Logos", in cui l'eroe che risorge è l'incarnazione di un
Principio trascendente e simbolo della Verità ultima, del Verbum Dèi
incarnato nella parola umana; dalle Tavole di Mosè in cui Dio si incarna
come Legge, al Taoismo che contempla in una dualità di principi cosmici
immanenti (Yin e Yang) l'incarnazione di un Principio unico trascendente (il
Tao, di forma circolare); dalla promessa luciferina legata al frutto dell'Albero
della Conoscenza ("...e voi sarete come dèi"), o dell'Albero della Croce,
alla saga del Graal, in cui l'eroe dai molti nomi (Parzifal, Re Artù,
Merlino, ecc., restaura la sovranità e l'unità in un regno decaduto e
diviso, grazie ai poteri risanatori di un misterioso rimedio (il santo
Graal) che riassume in sé una molteplicità di significati coincidenti o
sovrapponibili con quelli della Pietra filosofale: 1 - fonte di conoscenza e
di saggezza, 2 - unione di principi opposti, 3 - autorità regale, 4 -
medicina del corpo e dello spirito, 5 - frutto di una ricerca in territori
lontani, ecc.; senza contare tutte le favole in cui alla fine sarà sempre un
princip...e a salvare la nobile e immatura fanciulla (la filosofia?) dalla
servitù di sorellastre saccenti, o dalle minacce di una regina potente,
vanitosa, e zitella (la scienza?), o a risvegliarla dal sonno ...della
ragione.
Tanta mitica solennità non è ingiustificata, se pensiamo che l'introduzione
di un fondamento universale nel sapere potrebbe rappresentare davvero l'Alfa
e l'Omega della cultura umana, il suo principio e il suo fine, il suo
cardine metafisico e la sua meta storica, il suo coronamento ultimo e il
principio di un nuovo cammino.
Oltre a promuovere tutte le discipline della cultura a vere e
proprie scienze rigorose (una scienza è tale quando, dalla descrizione
oggettiva, rigorosa e analitica degli eventi, dei fatti, dei fenomeni,
perviene alla descrizione del loro ordine, cioè, delle leggi e dei principi
che li governano), complementerebbe in sé le scienze "del cielo" con le
scienze "della terra", come una grande "Arca dell'Alleanza" nella quale
degli archetipi teologici, o filosofici, o mitologici (la trinità, la croce,
la harmonia praestabilita, l'alternanza yin-yang, ecc.) possono diventare
illuminanti e geniali paradigmi della logica, della storia, della psicologia
o della fisica, come pure immaginava H. Hesse in "Il gioco delle perle di
vetro".
Si realizzerebbe così una specie di "moneta unica" del sapere
grazie alla quale una scoperta in qualunque campo disciplinare
comporterebbe, per traslazione, una analoga scoperta in ciascuno degli
altri. Cioè si produrrebbe conoscenza non più solo a partire dall'osservazione
oggettiva ma anche e soprattutto a partire dalla riflessione filosofica o da
una rigorosa speculazione ...teologica o, chissà, musicale (una orchestra è
l'archetipo dell'unione degli opposti da molti punti di vista, il più
evidente dei quali è l'unità della molteplicità), o etica (una virtù
autentica è sempre un equilibrio armonico di qualità opposte, per es.:
coraggio e umiltà, libertà e obbedienza etica, giustizia e magnanimità,
sentimento e ragione, ecc.), o semantica (un concetto è utile e illuminante
quando armonizza e unifica in sé una pluralità di significati, compresi
quelli di segno opposto; per es.: la verità vista come unità di soggetto e
oggetto, di analisi e sintesi, di immanenza e trascendenza, di particolare e
universale, di tesi e antitesi, di matematica e fisica, ecc.).
Non più solo dall'osservazione disciplinare ai principi, ma anche e
soprattutto dal principio alla sua verifica (o applicazione) disciplinare.
Si tratterebbe, cioè, di una vera e propria democratizzazione del sapere, di
un suo decentramento dalle mani esclusive dei padroni della ricerca
tecnologico-specializzata e di un recupero della speculazione metafisica
come polarità complementare indispensabile alla conoscenza al pari della
polarità osservativo-sperimentale.
Non più l'immagine disperante di una conoscenza fatta di tante
conoscenze separate in espansione infinita su un territorio virtualmente
senza limiti e senza forma ultima, qual è l'immagine ingenua degli
epistemologi moderni, ma una conoscenza che si racchiude e si raccoglie
attorno ad un medesimo centro (il Principio) e nella quale si rende
possibile "raggiungere l'oriente navigando verso occidente", o in senso
epistemico-filosofico, pervenire a una medesima conclusione partendo da due
logiche diametralmente opposte, che è la proprietà fondamentale del processo
dialettico.
In altri termini, una conoscenza nuovamente aperta alla
sacralizzazione, nella quale "l'ipotesi di Dio" - che Laplace aveva creduto
di poter esiliare dagli orizzonti del sapere - ridiventa necessaria, anzi,
determinante e fondante.
Un Principio dà finitezza al sapere senza porgli dei limiti,
proprio come l'universo non-euclideo concepito da Einstein è "illimitato, ma
finito". Con un Principio, cioè, il sapere acquisisce finitezza nel senso
dell'estensione disciplinare (il numero delle scienze è finito e, per
ciascuna scienza, è finito il numero delle leggi e degli assiomi
fondamentali), ma non si pongono limiti nel senso della profondità di
analisi (sia disciplinare che interdisciplinare), nello stesso modo in cui
in geometria si passa dall'infinità dei punti di una superficie geometrica
infinita, priva di centro e di forma, all'infinità dei punti della
superficie geografica della Terra, dotata di forma, di centro (che trascende
la superficie) e persino di due poli naturali. Di fatto, la scoperta della
finitezza della superficie terrestre non ha posto limiti alla crescita della
Geografia né come scienza né come esplorazione ma, al contrario, ha creato
le condizioni necessarie per la piena realizzazione di entrambi i suoi
aspetti.
Non è casuale che la simbologia di tutte le tradizioni (§ 2.20)
identifichi il creato con un cerchio e il Principio divino con il centro.
Qualche esempio:
"Questo punto centrale e primordiale è identico al «santo palazzo» della
Qabbalah ebraica; nella sua essenza, esso non è localizzato, poiché è
assolutamente indipendente dallo spazio, che non è se non il risultato della
sua espansione o del suo indefìnito sviluppo in tutti i sensi, e, di
conseguenza, da lui deriva per intero: «Trasferiamoci in spirito fuori di
questo mondo di dimensioni e di localizzazioni, e non si tratterà più di
dare una sede al Principio». [...] Il punto primordiale, pur rimanendo
sempre essenzialmente «non localizzato» (appunto per questo, nulla può
influenzarlo o modifìcarlo), si fa centro di questo spazio, cioè, centro di
tutta la manifestazione universale ". [R. GUÉNON: Il simbolismo della
croce - pg.75]
"Il centro è anche simbolo della legge organizzatrice: a questo proposito si
parla di 'potere centrale' che organizza lo Stato e, a un livello superiore,
l'universo, l'evoluzione biologica e l'ascesa spirituale. [...] Il centro
può essere considerato un'immagine del mondo, un microcosmo che contiene in
sé tutte le virtualità dell'universo". [CHEVALIER - GHEERBRANT: Dizionario
dei simboli - pg. 243]
"Posto al centro della «ruota cosmica», il saggio perfetto la muove
invisibilmente, in virtù della sua sola presenza, senza partecipare al suo
movimento, e senza preoccuparsi di esercitare una qualsiasi azione. (...)
Questo distacco assoluto ne fa il signore di ogni cosa, poiché, essendo egli
passato al di là di tutte le opposizioni inerenti alla molteplicità, nulla
può più influire su di lui [...]. A forza di ricerca, è pervenuto alla
verità immutabile, alla conoscenza del Principio universale unico". [R.
GUÉNON: Il simbolismo della croce - pp. 72-3]
"L'uomo religioso cerca sempre di stabilire la propria residenza nel "centro
del mondo". Affinché si possa vivere nel mondo, questo deve essere fondato;
e nessun mondo può nascere nel caos dell'omogeneità e dalla relatività dello
spazio profano. La scoperta o la proiezione di un punto fisso - il centro -
equivalgono alla creazione del mondo. L'orientamento e la costruzione
rituale dello spazio sacro posseggono un valore cosmogonico; infatti, il
rituale mediante il quale l'uomo costruisce uno spazio sacro è efficace
nella misura in cui riproduce l'opera degli dèi, cioè la cosmogonia". [M.
ELIADE: Ocultismo, stregoneria e mode culturali - pg. 37]
" Un cerchio e un centro: questa è l'intuizione che domina ai suoi inizi il
pensiero teologico e scientifico dei Greci". [G. TAGLIAVIA: Inizio e
cominciamento - pg.21]
"I concetti greci di essere e di verità sono paragonabili, secondo la
similitudine di Parmenide, a una «sfera perfettamente rotonda», salda nel
suo proprio centro". [E. CASSIRER: Sulla logica delle scienze della
cultura - pg. 5]
"Non dimentichiamo che per l'uomo primitivo, il sapere, la conoscenza
erano - e sono rimasti - epifanie della «Potenza sacra». Chi vede e sa
tutto, può ed è tutto. Talvolta simili Esseri supremi di origine uranica
diventano fondamento dell'Universo, autori e dominatori dei ritmi cosmici, e
tendono a coincidere sia col Principio, o sostanza metafisica dell'Universo,
sia con la Legge, con quel che è eterno e universale nei fenomeni
transitori, nel loro divenire. Legge che gli dèi stessi non possono
abolire". [M. ELIADE: Trattato di storia delle religioni - pg.65]
"[Nell'Alchimia] l'esotico « centro » è sempre dato per perso o per lontano,
si tratta di riconquistarlo, d'inventarlo, di farlo nascere; e soprattutto
di riconoscerlo come confacente allo scopo prefìssato, allontanandosi,
quanto più è possibile, dalle smagliature di un infìnito terrorizzante".
[S. ANDREANI: Alchimia: per una semiologia del sacro - pg. 23]
"Il centro è innanzi tutto il Principio, il Reale assoluto; il centro dei
centri non può essere che Dio. Scrive Nicola Cusano: "I poli della sfera
coincidono con il centro che è Dio. E' circonferenza e centro, è dappertutto
e in nessun luogo". [CHEVALIER - GHEERBRANT: Dizionario dei simboli - pg.
242]
Esiste una vasta letteratura sul simbolismo della polarità universale (oltre
al Dio-Coniunctio-oppositorum del Cusano) che inclina a pensare al Cosmo (o
alla Conoscenza che vi si rispecchia) come a una sfera bipolare nella quale
i poli rappresentano la proiezione nell'immanenza del Principio centrale
trascendente. L'idea platonica di un cosmo vivente, sferico e androgino è
solo una delle innumerevoli varianti.
Carlo Pierini
in "it.cultura.filosofia" non mi si è filato nessuno, ma mi è stato detto
che qui c'è gente più seria e più attenta, quindi sottopongo anche alla
vostra gentile attenzione l'introduzione al saggio su cui sto lavorando da
un pel po' di annetti, per sapere cosa ne pensate.
Spero che almeno i 'vecchi' Daedalus e Loris, con cui mi sono confrontato
una decina d'anni fa proprio su queste tematiche, si facciano vivi.
INTRODUZIONE
"La civiltà non consiste nel semplice progresso in sé
e in un'ottusa distruzione dell'antico, ma nello
sviluppo e nel raffinamento dei beni già acquisiti".
[C.G. Jung]
E' possibile dire qualcosa di nuovo o di interessante attraverso
una raccolta di citazioni, di idee, di simboli che coprono un arco di storia
di tremila anni, cioè, attraverso una somma di cose già dette e conosciute?
Ebbene, sì; ma solo se da questa molteplicità di contenuti eterogenei
emergesse un significato ulteriore rispetto a quello espresso dai singoli
contenuti presi isolatamente e verso il quale tutti in qualche modo
convergessero; se, poi, questo nuovo significato si presentasse da un lato
come il mosaico finale nel quale la molteplicità dei "frammenti" si
complementarizza e si unifica, e dall'altro come una logica universale, com'è
il caso del presente lavoro (almeno nei suoi fini), allora oltre a qualcosa
di nuovo, si può dire anche qualcosa di interessante.
Infatti, le citazioni e gli scritti che compongono questo saggio
coprono un po' tutti gli ambiti della speculazione umana (alchimia,
psicologia, neurobiologia, storia comparata del simbolo e delle religioni,
teologia, semantica, filosofia, logica, storiografia, ecc.); ma c'è un
motivo universale che li accomuna e che li fonde in un solo disegno: il
Principio di complementarità degli opposti, o, se vogliamo, la sua variante
filosofica, la Dialettica.
Il mio intento non è quello (o non solo quello) di analizzare da
diversi punti di vista un grande "luogo comune" della storia e della
tradizione (la Dialettica è stata identificata con la filosofia stessa e la
"Coniunctio oppositorum" con il Padre eterno, o con il Tao o con il dio
Ermes-Mercurio), ma è anche e soprattutto quello di mostrare come esso sia
tutt'ora valido nei più diversi e distanti ambiti della stessa conoscenza
moderna, tanto da doversi prendere in seria considerazione l'ipotesi che si
tratti di un vero e proprio Principio universale.
L'ipotesi dell'esistenza di un Principio universale appare
pretenziosa e sfrontata agli occhi del dominante relativismo moderno, ma non
appare tale né alla luce della storia del pensiero umano tradizionale (nella
quale l'idea di un Principio ultimo è, anzi, dominante), né alla luce di
quelle che, pur essendo sfuggite quasi del tutto all'attenzione dei
ricercatori contemporanei, si possono considerare come le tre scoperte più
importanti del secolo appena trascorso, dopo quelle della fisica atomica e
relativistica, cioè:
1 - la scoperta della struttura duale-dialettica dei simboli, delle
ritualità e delle idee religiose (ampiamente documentata e descritta da
alcuni degli storici più importanti del simbolismo religioso: Mircea Eliade,
René Guénon, Julius Evola, René Alleau, Ernest Cassirer, Carl Gustav Jung);
2 - la scoperta, da parte dello psicologo C.G. Jung, della struttura
duale-dialettica della psiche (ampiamente documentata e descritta nella sua
opera); e
3 - la scoperta, da parte del neurobiologo J. Eccles, della struttura
duale-dialettica della dinamica mente-cervello: il "dualismo-interazionismo"
(J. Eccles: "Come l'Io controlla il suo cervello").
Questi tre paradigmi presi in sé isolatamente, cioè, come tre
teorie separate e indipendenti ciascuna nel proprio ambito disciplinare,
sono teorie tra tante altre, anzi le più marginali rispetto alla quasi
totalità di teorie di stampo materialista. Infatti, è necessario spostarsi
in una prospettiva super-disciplinare affinché esse si mostrino come le
diverse punte emergenti di un medesimo grande iceberg sommerso, di una
medesima grande logica che le fonda - la complementarità degli opposti - e
affinché si renda razionalmente necessaria l'ipotesi di una sua
estendibilità ai fondamenti di tutte le altre discipline.
Ma, purtroppo, una prospettiva super-disciplinare è proprio l'esatta
antitesi della prospettiva che invece è oggi imperante e cioè quella della
divisione specialistica della ricerca. Una divisione così imperante, ...che
lo stesso Eccles era totalmente ignaro del fatto che in una disciplina
confinante con la propria, la psicologia, uno psicologo (Jung) aveva
elaborato una teoria "dualista" di cui il suo "dualismo-interazionismo" era
un'estensione, o una analogia o una variante autonoma; così com'era ignaro
della scoperta di Eliade sulla logica "duale" del simbolo, nonché delle
ricerche del fisico (premio Nobel, come Eccles) Nils Bohr (anni '30-'40)
dirette ad estendere il principio di complementarità sia ad altri aspetti
della fisica, oltre a quello del cosiddetto "dualismo onda-particella", sia
ad altre discipline, alla stregua di vero e proprio principio universale.
La stessa filosofia, che dovrebbe rappresentare il momento
interdisciplinare della conoscenza e di cui dovrebbe cercare la componente
universale o, come predicavano i più importanti 'padri' della filosofia,
"ciò che è comune a tutte le scienze", è caduta invece anch'essa nella
specializzazione, perdendo il senso della propria missione, sovrapponendosi
un po' parassitariamente alle varie discipline particolari (filosofia della
scienza, del diritto, della storia, ecc.) e perdendo di vista l'unità ultima
delle cose la cui ricerca, in ultima analisi, è il solo compito che le
rimane in un'epoca in cui la conoscenza del mondo non spetta più ai
filosofi, ma al corpo delle scienze.
La filosofia non avrebbe alcun ruolo nella cultura, se non
esistesse un criterio unico e ultimo di verità e di descrizione del mondo; e
non avrebbe alcuna funzione utile neppure se un tale criterio esistesse però
fosse pienamente accessibile all'osservazione di campi disciplinari isolati.
Essa ritrova un proprio ruolo utile e un proprio fine autonomo e
indipendente dalle scienze specialistiche solo laddove ammetta l'esistenza
di un principio unico di "funzionamento del mondo", lo elegga come proprio
oggetto di ricerca e, inoltre, ammetta che tale criterio non sia osservabile
dal punto di vista di ciascuna disciplina isolata e che per metterlo in luce
sia perciò indispensabile un punto di vista diverso e ulteriore rispetto a
quello specialistico-disciplinare: nello stesso modo in cui, per esempio, è
necessario un ambito diverso e ulteriore da quello delle mappe geografiche,
per quanto fedeli e rigorose possano essere, affinché risulti osservabile l''universale',
"ciò che è comune a tutte le mappe", cioè la forma sferica ultima della
geografia. Nessuno sarebbe capace di dedurre la curvatura della terra dall'analisi
di mappe geografiche o dallo studio analitico e capillare del territorio;
potremmo analizzare palmo a palmo tutto il territorio (o tutte le mappe) del
mondo, senza cogliere il minimo indizio della sua curvatura.
Così come la dimensione curva trascende il piano della cartografia
ordinaria, esula dal suo oggetto principale (una rigorosa e fedele
rappresentazione del territorio) pur costituendone un elemento fondamentale,
nello stesso modo la "forma ultima" del sapere trascende il piano e i fini
immediati delle diverse discipline che lo compongono (una rigorosa e fedele
rappresentazione del proprio ...territorio specialistico), pur
rappresentandone, in prospettiva, un elemento centrale e indispensabile.
Su quanto il problema della "forma ultima" del sapere trascenda
davvero gli orizzonti della conoscenza moderna la dice lunga il fatto che di
esso non si occupi nessuno, neanche l'epistemologia la quale, a dispetto del
nome che si è dato ("episteme" = verità), ormai limita la propria
riflessione al solo dominio ristretto delle verità scientifiche e non all'intero
'mappamondo' dell'episteme.
"Lo specialista odierno è per Ortega "un barbaro specializzato". I pericoli
che questa barbarie specialistica comporta sono soprattutto due: sul piano
personale, una riduzione, deformante e falsificatoria, dell'orizzonte
mentale dell'uomo di scienza; e, sul piano sociale, la disarticolazione del
sapere in una molteplicità di compartimenti stagni, che introduce l'incomunicabilità"
anche nel mondo della cultura.
Come ci si potrà attendere, dai vari specialisti esperti e tecnici,
un'interpretazione unitaria dei destini umani, una visione globale della
società con i suoi problemi e le sue tensioni, una chiarificazione delle
mete comuni? Alla società essi potranno dare "una miriade di microscopi, ma
mai il colpo d'occhio dell'aquila signora dello spazio, capace di scrutare i
vasti orizzonti della vita" (J. M. Carballo)". [J. G. FICHTE: La dottrina
della scienza - pg. 102]
Eppure la storia ci mostra che la Geografia non sarebbe mai diventata una
scienza rigorosa, unitaria e compiuta, se avesse continuato ad identificarsi
con la sola cartografia, cioè se la sua fosse stata solo conoscenza di
territori e arte di rappresentarli fedelmente e le fosse mancato, quel
"momento unificante" al quale nessuna osservazione cartografica avrebbe mai
potuto condurre.
Neppure l'astronomia sarebbe diventata scienza rigorosa, se, su un
piano diverso da quello di semplice "cartografia del cielo", non avesse
individuato "ciò che è comune a tutti gli astri", cioè le leggi che regolano
il loro moto. Infatti, non furono dei progressi in campo astronomico, o l'acquisizione
di nuovi dati conoscitivi sul firmamento all'origine del rivoluzionario
passaggio al paradigma copernicano, ma al contrario, furono elementi di
provenienza extra-disciplinare che portarono a una diversa cornice
interpretativa dei medesimi dati osservati (la tecnica e i metodi di
osservazione di Tolomeo e di Keplero erano essenzialmente i medesimi).
La stessa origine storica dell'idea eliocentrica sembra collegarsi
direttamente al simbolismo magico-religioso della filosofia alchimista (in
quel tempo rigogliosa) e ad una cosmologia 'solare' comune anche ad altre
tradizioni che vedeva nel sole una allegoria vivente o una incarnazione del
Divino quale Principio e Centro dell'universo (vedi 2. 15). Scrive M.
Eliade:
"Uno studio recente ha svelato le implicazioni religiose, quasi sempre
nascoste o mascherate, nell'astronomia e nella cosmografia del rinascimento.
Per i contemporanei di Copernico e di Galileo l'eliocentrismo era più che
una teoria scientifica: esso segnò la vittoria del simbolismo solare sul
medioevo, cioè la rivalsa della tradizione ermetica - considerata come
venerabile e primordiale, essendo precedente a Mosè, Orfeo, Zoroastro,
Pitagora e Platone - sul provincialismo della Chiesa medievale". [M.
ELIADE: La nostalgia delle origini - pg.105]
Naturalmente, l'affermazione definitiva del paradigma eliocentrico
sul geocentrico non è stata né un atto di fede né, come predica un certo
relativismo ingenuo, una scelta soggettiva a favore di una maggiore
semplicità e coerenza matematica, ma è stata determinata dalla scoperta
della legge di gravità newtoniana e della sua perfetta concordanza con l'ipotesi
eliocentrica.
In altre parole, le prime tre grandi rivoluzioni dell'occidente (la
trasformazione della geografia, dell'astronomia e della fisica in scienze
rigorose e compiute), si sono originate e giocate su un piano diverso da
quello dell'osservazione disciplinare; anzi, sono stati proprio gli
"osservatori specializzati" (cartografi, astronomi e filosofi-fisici) i
maggiori oppositori delle nuove cosmologie.
Pertanto non ci dovrebbere sorprendere il fatto che gli elementi
più importanti e decisivi per un possibile analogo compimento ultimo della
conoscenza si debbano cercare proprio fuori dell'ambito disciplinare, cioè,
che ci sia la necessità di compensare l'attuale squilibrio verso la polarità
specialistica, analitica, disciplinare del sapere con uno spostamento verso
la polarità sintetica, filosofica, universalistica, super-disciplinare,
vincendo il pregiudizio secondo cui i progressi di ogni disciplina
dipenderebbero essenzialmente dal grado di approfondimento analitico del
proprio campo specifico.
Eliade, infatti, non sarebbe mai pervenuto alla scoperta dell'archetipo
universale della dualità (o della dualità universale dell'archetipo), se si
fosse soffermato allo studio analitico-specialistico di una sola tradizione
o di un gruppo limitato di tradizioni e se poi non avesse cercato
(attraverso il metodo comparativo) "ciò che è comune a tutte le tradizioni".
Né Jung sarebbe mai pervenuto alla scoperta della struttura
dialettica della psiche, se non avesse esteso le sue ricerche dal piano
individuale a quello universale e super-individuale della psiche storica e
collettiva e non avesse evidenziato "ciò che è comune ad ogni psiche".
All'origine delle ricerche di entrambi c'è stata l'osservazione
quasi casuale, ciascuno nel proprio ambito disciplinare, di dati o di eventi
o di configurazioni di eventi estremamente singolari e soprattutto
imprevisti rispetto alla comune concezione scientifico-materialista del
mondo; eventi la cui spiegazione coerente imponeva il ribaltamento delle
premesse teoriche e degi assiomi fondamentali delle rispettive
specializzazioni. Qualcosa che potremmo definire nei due casi come delle
"analogie di significato molto profonde tra ambiti molto lontani", che
spesso significava "analogie troppo profonde e capillari, o troppo
complementari per essere sorte spontaneamente in ambiti reciprocamente
troppo isolati".
Nel caso di Jung, si è trattato di analogie (o coincidenze) tra
materiale onirico individuale e simbologie provenienti dalle tradizioni più
lontane spesso del tutto ignote al sognatore; ma anche di analogie tra le
età tipiche dell'individuo e certe ere tipiche della nostra storia, o tra la
funzione dei miti religiosi sulla storia e la funzione dei grandi sogni
sulla dinamica psichica dell'individuo.
Mentre per Eliade si è trattato di analogie tra tradizioni
religiose diverse, spesso geograficamente o culturalmente separate. In
entrambi i casi, si è trattato di analogie troppo circostanziate, o troppo
adeguate l'una all'altra o troppo reciprocamente pertinenti per non essere
obbligati dalla logica a ipotizzare l'esistenza di una matrice unica,
super-storica e super-individuale quale fonte ispiratrice di ogni simbolo,
di ogni mito, di ogni cosmologia religiosa: una matrice che Jung ha chiamato
Inconscio collettivo, Eliade Immaginario collettivo e di cui entrambi hanno
evidenziato la 'dualità' sia nella funzione dialettico-interlocutoria sulla
storia (o sull'individuo) sia nella struttura duale-dialettica dei simboli
che la esprimono.
Anche l'antropologo Levi-Strauss individuò questa unità sottesa
nella molteplicità dei miti e le diede, appunto, il nome di "Struttura";
tuttavia, non avendone colto né la natura dialetticamente 'altra' rispetto
alla coscienza (o alla coscienza storica) né la natura tipicamente duale
delle sue spressioni simboliche, finì per metterla in uno stesso gran
calderone con la materia e considerò la coscienza come un suo (della
Struttura-Materia) passivo epifenomeno, privando così di fondamento e di
significato la possibilità stessa di libertà per l'uomo e facendo a pezzi
tutti i valori etico-civili di cui essa è premessa e cardine.
Ebbene, il metodo di una filosofia che si costituisse come momento
unificante del sapere non potrebbe che coincidere con il metodo dell'analisi
comparata adottato da Jung e da Eliade nelle rispettive ricerche.
Così come essi hanno messo a confronto delle realtà simboliche
distanti ed autonome giungendo alla scoperta di modelli di significato
universali e trascendenti (gli archetipi) non osservabili né sul piano dell'analisi
"territoriale" delle singole tradizioni simboliche né su quello della sola
psicologia individuale, una epistemologia idealmente consapevole del proprio
ministero dovrebbe porre a confronto discipline del sapere distanti ed
autonome, cioè trasformarsi in una scienza comparata del sapere con la
finalità di individuare gli 'archetipi concettuali', cioè i grandi concetti
che sono comuni a tutte le scienze, primo fra tutti - o dulcis in fundo - il
Principio di complementarità, l'archetipo concettuale in cui si proietta l'unità
di tutti gli altri.
Naturalmente, per portare a compimento qualcosa di così imponente
come un'analisi comparata del sapere è necessario l'apporto di una vasta
molteplicità di ricercatori organizzati in scienza e, forse, persino qualche
secolo di tempo.
Pertanto, il presente lavoro non può aspirare ad altro che ad
indicare i termini generali, la direzione di un cammino interdisciplinare
possibile e a mostrare un numero sufficiente di ragioni che rendono un tale
cammino auspicabile, anzi, necessario per l'evoluzione della conoscenza. E
siccome queste ragioni provengono da diversi e distanti territori della
ricerca (non potrebbe essere altrimenti), piuttosto che improvvisarmi
psicologo o storico delle religioni, o simbologo, o neurobiologo, o
filosofo, ecc., ho preferito esprimerle attraverso le testimonianze e le
riflessioni degli stessi "specialisti" e riducendo la mia funzione a quella
di ordinatore della loro sequenza.
Infatti, il loro ordine segue un criterio ben preciso: quello
elementare secondo cui tutte le verità più autentiche sono complementari tra
loro, dal quale discende che laddove è possibile costruire un paradigma
unitario a partire da tante testimonianze autonome, separate e
disciplinarmente distanti, sia il paradigma che le osservazioni hanno un'altissima
probabilità di essere delle verità autentiche e universali. Qualsiasi
giudice in un processo penale seguirebbe lo stesso criterio.
"Ordo et connexio idearum ac ordo et connexio rerum", "l'ordine e
la relazione delle idee corrisponde all'ordine e alla relazione delle cose",
dicevano i dialettici-scolastici medioevali; e qualche secolo dopo trionfò
la scienza proprio grazie alla realizzazione di questo medesimo criterio o,
meglio, di una sua variante parziale, la variante 'pitagorica' che vede, non
nelle idee, ma nei numeri l'ordine di relazione fra le cose, che potrebbe
essere così enunciata: "ordo et connexio numerorum ac ordo et connexio
rerum". Ma se teniamo conto del fatto che i numeri non sono altro che una
tipologia particolare di idee, tutto converge verso la possibilità di un
analogo trionfo della filosofia nel momento in cui essa estenderà al resto
delle idee (i concetti, gli archetipi, i simboli) la funzione di "ordo et
connexio rerum" conquistata fin qui solo dai numeri.
Da questo punto di vista, la ricerca di un principio di ordine e connessione
delle idee (cioè, di un criterio ultimo di verità) non è affatto eccentrica
o fantasiosa, ma è perfettamente conforme sia ai canoni scientifici che a
quelli filosofici rispetto ai quali il significato di idea coincide, per l'appunto,
con quello di "ordine e connessione" di una molteplicità omogenea di
significati, cioè coincide con un universale "in piccolo". Infatti, Abelardo
definiva l'idea come lo "stato comune in cui converge un gruppo di cose";
Ockham il "segno di più cose"; Platone "l'universale delle cose"; Aristotele
"l'unità visibile nella molteplicità"; Hegel la "categoria", cioè la sintesi
o forma unitaria di un molteplice; S. Agostino la "ragione immutabile delle
cose"; S. Tommaso "principio di conoscenza delle cose", Plotino il "pensiero
divino" che sta a fondamento di ogni cosa, ecc..
Si tratta, cioè, di 'copiare' o di ripetere un passo che è già
stato fatto dalla scienza mezzo millennio fa, pur se in un diverso ambito
speculativo; o, meglio, si tratta di portare al suo compimento naturale un
cammino di cui la scienza rappresenta solo la prima metà del percorso.
Si deve estendere, cioè, dal numero al simbolo l'attributo di
misura delle cose. Dalla quantità alla qualità, dall'equazione matematica
all'archetipo sacro, dall'analisi alla sintesi, dalla
separazione-frammentazione specialistico-analitica all'unità
super-disciplinare in un grande archetipo universale.
Un taoista parlerebbe della necessità di una alternanza tra una
conoscenza yin (fisico-materiale) e una conoscenza yang
(simbolico-spirituale); mentre io parlerei di necessità di conformità al
Principio.
"Il Tao si potrebbe considerare come il regolatore della alternanza di yin e
yang (...), come un principio d'ordine, che governerebbe indistintamente
l'attività mentale e il cosmo." [Dizionario BUR-Rizzoli - pg.445]
La prima parte di questo saggio ha come oggetto l'Alchimia, proprio
perché il fine ultimo della sua missione (fine mai raggiunto in cinque
secoli di "Ars chemica"), cioè l'Arcanum, la Pietra filosfale, consisteva,
in definitiva, in una realizzazione del Principio di complementarità degli
opposti nella materia fisico-chimica.
Ma l'alchimia non si esauriva affatto in questo, dato che nel
simbolismo e nella speculazione alchemica il Principio di complementarità è
identificato con Dio, la Pietra con il Figlio, cioè con l'Incarnazione del
Principio, e l'alchimista stesso con il sacerdote che doveva amministrare il
'sacramento chimico' (l'Opus Magnum) e giungere alla produzione 'tecnologica'
del Redentore, del "Redemptor Naturae et Spiritus".
Si tratta, cioè, di un sintetico "puzzle" costituito da una
cinquantina delle immagini simboliche più rappresentative dell'alchimia qua
e là cucite insieme da un'altrettanto sintetico commento scritto che ha il
solo fine di evidenziare lo stretto legame, se non l'identità, tra il
Principio di complementarità e la meta ultima dell'Alchimia: il Filius
philosophorum. E' una sintesi piuttosto che una analisi; pur se non mancano
esempi analitici capaci, tra l'altro, di mostrare la profonda e singolare
continuità-analogia-complementarità che esiste tra il simbolismo alchemico
ed altri importanti simbolismi tradizionali, cristiano, greco, taoista,
ecc..
- Nella seconda parte cerco di mettere a confronto, sempre molto
sinteticamente, alcuni grandi concetti del linguaggio, della filosofia,
della logica e della scienza, quali la metafora, il numero, l'operazione di
misura, il sillogismo aristotelico, la 'triade hegeliana', il principio di
non-contraddizione, il paradosso, la dialettica filosofica, la struttura del
simbolo e dell'archetipo, la dualità mente-cervello, ecc., riconducendoli a
una medesima dinamica di principio: l'unità degli opposti.
In questa prospettiva, è l'intera sfera del linguaggio, della
logica, della filosofia e della conoscenza che rivela la propria conformità
al principio di complementarità degli opposti, sia in senso storico
(evoluzione dialettica della filosofia attraverso il confronto-scontro di
filosofie opposte), sia in senso strutturale (la dialettica come principio e
legge del pensiero e del linguaggio), sia nel senso 'teleologico' della
missione, della meta ultima della filosofia e della conoscenza: un criterio
definitivo di verità.
- Nella terza parte del saggio cerco di mettere a fuoco un'idea di C.G.
Jung - che nella sua opera è solo indicata - sulla profonda identità che
esiste tra la funzione terapeutico-compensatoria dei 'grandi sogni' nell'equilibrio
psichico individuale e quella dei grandi miti nell'equilibrio evolutivo
delle culture, in particolare nella cultura Occidentale.
Questo semplice paradigma, oltre ad essere in sé conforme al
Principio di complementarità (nel suo aspetto di principio di analogia tra
le diverse scale dell'essere), mi permette di porre in risalto la storia di
questi ultimi due millenni come marcata da due grandi dialettiche: 1 - una
dialettica 'verticale' tra storia e mito, nella quale il contenuto del mito
corrisponde con i valori di cui è carente la cultura che produce il mito
stesso, cioè corrisponde con i valori opposti a quelli eccedenti
'patologicamente' nella cultura; e 2 - una dialettica 'orizzontale' tra i
valori dominanti nel 1º millennio (il culto della fede, dello Spirito, del
Cielo, di Dio, del maschile, ecc.) e i valori opposti-complementari
dominanti del 2º millennio (il culto della Vergine come polarità femminile
di Dio, della Materia, della Natura, della Ragione, ecc.).
In altri termini, la Storia si viene a configurare, da un lato,
come una grande oscillazione di periodo millenario tra due polarità opposte
di valori culturali, e dall'altro come un vero e proprio dialogo (non privo
di 'malintesi') tra l'immaginario collettivo (il mito) e le diverse ere
della storia occidentale, sul modello della relazione dialettico-evolutiva
coscienza-inconscio nell'individuo. Cioè, la storia si configura come una
doppia dialettica a croce di dimensione bi-millenaria.
Questo ulteriore paradigma non manca naturalmente di fascino,
mostrandoci duemila anni di storia occidentale sotto un unico grande
paradigma, quello della Croce, noto archetipo universale, anch'essa, della
unità degli opposti, o della complementarità universale (per esempio, l'idea
cristiana che considera l'unione verticale uomo-Dio come analogia esemplare
dell'unione orizzontale uomo-uomo la quale, in "ama il tuo nemico", o nell'amore
di coppia, diventa una vera unione orizzontale di opposti).
Così come non mancano di fascino le prospettive non solo
striografiche ma più generalmente filosofico-cosmologiche che si aprono di
fronte all'ipotesi di un principio che governa la psiche umana, il
linguaggio, la conoscenza, la storia.
Cioè di un Principio che sia principio logico nella logica (la
Dialogica), principio divino in teologia (il Tao, il Logos), psichico in
psicologia (il Sé), filosofico in filosofia (la Dialettica), ecc., pur
rimanendo sempre uno e sempre normativamente uguale a sé stesso.
L'introduzione di un criterio rigoroso di verità e di giudizio
nelle discipline umane potrebbe produrre in esse un salto di qualità, una
'resurrezione' paragonabile a quella che si produsse con l'introduzione
galileiano-kepleriana del criterio matematico-sperimentale, che produsse la
nascita della scienza moderna. Così come il criterio matematico-sperimentale
è diventato un affidabile garante delle verità scientifiche, cioè delle
verità riguardanti il polo oggettivo-quantitativo-fisico del mondo,
analogamente, il Principio di complementarità diventerebbe garante delle
verità riguardanti il polo soggettivo-qualitativo-metafisico.
E gli archetipi assumerebbero nel regno della qualità lo stesso
importante ruolo normativo e universalizzante che assumono i modelli
matematici nel regno della quantità. Così come la legge dei numeri è
diventata legge del mondo materiale (le leggi fisiche si esprimono con
modelli matematici), la legge dei simboli - la dialettica - diventerebbe la
logica del mondo spirituale, come hanno intuito anche alcuni dei più
brillanti teologi contemporanei della "dialettica dello Spirito" (T.
Altizer, M. Buber, G. Barzaghi, O. Cullmann, ecc.).
Ma un principio che governa mente e spirito non può non contenere
in sé le leggi che governano il corpo e la materia, dal momento che queste
due polarità dell'essere coesistono nel creato integrate in unità viventi; e
quindi il principio di complementarità non tarderebbe ad estendere la
propria validità al mondo fisico e a rivelarsi come principio autenticamente
e compiutamente universale.
In questa prospettiva sarebbe definitivamente risolto il millenario
problema filosofico dell'identificazione della verità o della sua
definizione: la conformità al Principio diventerebbe il criterio ultimo di
verità, e la forma dialettica, come pensava Platone, diventerebbe la forma
tipica o paradigmatica della verità stessa, il suo 'marchio' di
riconoscimento.
Persino la teologia, trasformando Dio in un Principio ultimo di
validità dimostrabile, realizzerebbe i sogni di teologi come S. Tommaso d'Aquino
o Anselmo d'Aosta e si trasformererebbe in una vera e propria scienza.
E' vero che Dio può essere definito in una infinità di modi ma,
grazie al Principio, una tale molteplicità può essere ricondotta a una
dualità di opposti - o ad una molteplicità di dualità - e queste, a loro
volta, ad una unità superiore.
Insomma, l'introduzione di un principio universale nel sapere
produrrebbe conseguenze rivoluzionarie e dirompenti per l'intera cultura,
innovazioni di portata epocale, anzi, ...mitica. E' per questo che sono
numerosissimi i miti, oltre al mito dell'alchimia, che prefigurano
simbolicamente una tale possibilità, non senza toni trionfalistici e
messianici. Dalla vittoria di Teseo sull'enigma del Labirinto, la cui
soluzione era legata a un misterioso unico filo - logico? - capace di
condurre l'eroe fino al cuore del malefico enigma, alla cristiana
"resurrezione del Logos", in cui l'eroe che risorge è l'incarnazione di un
Principio trascendente e simbolo della Verità ultima, del Verbum Dèi
incarnato nella parola umana; dalle Tavole di Mosè in cui Dio si incarna
come Legge, al Taoismo che contempla in una dualità di principi cosmici
immanenti (Yin e Yang) l'incarnazione di un Principio unico trascendente (il
Tao, di forma circolare); dalla promessa luciferina legata al frutto dell'Albero
della Conoscenza ("...e voi sarete come dèi"), o dell'Albero della Croce,
alla saga del Graal, in cui l'eroe dai molti nomi (Parzifal, Re Artù,
Merlino, ecc., restaura la sovranità e l'unità in un regno decaduto e
diviso, grazie ai poteri risanatori di un misterioso rimedio (il santo
Graal) che riassume in sé una molteplicità di significati coincidenti o
sovrapponibili con quelli della Pietra filosofale: 1 - fonte di conoscenza e
di saggezza, 2 - unione di principi opposti, 3 - autorità regale, 4 -
medicina del corpo e dello spirito, 5 - frutto di una ricerca in territori
lontani, ecc.; senza contare tutte le favole in cui alla fine sarà sempre un
princip...e a salvare la nobile e immatura fanciulla (la filosofia?) dalla
servitù di sorellastre saccenti, o dalle minacce di una regina potente,
vanitosa, e zitella (la scienza?), o a risvegliarla dal sonno ...della
ragione.
Tanta mitica solennità non è ingiustificata, se pensiamo che l'introduzione
di un fondamento universale nel sapere potrebbe rappresentare davvero l'Alfa
e l'Omega della cultura umana, il suo principio e il suo fine, il suo
cardine metafisico e la sua meta storica, il suo coronamento ultimo e il
principio di un nuovo cammino.
Oltre a promuovere tutte le discipline della cultura a vere e
proprie scienze rigorose (una scienza è tale quando, dalla descrizione
oggettiva, rigorosa e analitica degli eventi, dei fatti, dei fenomeni,
perviene alla descrizione del loro ordine, cioè, delle leggi e dei principi
che li governano), complementerebbe in sé le scienze "del cielo" con le
scienze "della terra", come una grande "Arca dell'Alleanza" nella quale
degli archetipi teologici, o filosofici, o mitologici (la trinità, la croce,
la harmonia praestabilita, l'alternanza yin-yang, ecc.) possono diventare
illuminanti e geniali paradigmi della logica, della storia, della psicologia
o della fisica, come pure immaginava H. Hesse in "Il gioco delle perle di
vetro".
Si realizzerebbe così una specie di "moneta unica" del sapere
grazie alla quale una scoperta in qualunque campo disciplinare
comporterebbe, per traslazione, una analoga scoperta in ciascuno degli
altri. Cioè si produrrebbe conoscenza non più solo a partire dall'osservazione
oggettiva ma anche e soprattutto a partire dalla riflessione filosofica o da
una rigorosa speculazione ...teologica o, chissà, musicale (una orchestra è
l'archetipo dell'unione degli opposti da molti punti di vista, il più
evidente dei quali è l'unità della molteplicità), o etica (una virtù
autentica è sempre un equilibrio armonico di qualità opposte, per es.:
coraggio e umiltà, libertà e obbedienza etica, giustizia e magnanimità,
sentimento e ragione, ecc.), o semantica (un concetto è utile e illuminante
quando armonizza e unifica in sé una pluralità di significati, compresi
quelli di segno opposto; per es.: la verità vista come unità di soggetto e
oggetto, di analisi e sintesi, di immanenza e trascendenza, di particolare e
universale, di tesi e antitesi, di matematica e fisica, ecc.).
Non più solo dall'osservazione disciplinare ai principi, ma anche e
soprattutto dal principio alla sua verifica (o applicazione) disciplinare.
Si tratterebbe, cioè, di una vera e propria democratizzazione del sapere, di
un suo decentramento dalle mani esclusive dei padroni della ricerca
tecnologico-specializzata e di un recupero della speculazione metafisica
come polarità complementare indispensabile alla conoscenza al pari della
polarità osservativo-sperimentale.
Non più l'immagine disperante di una conoscenza fatta di tante
conoscenze separate in espansione infinita su un territorio virtualmente
senza limiti e senza forma ultima, qual è l'immagine ingenua degli
epistemologi moderni, ma una conoscenza che si racchiude e si raccoglie
attorno ad un medesimo centro (il Principio) e nella quale si rende
possibile "raggiungere l'oriente navigando verso occidente", o in senso
epistemico-filosofico, pervenire a una medesima conclusione partendo da due
logiche diametralmente opposte, che è la proprietà fondamentale del processo
dialettico.
In altri termini, una conoscenza nuovamente aperta alla
sacralizzazione, nella quale "l'ipotesi di Dio" - che Laplace aveva creduto
di poter esiliare dagli orizzonti del sapere - ridiventa necessaria, anzi,
determinante e fondante.
Un Principio dà finitezza al sapere senza porgli dei limiti,
proprio come l'universo non-euclideo concepito da Einstein è "illimitato, ma
finito". Con un Principio, cioè, il sapere acquisisce finitezza nel senso
dell'estensione disciplinare (il numero delle scienze è finito e, per
ciascuna scienza, è finito il numero delle leggi e degli assiomi
fondamentali), ma non si pongono limiti nel senso della profondità di
analisi (sia disciplinare che interdisciplinare), nello stesso modo in cui
in geometria si passa dall'infinità dei punti di una superficie geometrica
infinita, priva di centro e di forma, all'infinità dei punti della
superficie geografica della Terra, dotata di forma, di centro (che trascende
la superficie) e persino di due poli naturali. Di fatto, la scoperta della
finitezza della superficie terrestre non ha posto limiti alla crescita della
Geografia né come scienza né come esplorazione ma, al contrario, ha creato
le condizioni necessarie per la piena realizzazione di entrambi i suoi
aspetti.
Non è casuale che la simbologia di tutte le tradizioni (§ 2.20)
identifichi il creato con un cerchio e il Principio divino con il centro.
Qualche esempio:
"Questo punto centrale e primordiale è identico al «santo palazzo» della
Qabbalah ebraica; nella sua essenza, esso non è localizzato, poiché è
assolutamente indipendente dallo spazio, che non è se non il risultato della
sua espansione o del suo indefìnito sviluppo in tutti i sensi, e, di
conseguenza, da lui deriva per intero: «Trasferiamoci in spirito fuori di
questo mondo di dimensioni e di localizzazioni, e non si tratterà più di
dare una sede al Principio». [...] Il punto primordiale, pur rimanendo
sempre essenzialmente «non localizzato» (appunto per questo, nulla può
influenzarlo o modifìcarlo), si fa centro di questo spazio, cioè, centro di
tutta la manifestazione universale ". [R. GUÉNON: Il simbolismo della
croce - pg.75]
"Il centro è anche simbolo della legge organizzatrice: a questo proposito si
parla di 'potere centrale' che organizza lo Stato e, a un livello superiore,
l'universo, l'evoluzione biologica e l'ascesa spirituale. [...] Il centro
può essere considerato un'immagine del mondo, un microcosmo che contiene in
sé tutte le virtualità dell'universo". [CHEVALIER - GHEERBRANT: Dizionario
dei simboli - pg. 243]
"Posto al centro della «ruota cosmica», il saggio perfetto la muove
invisibilmente, in virtù della sua sola presenza, senza partecipare al suo
movimento, e senza preoccuparsi di esercitare una qualsiasi azione. (...)
Questo distacco assoluto ne fa il signore di ogni cosa, poiché, essendo egli
passato al di là di tutte le opposizioni inerenti alla molteplicità, nulla
può più influire su di lui [...]. A forza di ricerca, è pervenuto alla
verità immutabile, alla conoscenza del Principio universale unico". [R.
GUÉNON: Il simbolismo della croce - pp. 72-3]
"L'uomo religioso cerca sempre di stabilire la propria residenza nel "centro
del mondo". Affinché si possa vivere nel mondo, questo deve essere fondato;
e nessun mondo può nascere nel caos dell'omogeneità e dalla relatività dello
spazio profano. La scoperta o la proiezione di un punto fisso - il centro -
equivalgono alla creazione del mondo. L'orientamento e la costruzione
rituale dello spazio sacro posseggono un valore cosmogonico; infatti, il
rituale mediante il quale l'uomo costruisce uno spazio sacro è efficace
nella misura in cui riproduce l'opera degli dèi, cioè la cosmogonia". [M.
ELIADE: Ocultismo, stregoneria e mode culturali - pg. 37]
" Un cerchio e un centro: questa è l'intuizione che domina ai suoi inizi il
pensiero teologico e scientifico dei Greci". [G. TAGLIAVIA: Inizio e
cominciamento - pg.21]
"I concetti greci di essere e di verità sono paragonabili, secondo la
similitudine di Parmenide, a una «sfera perfettamente rotonda», salda nel
suo proprio centro". [E. CASSIRER: Sulla logica delle scienze della
cultura - pg. 5]
"Non dimentichiamo che per l'uomo primitivo, il sapere, la conoscenza
erano - e sono rimasti - epifanie della «Potenza sacra». Chi vede e sa
tutto, può ed è tutto. Talvolta simili Esseri supremi di origine uranica
diventano fondamento dell'Universo, autori e dominatori dei ritmi cosmici, e
tendono a coincidere sia col Principio, o sostanza metafisica dell'Universo,
sia con la Legge, con quel che è eterno e universale nei fenomeni
transitori, nel loro divenire. Legge che gli dèi stessi non possono
abolire". [M. ELIADE: Trattato di storia delle religioni - pg.65]
"[Nell'Alchimia] l'esotico « centro » è sempre dato per perso o per lontano,
si tratta di riconquistarlo, d'inventarlo, di farlo nascere; e soprattutto
di riconoscerlo come confacente allo scopo prefìssato, allontanandosi,
quanto più è possibile, dalle smagliature di un infìnito terrorizzante".
[S. ANDREANI: Alchimia: per una semiologia del sacro - pg. 23]
"Il centro è innanzi tutto il Principio, il Reale assoluto; il centro dei
centri non può essere che Dio. Scrive Nicola Cusano: "I poli della sfera
coincidono con il centro che è Dio. E' circonferenza e centro, è dappertutto
e in nessun luogo". [CHEVALIER - GHEERBRANT: Dizionario dei simboli - pg.
242]
Esiste una vasta letteratura sul simbolismo della polarità universale (oltre
al Dio-Coniunctio-oppositorum del Cusano) che inclina a pensare al Cosmo (o
alla Conoscenza che vi si rispecchia) come a una sfera bipolare nella quale
i poli rappresentano la proiezione nell'immanenza del Principio centrale
trascendente. L'idea platonica di un cosmo vivente, sferico e androgino è
solo una delle innumerevoli varianti.
Carlo Pierini