Signor K.
2006-09-09 16:12:59 UTC
Qualche sera fa ero in automobile con degli amici. Ad un certo punto abbiamo
assistito ad un'illusione ottica. A circa un chilometro, di fronte a noi,
era posizionato un faro con una luce particolarmente forte. Era posizionato
sul latro sinistro della strada e la sua inclinazione era tale che la luce
veniva sparata in cielo formando un ampio angolo illuminato, forse di 45°.
Il raggio destro dell'angolo copriva l'area del cielo sovrastante il lato
sinistro della strada che stavamo percorrendo. Il raggio di un angolo acuto
viene percepito come se fosse obliquo quando si è di fronte al vertice dell'angolo
stesso. In questo modo il raggio definiva una precisa prospettiva che
partiva dal vertice, in profondità, per poi aprirsi gradatamente. L'effetto
percepito era il seguente: il contrasto tra il cielo illuminato dal faro e
il cielo completamente oscurato era percepito come se sul lato oscuro
fossero presente degli oggetti, molto alti, perfettamente dritti ed a punta.
Un mio amico, che aveva avuto il merito di essersi accorto dell'illusione,
disse subito: «sembra degli alberi, delle sequoie giganti». Il contrasto di
luce e il gioco di prospettiva aveva prodotto un'illusione ottica.
Questo piccolo aneddoto mi permette di introdurre due tipi di problemi
connessi alla coscienza e che Chalmers (Come affrontare il problema della
coscienza, 1995) definisce «problemi facili» e «problemi difficili». I
«problemi facili» sono detti «facili» in quanto le descrizioni fisicaliste o
biologiche impiegate permettono di dare una spiegazione esaustiva, seppur
probabile, di alcuni fenomeni relativi alla mente, senza lasciare alcun tipo
di «gap esplicativo». Nel caso da me esposto possiamo trovare una
spiegazione pera questa illusione ottica. Gregory (Occhio e cervello, 1968)
sostiene che la percezione è un processo di organizzazione degli stimoli
recepiti che si basa su una dinamica «dall'alto verso il basso». Questo
significa che una cosa è l'immagine proiettata sulla retina ed una cosa è
ciò che percepiamo di quella immagine. Nel momento in cui abbiamo percepito
la presenza (illusoria) di alberi cosa è accaduto esattamente? Sulla nostra
retina è stata proiettata un'immagine che poi è stata «interpretata» in un
certo modo dalla nostra percezione e vale a dire che la percezione «ha
valutato» che quell'immagine rappresentasse la presenza di oggetti
longilinei e molto alti, sulla base della raccolta degli stimoli (molto
parziali, a causa delle condizioni ambientali e dell'oscurità). La
percezione «ha vagliato e poi scelto» quella che era l'interpretazione più
probabile sulla base sia degli stimoli ambientali che hanno potuto
raccogliere i miei recettori somatosensitivi e sia sulla base dei miei
schemi mentali determinati dalle mie esperienze passate. Alla domanda:
«perché proprio degli alberi?» possiamo rispondere: perché è più probabile,
così come ci indica la nostra esperienza, che sul ciglio della strada si
trovino degli alberi che dei giganti spaventosi - probabilmente un bimbo con
una fantasia molto fervida avrebbe visto proprio dei giganti spaventosi.
Come sostiene ancora Gregory, un'illusione è più forte quando l'immagine è
proiettata in una situazione familiare che contribuisce in modo più o meno
determinante all'illusione. In questo caso la «situazione familiare» era il
fatto comune che sul lato delle strade si trovino degli alberi. Dunque in
modo molto semplicistico, ma anche plausibile, abbiamo dato una spiegazione
del come si sia prodotta l'illusione da me raccontata.
La questione si complica seriamente quando invece ci chiediamo «che cosa
abbiamo visto quando vedevamo l'illusione ottica». Non posso percepire ciò
che percepisce l'altro né l'altro può percepire ciò che percepisco io. Qui
entriamo nella dimensione dei «problemi difficili». I «problemi difficili»
sono quelli relativi ai qualia dell'esperienza, cioè delle proprietà che
possono appartenere ad una certa esperienza: il sapore del latte fresco, il
dolore per una ferita, l'illusione ottica. Sono detti «difficili» perché la
spiegazione fisico-biologica di tali fenomeni, ad esempio quello del
«dolore», sembrerebbe lasciar fuori qualcosa di fondamentale all'esperienza
del dolore: «come ci si sente quando si sente dolore». I qualia sembrano
resistere a qualsiasi spiegazione o descrizione fisico-biologica. Io posso
sapere come mi sento quando sento dolore, ma non posso sapere come si sente
l'altro, né se l'altro se dolore così come lo sento io. C'è stato chi, come
Dennett (Quainare i qualia, 1985), ha addirittura negato l'esistenza dei
qualia, e c'è chi li ha difesi strenuamente. È il caso di Jackson (Ciò che
Mary non sapeva, 1986).
Jackson immagina una ragazza, Mary, che è vissuta solamente in una camera in
cui gli unici colori presenti sono il bianco e il nero. Qui tuttavia ha
potuto studiare in modo serio ed approfondito tutto ciò che riguarda i
colori, come ad esempio il fatto che essi derivano dalla frequenza delle
onde elettromagnetiche che toccano la retina, la quale a sua volta ha dei
fotorecettori, coni e bastoncelli, composti da pigmenti (una sostanza
chimica chiamata «radopsina») che, a seconda della frequenza dell'onda,
assorbono la luce scolorandosi. In breve: il colore si genera a seconda
della frequenza delle onde elettromagnetiche che colpiscono la retina. Il
«rosso» percepito quindi corrisponde ad una determinata frequenza
(percepibile), così come il «blu» e il «verde». Mary ha studiato fisiologia
e biologia e sa cos'è il rosso. Tuttavia supponiamo che un giorno qualsiasi
Mary sia liberata e possa vedere finalmente il mondo a colori. Se vedesse il
rosso lo riconoscerebbe pur sapendo «cos'è il rosso»? La risposta è
evidentemente: «No». Ci troviamo di fronte ad un paradosso bello e buono,
ossia Mary sa cos'è il rosso e, allo stesso tempo, non sa cos'è il rosso.
Probabilmente dovrà esserci qualcuno che le indichi una mela rossa e le
dica: «Ecco questo è il rosso». Lei probabilmente risponderebbe «Ah! Ecco
cos'è il rosso!». Si tratta del «gap esplicativo» di cui si parlava in
precedenza e che distingue i processi fisiologici della percezione del
colore e l'esperienze o qualia del rosso. Possiamo dire che il rosso è
determinato da una frequenza determinata dello spettro elettromagnetico ma,
ed è proprio questo il problema, non possiamo perché è rosso, cioè perché
vediamo che qualcosa è rosso e non verde. Se la descrizione esperienziale
del rosso non è riducibile ad una descrizione fisica, allora l'esperienza
dei qualia non è spiegabile in chiave fisicalista.
Chalmers ha sostenuto che la resistenza alle descrizioni fisiche dei qualia
è dovuto non al fatto che essi siano qualcosa di «ineffabile e misterioso»,
ma al fatto che non siano riducibili agli elementi conosciuti della fisica:
sono irriducibili. Ciò che era irriducibile in fisica viene introdotto come
elemento fondamentale (vedi la massa o l'energia). Pertanto l'esistenza dei
qualia deve essere assunta come elemento fondamentale ed irriducibile,
ampliando ed aggiornando così la nostra visione naturalistica del mondo. Per
Chalmers non si tratta di inserire un elemento soprannaturale ma di
arricchire la nostra visione naturalistica aggiungendo un nuovo elemento,
così come accadde per la fisica quantistica. Conservando l'irriducibilità
della coscienza e, allo stesso tempo, facendola rientrare in una visione
naturalistica, Chalmers ha chiamato questa sua posizione «dualismo
naturalistico».
Putnam (La natura degli stati mentali, 1975) risponderebbe che il rosso,
come il dolore, sono processi fisiologici ed è uno sbaglio scambiarli per
qualità oggettive o proprietà dell'esperienza. Tuttavia la posizione di
Chalmers resiste anche all'idea di processo fisiologico. Il rosso può essere
certamente l'esito di un processo fisiologico, ma ciò non spiega perché
percepiamo l'esito di tale processo. Se il processo implica una serie di
entrate ed una serie di uscite, dovremmo allora sostenere che l'esperienza
del dolore o del rosso implicano una sorta di testimone o spettatore che
riceve le informazioni elaborate dal processo (il rosso o il dolore appunto)
e poi trasmesse in output, ritornando così alla famigerata idea del
«fantasma nella macchina». Così anche se ammettiamo il rosso come processo
dobbiamo necessariamente ammettere l'esistenza di un soggetto che percepisce
l'esito di questo processo.
Non condivido la posizione di Chalmers, ma non posso dilungarmi ora a
riguardo. Mi limito qui a sollevare un quesito: il cervello ha, tra le
altre, la funzione di distinguere, ad esempio, il rosso dal verde? La mia
risposta è: sì, ma questo non implica assolutamente l'esistenza di un quale,
semplicemente la facoltà di discriminazione cromatica del cervello dipende
dalla differenza di frequenza delle onde dello spettro. Possiamo dire:
esistono il verde o il rosso? La risposta è: no, esiste una differenza di
frequenza nello spettro che attiva un processo fisiologico e percettivo
funzionale all'interazione dell'ambiente.
K.
assistito ad un'illusione ottica. A circa un chilometro, di fronte a noi,
era posizionato un faro con una luce particolarmente forte. Era posizionato
sul latro sinistro della strada e la sua inclinazione era tale che la luce
veniva sparata in cielo formando un ampio angolo illuminato, forse di 45°.
Il raggio destro dell'angolo copriva l'area del cielo sovrastante il lato
sinistro della strada che stavamo percorrendo. Il raggio di un angolo acuto
viene percepito come se fosse obliquo quando si è di fronte al vertice dell'angolo
stesso. In questo modo il raggio definiva una precisa prospettiva che
partiva dal vertice, in profondità, per poi aprirsi gradatamente. L'effetto
percepito era il seguente: il contrasto tra il cielo illuminato dal faro e
il cielo completamente oscurato era percepito come se sul lato oscuro
fossero presente degli oggetti, molto alti, perfettamente dritti ed a punta.
Un mio amico, che aveva avuto il merito di essersi accorto dell'illusione,
disse subito: «sembra degli alberi, delle sequoie giganti». Il contrasto di
luce e il gioco di prospettiva aveva prodotto un'illusione ottica.
Questo piccolo aneddoto mi permette di introdurre due tipi di problemi
connessi alla coscienza e che Chalmers (Come affrontare il problema della
coscienza, 1995) definisce «problemi facili» e «problemi difficili». I
«problemi facili» sono detti «facili» in quanto le descrizioni fisicaliste o
biologiche impiegate permettono di dare una spiegazione esaustiva, seppur
probabile, di alcuni fenomeni relativi alla mente, senza lasciare alcun tipo
di «gap esplicativo». Nel caso da me esposto possiamo trovare una
spiegazione pera questa illusione ottica. Gregory (Occhio e cervello, 1968)
sostiene che la percezione è un processo di organizzazione degli stimoli
recepiti che si basa su una dinamica «dall'alto verso il basso». Questo
significa che una cosa è l'immagine proiettata sulla retina ed una cosa è
ciò che percepiamo di quella immagine. Nel momento in cui abbiamo percepito
la presenza (illusoria) di alberi cosa è accaduto esattamente? Sulla nostra
retina è stata proiettata un'immagine che poi è stata «interpretata» in un
certo modo dalla nostra percezione e vale a dire che la percezione «ha
valutato» che quell'immagine rappresentasse la presenza di oggetti
longilinei e molto alti, sulla base della raccolta degli stimoli (molto
parziali, a causa delle condizioni ambientali e dell'oscurità). La
percezione «ha vagliato e poi scelto» quella che era l'interpretazione più
probabile sulla base sia degli stimoli ambientali che hanno potuto
raccogliere i miei recettori somatosensitivi e sia sulla base dei miei
schemi mentali determinati dalle mie esperienze passate. Alla domanda:
«perché proprio degli alberi?» possiamo rispondere: perché è più probabile,
così come ci indica la nostra esperienza, che sul ciglio della strada si
trovino degli alberi che dei giganti spaventosi - probabilmente un bimbo con
una fantasia molto fervida avrebbe visto proprio dei giganti spaventosi.
Come sostiene ancora Gregory, un'illusione è più forte quando l'immagine è
proiettata in una situazione familiare che contribuisce in modo più o meno
determinante all'illusione. In questo caso la «situazione familiare» era il
fatto comune che sul lato delle strade si trovino degli alberi. Dunque in
modo molto semplicistico, ma anche plausibile, abbiamo dato una spiegazione
del come si sia prodotta l'illusione da me raccontata.
La questione si complica seriamente quando invece ci chiediamo «che cosa
abbiamo visto quando vedevamo l'illusione ottica». Non posso percepire ciò
che percepisce l'altro né l'altro può percepire ciò che percepisco io. Qui
entriamo nella dimensione dei «problemi difficili». I «problemi difficili»
sono quelli relativi ai qualia dell'esperienza, cioè delle proprietà che
possono appartenere ad una certa esperienza: il sapore del latte fresco, il
dolore per una ferita, l'illusione ottica. Sono detti «difficili» perché la
spiegazione fisico-biologica di tali fenomeni, ad esempio quello del
«dolore», sembrerebbe lasciar fuori qualcosa di fondamentale all'esperienza
del dolore: «come ci si sente quando si sente dolore». I qualia sembrano
resistere a qualsiasi spiegazione o descrizione fisico-biologica. Io posso
sapere come mi sento quando sento dolore, ma non posso sapere come si sente
l'altro, né se l'altro se dolore così come lo sento io. C'è stato chi, come
Dennett (Quainare i qualia, 1985), ha addirittura negato l'esistenza dei
qualia, e c'è chi li ha difesi strenuamente. È il caso di Jackson (Ciò che
Mary non sapeva, 1986).
Jackson immagina una ragazza, Mary, che è vissuta solamente in una camera in
cui gli unici colori presenti sono il bianco e il nero. Qui tuttavia ha
potuto studiare in modo serio ed approfondito tutto ciò che riguarda i
colori, come ad esempio il fatto che essi derivano dalla frequenza delle
onde elettromagnetiche che toccano la retina, la quale a sua volta ha dei
fotorecettori, coni e bastoncelli, composti da pigmenti (una sostanza
chimica chiamata «radopsina») che, a seconda della frequenza dell'onda,
assorbono la luce scolorandosi. In breve: il colore si genera a seconda
della frequenza delle onde elettromagnetiche che colpiscono la retina. Il
«rosso» percepito quindi corrisponde ad una determinata frequenza
(percepibile), così come il «blu» e il «verde». Mary ha studiato fisiologia
e biologia e sa cos'è il rosso. Tuttavia supponiamo che un giorno qualsiasi
Mary sia liberata e possa vedere finalmente il mondo a colori. Se vedesse il
rosso lo riconoscerebbe pur sapendo «cos'è il rosso»? La risposta è
evidentemente: «No». Ci troviamo di fronte ad un paradosso bello e buono,
ossia Mary sa cos'è il rosso e, allo stesso tempo, non sa cos'è il rosso.
Probabilmente dovrà esserci qualcuno che le indichi una mela rossa e le
dica: «Ecco questo è il rosso». Lei probabilmente risponderebbe «Ah! Ecco
cos'è il rosso!». Si tratta del «gap esplicativo» di cui si parlava in
precedenza e che distingue i processi fisiologici della percezione del
colore e l'esperienze o qualia del rosso. Possiamo dire che il rosso è
determinato da una frequenza determinata dello spettro elettromagnetico ma,
ed è proprio questo il problema, non possiamo perché è rosso, cioè perché
vediamo che qualcosa è rosso e non verde. Se la descrizione esperienziale
del rosso non è riducibile ad una descrizione fisica, allora l'esperienza
dei qualia non è spiegabile in chiave fisicalista.
Chalmers ha sostenuto che la resistenza alle descrizioni fisiche dei qualia
è dovuto non al fatto che essi siano qualcosa di «ineffabile e misterioso»,
ma al fatto che non siano riducibili agli elementi conosciuti della fisica:
sono irriducibili. Ciò che era irriducibile in fisica viene introdotto come
elemento fondamentale (vedi la massa o l'energia). Pertanto l'esistenza dei
qualia deve essere assunta come elemento fondamentale ed irriducibile,
ampliando ed aggiornando così la nostra visione naturalistica del mondo. Per
Chalmers non si tratta di inserire un elemento soprannaturale ma di
arricchire la nostra visione naturalistica aggiungendo un nuovo elemento,
così come accadde per la fisica quantistica. Conservando l'irriducibilità
della coscienza e, allo stesso tempo, facendola rientrare in una visione
naturalistica, Chalmers ha chiamato questa sua posizione «dualismo
naturalistico».
Putnam (La natura degli stati mentali, 1975) risponderebbe che il rosso,
come il dolore, sono processi fisiologici ed è uno sbaglio scambiarli per
qualità oggettive o proprietà dell'esperienza. Tuttavia la posizione di
Chalmers resiste anche all'idea di processo fisiologico. Il rosso può essere
certamente l'esito di un processo fisiologico, ma ciò non spiega perché
percepiamo l'esito di tale processo. Se il processo implica una serie di
entrate ed una serie di uscite, dovremmo allora sostenere che l'esperienza
del dolore o del rosso implicano una sorta di testimone o spettatore che
riceve le informazioni elaborate dal processo (il rosso o il dolore appunto)
e poi trasmesse in output, ritornando così alla famigerata idea del
«fantasma nella macchina». Così anche se ammettiamo il rosso come processo
dobbiamo necessariamente ammettere l'esistenza di un soggetto che percepisce
l'esito di questo processo.
Non condivido la posizione di Chalmers, ma non posso dilungarmi ora a
riguardo. Mi limito qui a sollevare un quesito: il cervello ha, tra le
altre, la funzione di distinguere, ad esempio, il rosso dal verde? La mia
risposta è: sì, ma questo non implica assolutamente l'esistenza di un quale,
semplicemente la facoltà di discriminazione cromatica del cervello dipende
dalla differenza di frequenza delle onde dello spettro. Possiamo dire:
esistono il verde o il rosso? La risposta è: no, esiste una differenza di
frequenza nello spettro che attiva un processo fisiologico e percettivo
funzionale all'interazione dell'ambiente.
K.